«La personalità di Piero Calamandrei», scrive Giovanni Pugliese (1979, p. VI), «era affascinante non solo per la ricchezza morale e la passione civile che l’animava ma anche per la vastità degli orizzonti culturali, l’intensità dei sentimenti, l’eleganza e l’arguzia della parola. Ma forse il suo valore più profondo stava nel suo carattere composito e multiforme. In Calamandrei, invero, convivevano l’avvocato, il giurista teorico (o, come suole impropriamente dirsi, 'dogmatico'), il letterato, lo storico del diritto, lo scrittore politico». Mauro Cappelletti (1966, p. VI) ha messo in risalto come «da Calamandrei sempre il diritto [sia] concepito come fenomeno non puramente normativo, tecnico, astratto, ma come elemento di una più ampia esperienza culturale, elemento essenziale della cultura dell’uomo e della società, profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni da un lato, nelle esigenze sociali economiche ideali di evoluzione e di trasformazione dall’altro lato. Ed è la passione politica, sociale, culturale che fa di Calamandrei giurista, forse il meno ‘puro’ ma, nonostante questo od anzi proprio per questo, il più complesso ed avvincente e certamente uno dei più rilevanti e significativi, sul piano interno ed internazionale tra i giuristi italiani del Novecento».
Calamandrei nasce a Firenze il 21 aprile 1889 da una famiglia di giuristi toscani. Il padre, Rodolfo, è avvocato, professore di diritto commerciale all’Università di Siena e deputato al Parlamento per il Partito repubblicano dal 1906 al 1908. Il nonno Agostino è magistrato. Padre e nonno sono le figure dominanti nella formazione morale e culturale del giovane Calamandrei, come egli stesso ci testimonia nell’affascinante libro di ricordi Inventario della casa di campagna (1941, 19452).
Nel 1912 Calamandrei si laurea a Pisa in giurisprudenza con una brillante tesi in diritto processuale civile discussa con Carlo Lessona. Nel 1914 una borsa per studi di perfezionamento lo porta a Roma, alla scuola di Giuseppe Chiovenda, il fondatore della moderna scienza processual-civilistica italiana, e anche colui che Calamandrei, per tutta la vita, onorerà come suo grande maestro e della cui opera sarà il più efficace continuatore. Nel 1915 Calamandrei ottiene la cattedra di procedura civile all’Università di Messina.
Interventista, partecipa alla Prima guerra mondiale come volontario, iniziandola con il grado di sottotenente e terminandola con quello di capitano e la decorazione della croce di guerra.
Dopo la fine della guerra torna all’insegnamento universitario, passando nel 1918 all’Università di Modena. Dal 1920 al 1924 è professore ordinario di diritto processuale civile presso l’Università di Siena.
Nel 1920 crea a Firenze, insieme a Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Alessandro Levi, Nello Tarquandi e altri il Circolo della cultura, che nel dicembre 1924 verrà devastato dai fascisti. Nel 1925 firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce ed entra a far parte dell’Unione nazionale fondata da Giovanni Amendola.
Dal 1924 è professore all’Università di Firenze. Accanto al magistero universitario svolge intensamente e brillantemente la professione di avvocato ed è impegnato in un’importante opera di organizzatore culturale, fondando, nel 1924, la «Rivista di diritto processuale civile» (di cui sarà prima redattore capo e poi direttore insieme a Chiovenda e Francesco Carnelutti), nel 1926 «Il Foro toscano» (con Enrico Finzi, Lessona e Giulio Paoli), nel 1932 la collana di Studi sul processo civile.
Nel 1941 Calamandrei aderisce al movimento Giustizia e libertà. L’anno successivo è tra i fondatori del Partito d'azione, ed è espressamente indicato tra lo «sparuto gruppo di intellettuali bigi» su cui punta il dito il settimanale fascista fiorentino «Il Bargello» in un fondo dal titolo Giù la maschera, messeri.
Nel maggio 1943, il «noto antifascista» Calamandrei viene denunciato per «offese al Duce» e, colpito da mandato di cattura, è costretto a rifugiarsi a Colicello Umbro, un piccolo paese vicino ad Amelia, fino all’estate del 1944.
Il 28 agosto 1944, dopo una tappa a Roma che è stata liberata, è di nuovo a Firenze. Si apre così un periodo particolarmente intenso e appassionato della sua vita.
Dal settembre 1944 all’ottobre 1947 guida con continuità l’Ateneo fiorentino in veste di rettore. In qualità di docente, tiene, presso la facoltà giuridica, il corso di procedura civile e quello di diritto costituzionale. Per otto anni, dal 1945 al 1953, è impegnato nell'attività parlamentare, prima come membro della Consulta nazionale (1945-46) e dell’Assemblea costituente (1946-48), poi come deputato della prima legislatura repubblicana. Nell’aprile del 1945 fonda, insieme a Corrado Tumiati, la rivista «Il Ponte», che rappresenterà uno degli strumenti più incisivi della sua battaglia civile in favore del risanamento dei costumi e dell’attuazione della carta costituzionale.
Come uno dei protagonisti più prestigiosi dell’avvocatura italiana, nel 1947 viene eletto presidente del Consiglio nazionale forense, ruolo che ricopre fino al giorno della morte, avvenuta a Firenze il 27 settembre 1956.
Per Calamandrei, diritto e studio del diritto non furono mai né mera accettazione esegetica di testi né pura elaborazione dogmatica e ricostruzione di concetti. Nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1921-22, tenuto all’Università di Siena il 13 novembre 1921, egli mette in guardia contro le
esagerazioni cui sono giunti di recente anche in Italia certi seguaci intransigenti del metodo tecnico-giuridico, i quali, ritenendo estranea al campo del giurista ogni indagine che non miri all’astratta costruzione dogmatica degli istituti positivi, hanno rimpicciolito la nostra scienza ad una specie di giuoco cinese altrettanto ingegnoso quanto inconcludente. Anche a voler ammettere la validità e le benemerenze dell’indirizzo dogmatico, è certo però che esso non può pretendere di negare che il giurista, dopo aver studiato da un punto di vista strettamente dogmatico gli istituti vigenti in iure condito non possa e non debba poi coscientemente mettere gli stessi istituti in relazione ai fini sociali che essi devono raggiungere e, ricercando in che misura essi siano in pratica mezzi adeguati al raggiungimento di questi fini, farne la critica in iure condendo. La scienza del diritto, se rinuncia ad ogni valutazione critica delle istituzioni vigenti, si condanna ad essere vuota accademia, tagliata fuori dalla vita che è perpetuo movimento (Governo e magistratura, «Annuario accademico della Regia Università di Siena», 1921-1922, poi in Opere giuridiche, 2° vol., 1966, p. 196).
Queste affermazioni non sono destinate a rimanere mere enunciazioni di principio, ma si traducono in un atteggiamento propositivo che proprio nella prolusione senese trova una manifestazione particolarmente significativa. E così questo discorso è una lucida e approfondita denuncia del modo in cui l’ordinamento giudiziario consente al potere politico di interferire sull’attività dei giudici. A questa situazione vengono contrapposti i principi, fondamentali nel moderno Stato di diritto, dell’indipendenza del giudice e dell’autonomia del potere giudiziario, intesi come condizioni essenziali per l’attuazione del principio di legalità.
Il discorso si chiude con alcune precise rivendicazioni, come l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo e la conseguente attuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la ricostituzione dell’unità della giurisdizione mediante la trasformazione di tutte le giurisdizioni speciali in sezione specializzate della magistratura ordinaria e la realizzazione di una forma di autogoverno della magistratura.
Sono proposte che, dopo la caduta del fascismo, Calamandrei presenterà, ulteriormente elaborate e precisate, prima nella Relazione preliminare (1945) alla commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato (la cosiddetta commissione Forti) e poi nella Relazione del deputato Piero Calamandrei sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale (1946) alla seconda sottocommissione della commissione per la costituzione dell’Assemblea costituente. Proposte che confluiranno in larga parte negli articoli 101, 102, 104, 106 e 110 della Costituzione repubblicana.
Il periodo tra la fine della Prima guerra mondiale e la metà degli anni Trenta è per Calamandrei la stagione dei grandi lavori processual-civilistici di carattere sistematico-positivo, e lo vede come uno dei grandi protagonisti della nuova e prestigiosa scuola processual-civilistica italiana fondata da Chiovenda, che avverte la ristrettezza del metodo di analisi della scuola esegetica di stampo francese, volgendo la mente a una costruzione sistematica e colta del diritto.
In questo quadro di rinnovamento culturale e scientifico si inserisce il monumentale trattato in due volumi La Cassazione civile (1920; poi in Opere giuridiche, 6° e 7° vol., 1976), in cui la ricostruzione storica dell’istituto costituisce il presupposto della ricostruzione dogmatica, e la ricostruzione dogmatica offre i criteri teorici per una critica de iure condendo. Una grande opera, che diventa l’insostituibile punto di riferimento da cui ogni serio studio del tema deve prendere le mosse.
Anche su altri temi, un imponente complesso di saggi, studi e monografie ci consegna Calamandrei non solo ‘decoratore’ dell’edificio chiovendiano, ma grande autonomo maestro per le generazioni future.
Ciò vale per lo studio Il procedimento monitorio nella legislazione italiana (1926), che di uno degli aspetti fondamentali della moderna tematica della effettività della protezione dei diritti offre le ricostruzioni tecniche oltre che le indicazioni di un’adeguata regolamentazione, così come per la splendida Introduzione allo studio sistematico dei procedimenti cautelari (1936), un insieme di concetti e di premesse che nessuno ha poi modificato.
E ancora, vale per i saggi Per la definizione del fatto notorio («Rivista di diritto processuale civile», 1925, 4, pp. 273-304, poi in Opere giuridiche, 5° vol., 1972, pp. 425-52) e Verità e verosimiglianza nel processo civile («Rivista di diritto processuale civile», 1955, 3, pp. 164-92, poi in Opere giuridiche, 5° vol., cit., pp. 615-40), che diventano il vero punto di partenza per gli studi sulle prove, così come vale per le indagini sulla sentenza, che aprono la strada a un nuovo settore di studi: quello della logica del giudice, punto di incontro tra la scienza del diritto e un certo settore del pensiero filosofico; un settore in cui il pensiero di Calamandrei, dopo una visione sillogistica del giudizio, approda a un dialogo con Croce e Guido Calogero.
E la sensibilità di Calamandrei per gli aspetti che più incisivamente riflettono la moderna fisionomia della giustizia civile si coglie negli studi dedicati al processo sui diritti indisponibili. Nell’evoluzione successiva della legislazione questo settore ha assunto un ruolo centrale, al di là della tradizionale area del diritto delle persone e della famiglia.
Dalla metà degli anni Venti, l’attenzione di Calamandrei si dispiega con ricchezza di motivi anche verso i problemi della riforma del codice di procedura civile. Le occasioni per intervenire in modo organico in materia sono offerte prima dalla pubblicazione del progetto di Carnelutti (Progetto del codice di procedura civile presentato alla sottocommissione reale per la riforma del codice di procedura civile, 1926), che, con alcune modifiche, diventa il progetto che la commissione reale presenta al ministro della Giustizia Alfredo Rocco il 24 giugno 1926, e poi dalla presentazione del progetto preliminare del successivo ministro, Arrigo Solmi (Ministero di Grazia e giustizia, Codice di procedura civile: progetto preliminare e relazione, 1937).
La fase più delicata per Calamandrei si apre quando, alla fine del 1939, il nuovo guardasigilli Dino Grandi, da pochi mesi succeduto a Solmi, lo chiama, insieme agli altri due grandi maestri della scienza processual-civilistica italiana, Carnelutti ed Enrico Redenti, per fornire al regime la consulenza tecnica per la redazione di quello che diventerà il codice di procedura civile del 1940. Calamandrei svolge, nella preparazione del codice, un ruolo di primo piano. È tuttavia difficile stabilire in quale misura e su quali istituti egli abbia direttamente influito in un codice che non nasce da un disegno unitario e coerente ma da una serie di complesse mediazioni e compromessi tecnici, nei quali si perde e si confonde il contributo individuale dei loro autori.
D’altronde, al di là dei riferimenti retorici all’«autorità» e agli «interessi dello Stato» o «della Nazione» che si trovano sparsi nella relazione Grandi al codice, quella che viene in realtà accolta è una concezione del processo sostanzialmente rispettosa del principio dispositivo. L’estensione dei poteri del giudice è ammessa entro limiti tali da non compromettere il valore fondamentale dell’autonomia delle parti, e gli spazi del processo inquisitorio sono rigorosamente definiti.
Come scrittore politico, nota Norberto Bobbio nell’Introduzione al primo volume (1966) degli Scritti e discorsi politici di Calamandrei, con la sua opera egli ci ha lasciato in poco più di due lustri, dal 1944 al 1956,
una testimonianza della battaglia per il rinnovamento democratico del nostro Paese, non solo tra le più alte per nobiltà di ispirazione, ma pur tra le più ampie, documentate, illuminanti per la continuità e tempestività degli interventi, per la ricchezza sostanziale dei contenuti, per l’importanza storica dei problemi suscitati e discussi (Bobbio 1966, p. XI).
In un primo periodo, che va dalla liberazione di Firenze (1944) alla proclamazione della Repubblica (1946), i due temi dominanti dei suoi scritti sono la polemica contro i sostenitori della continuità costituzionale dello Stato italiano e la difesa della sovranità della Costituente.
Dopo la caduta del fascismo, il patto di Salerno, la Resistenza e il 25 aprile, la ricostruzione della democrazia in Italia non poteva che fondarsi, per Calamandrei, su di una rottura netta, ‘rivoluzionaria’, con il regime fascista e monarchico. La discontinuità rivoluzionaria doveva manifestarsi attraverso l’affermazione di due principi fondamentali: la sovranità popolare, intesa come principio fondante del nuovo ordinamento democratico, e l’Assemblea costituente, definita come organo straordinario e sovrano in quanto rappresentante diretto della volontà politica del popolo. All’Assemblea costituente doveva essere riservata anche la scelta istituzionale fra monarchia e repubblica. Per questo, egli si oppose vivacemente all’idea di ricorrere al referendum istituzionale. Più tardi, peraltro, riconoscerà che, con il responso del referendum favorevole alla repubblica, ogni pretesto di continuità del nuovo Stato con il precedente ordinamento statutario era definitivamente troncata.
Quale membro dell’Assemblea costituente e della cosiddetta commissione dei 75, incaricata di redigere il progetto della Costituzione, Calamandrei darà un contributo ricchissimo, in cui a un rigore culturale e scientifico di alto livello si uniscono una spiccata passione politica e un forte desiderio di rinnovamento sociale.
Per quanto riguarda la parte organizzativa della Costituzione, Calamandrei si fa assertore di una forma di governo presidenziale che cumuli nel capo dello Stato, eletto direttamente dal popolo, l’ufficio del capo del governo, in modo da assicurare quella continuità e stabilità della politica essenziale per garantire la permanenza della democrazia: «se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato» (La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori della Assemblea costituente, 7° col., 1970, p. 933).
Assai nota è la posizione di Calamandrei sul tema della laicità dello Stato, che lo porta a opporsi con forza all’inserimento nella Costituzione di quello che sarà poi l’art. 7, contenente, da un lato, l’affermazione della 'pari sovranità' dello Stato e della Chiesa cattolica, e, dall’altro, il richiamo acritico ai Patti lateranensi. Calamandrei parla di «innesto confessionale» incompatibile con lo spirito della Costituzione, e individua con chiarezza il problema giuridico che sembrerà poi insolubile negli anni successivi, vale a dire quello della prevalenza o meno delle norme costituzionali su quelle concordatarie. Strettamente connessa alla critica dell’art. 7 è la posizione assunta di fronte alla disposizione del progetto che prevedeva l’indissolubilità del matrimonio, poi respinta anche per effetto del suo intervento.
Determinante fu l’apporto di Calamandrei in tema di ordinamento giudiziario e di formazione della Corte costituzionale come organo supremo di supervisione e di limitazione anche del potere legislativo. Basta la semplice lettura delle sue proposte, formulate sotto forma di articoli di legge nella citata Relazione del 1946 alla commissione Forti, e il loro confronto con i titoli IV e VI della seconda parte della Costituzione repubblicana (che si riferiscono all’autogoverno della magistratura, all’indipendenza e inamovibilità dei magistrati, al controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi), per rendersi conto del contributo da lui offerto al rinnovamento delle istituzioni.
Più complessa è la posizione che egli assume in ordine all’introduzione nella Costituzione dei diritti sociali, accanto e oltre ai diritti classici di libertà. In L’avvenire dei diritti di libertà, la sua ampia introduzione alla seconda edizione (1946) dei Diritti di libertà (1926) di Francesco Ruffini, Calamandrei illustra lucidamente la ragion d’essere e la giustificazione storica dell’affacciarsi nelle costituzioni di una nuova categoria di diritti denominati ‘diritti sociali’, la cui caratteristica è quella di impegnare
lo Stato a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana (in Opere giuridiche, 3° vol., 1968, p. 199).
È una formula che anticipa, in larga misura, quella che sarà adottata nell’art. 3, comma 2, della futura Costituzione. Ma all’Assemblea costituente rinascono i dubbi di Calamandrei sull’azionabilità dei diritti sociali e, con ciò stesso, sull’opportunità di introdurli nella Costituzione, in quanto
in Italia, al momento attuale, non si ha né l’intenzione né la possibilità di accompagnare la loro affermazione con l’enunciazione dei mezzi pratici posti a disposizione del cittadino per farli valere (cit. in P. Barile, Piero Calamandrei all'Assemblea Costituente, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, 1990, pp. 343-44).
La scelta poi adottata dai costituenti, ovvero di affermare nella carta costituzionale un ampio catalogo di ‘nuovi’ diritti, verrà definita da Calamandrei con la frase, diventata famosa, in cui si dice che
per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa (Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, diretto da P. Calamandrei, A. Levi, 1° vol., 1950, p. XXXV).
Uno degli aspetti più significativi nell’itinerario culturale e politico di Calamandrei è rappresentato dal suo costante riferimento al principio di legalità.
Nel ventennio del regime il richiamo alla legalità acquista per lui il significato di una lotta tenace contro il tiranno, di un tentativo di porre dall’interno del sistema un argine concettuale e morale contro l’invadenza accentratrice del potere esecutivo.
Il periodo della riconquistata libertà diventa il momento di un riesame, nutrito di forte tensione morale, del passato culto della legalità in senso formale, «dello sconsolato ossequio alle leggi» ancora professato in La certezza del diritto e la responsabilità della dottrina («Rivista di diritto commerciale», 1942, prima parte, p. 341-58, poi in Opere giuiridiche, 1° vol., 1965, pp. 504-511), elogio del coevo libro di Flavio Lopez de Oñate La certezza del diritto. Questo riesame viene espresso in numerosi scritti, in cui egli denuncia con insistenza il pericolo del giudice legislatore e condanna il ‘diritto libero’.
Negli Appunti sulla legalità, stesi nel 1944 per il corso di integrazione di diritto costituzionale, prende corpo una concezione della «legalità in senso sostanziale» che si ha quando sia negata la «incontrollata onnipotenza del legislatore» e siano tracciati
limiti e procedimenti agli stessi poteri di questo in modo da ottenere che anche la funzione legislativa si ‘legalizzi’, ossia si svolga essa stessa secondo i dettami delle leggi precostituite (n Opere giuiridiche, 3° vol., cit., p. 90).
Negli anni successivi Calamandrei confesserà di avere il sospetto che la pretesa indifferenza del giurista rispetto alla giustizia intrinseca della legge sia «un’illusione», mentre la battaglia per l’attuazione della Costituzione lo porterà a denunciare l’«ostentata immobilità» di certi giudici di fronte al dettato normativo e l’«applicazione alla lettera» di vecchie leggi non più corrispondenti alle mutate esigenze della società (La crisi della giustizia, in La crisi del diritto, a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Padova, 1953, pp. 157-76, poi in Opere giuridiche, 1° vol., cit., pp. 579, 584).
E in uno dei suoi ultimo scritti, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente (1955), riferendosi alla tendenza di certi giudici a considerare le norme costituzionali come «meri programmi» non dotati di efficacia immediata, censurerà
l’atteggiamento agnostico [...], questa specie di ironico gusto, che si intravede tra le righe di certe tendenze della giurisprudenza, di mettere in evidenza la manchevolezza delle leggi e di far ricadere tutte le colpe sull’inerzia del legislatore che non provvede, [atteggiamento che] non corrisponde più ai doveri costituzionali dell’ordine giudiziario, il quale, per accorgersi della Costituzione e delle mete che essa segna, non ha più bisogno di passare attraverso il tramite del legislatore (La funzione della giuirisprudenza nel tempo presente, «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1955, pp. 252-72, poi in Opere giuridiche, 1° vol., cit., pp. 00-01, 612).
Il messaggio che egli consegna alla nuova generazione di studiosi e di pratici del diritto è quello di battersi per una nuova legalità: una legalità attenta ai valori costituzionali.
In questo stesso periodo, in cui il Calamandrei processualista non è disgiungibile dal costituzionalista e l’esperienza dello studioso si unisce a quella del costituente, egli illumina un aspetto del diritto processuale fino ad allora del tutto trascurato, cioè l’aspetto di ordine pubblico (si potrebbe dire di ordine costituzionale) che si scopre nelle norme del processo.
Calamandrei colloca il processo civile nella struttura dello Stato democratico, indicandone la funzione e delineandone le garanzie fondamentali: il processo diventa un capitolo del più generale tema dei rapporti tra cittadino e Stato. Poiché il processo è strumento per un comando, esso deve trovare la sua giustizia nel metodo con il quale il comando è posto, nella struttura prescelta per la sua affermazione. Nel processo, come nella democrazia, la comune occorrenza di un dibattito – il rispetto del contraddittorio – è conseguenza e manifestazione di una comune esigenza: la giustificazione della norma. E una garanzia è la stessa giurisdizione, come da lui presentata già nelle Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice (2 voll., 1941-43), una delle opere di maggiore impegno nella sua produzione scientifica.
Ma è nel celebre volume Processo e democrazia (1954), che raccoglie le famose 'conferenze messicane' – tenute nel 1952 alla facoltà di Diritto dell'Università nazionale del Messico, e che sono una delle testimonianze più vive della risonanza mondiale del suo insegnamento e della sua visione universale del compito della scienza processuale –, che i problemi delle garanzie costituzionali del processo, oggi diremmo i problemi delle garanzie del 'giusto processo', acquistano una profondità e un’ampiezza di prospettive prima sconosciute. A quelle conferenze si deve anche la prima accentuazione 'sociale' del diritto di azione e di difesa con il prepotente imporsi, al centro dell’attenzione, dei problemi della parità delle armi e dell’eguaglianza sostanziale delle parti nel processo.
Meriterebbero di essere ricordate molte altre opere, che testimoniano l’attualità del pensiero di Calamandrei, interprete del suo tempo ma già disegnatore del futuro. Tra queste, sicuramente gli scritti importantissimi La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile (1950) e Corte costituzionale e autorità giudiziaria (1956), dedicati a una nuova forma di giustizia, quella costituzionale, che nei decenni successivi avrà una grandissima espansione in Italia, in Europa, nel mondo. Questi scritti sono ancora oggi il punto di inizio di ogni meditazione sul tema. Anche in questo campo a Calamandrei va riconosciuto il ruolo di un indiscutibile e indiscusso fondatore.
Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, 10 voll., Napoli 1965-1985.
Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, 2 voll., 3 tt., Firenze 1966.
Lettere 1915-1956, a cura di G. Agosti, A. Galante Garrone, 2 voll., Firenze 1968.
Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, 2 voll., Firenze 1982.
M. Cappelletti, In memoria di Piero Calamandrei, Padova 1957.
«Il Ponte», 1958, supplemento al nr. 11: Piero Calamandrei.
N. Bobbio, Introduzione a P. Calamandrei, Scritti e discorsi politici, 1° vol., Firenze 1966, pp. I-LX.
M. Cappelletti, Presentazione a P. Calamandrei, Opere giuridiche, 2° vol., Napoli 1966, pp. V-XXI.
S. Rodotà, Calamandrei Piero, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 16° vol., Roma 1973, ad vocem.
G. Pugliese, Presentazione a P. Calamandrei, Opere giuridiche, 8° vol., Napoli 1979, pp.V-XIII.
A. Galante Garrone, Calamandrei, Milano 1987.
Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano 1990.
Piero Calamandrei rettore dell’Università di Firenze. La democrazia, la cultura, il diritto, a cura di S. Merlini, Milano 2005.
F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli 2007, 20092.