MEDICI, Piero de’ (Piero il Gottoso)
Figlio primogenito di Cosimo (il Vecchio) e di Contessina de’ Bardi, nacque il 14 giugno 1416 a Firenze, nella casa vecchia dei Medici in via Larga. Il M. passò l’infanzia, la giovinezza e buona parte dell’età adulta in questa casa, dove abitavano, oltre ai genitori e al fratello Giovanni, nato nel 1421, anche i nonni, Giovanni di Averardo, il fondatore del banco Medici, e Piccarda Bueri, nonché Lorenzo, fratello minore di Cosimo, con la moglie Ginevra Cavalcanti e il figlio Pierfrancesco, nato nel 1430.
Ben poco si sa dei suoi primi anni di vita. Nel 1425 fu ascritto all’arte del cambio, la corporazione dei cambiavalute e banchieri. Nel 1435 si immatricolò nell’arte della lana e nel 1436 in quella della seta, visto che i Medici, oltre che nelle attività bancarie e commerciali erano impegnati anche nella fabbricazione dei tessuti: già nel 1432 il M. risulta intestatario di una bottega di lana. Nel 1439 si ascrisse all’arte di Calimala, la corporazione dei mercanti. Soltanto nel 1451 però, quando Cosimo cominciò a ritirarsi dagli affari, il M. figura per la prima volta come socio del banco per un quarto del capitale investito, insieme con il fratello Giovanni (per un altro quarto) e il cugino Pierfrancesco (per la metà). Anche se non si hanno notizie a proposito, è tuttavia presumibile che il giovane M. abbia svolto un tirocinio nel banco della famiglia, la cui sede principale si trovava nella casa di via Larga.
È tuttavia certo che il M. ricevette un’ottima educazione umanistica, com’era consuetudine per i rampolli delle grandi famiglie fiorentine. Non è noto però chi fossero i suoi maestri. Forse contava fra di loro quell’Antonio Pacini che, com’è attestato, insegnò il latino a suo fratello Giovanni. È anche possibile che gli umanisti Niccolò Niccoli e Carlo Marsuppini, assidui frequentatori di casa Medici, abbiano contribuito alla sua istruzione nelle lettere antiche. Sicuramente il M. assistette alle lezioni tenute da famosi dotti nello Studio fiorentino che attiravano molti giovani delle migliori famiglie. Francesco Filelfo, che nel 1429 cominciò il suo insegnamento a Firenze, lo chiama suo allievo in una lettera indirizzata a lui molti anni più tardi (Witt). Il dotto cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini che, a quanto pare, in gioventù era stato accolto in casa Medici, ancora nel 1466 gli ricordava di avere studiato insieme con lui «su un medesmo libro udito el maestro» (Lettere, p. 900). Il M. strinse anche un’affettuosa amicizia con Leon Battista Alberti, conosciuto probabilmente tra il 1434 e il 1436 durante il soggiorno di quest’ultimo a Firenze al seguito di papa Eugenio IV, e incontrato di nuovo nel 1438 a Ferrara, dove entrambi si trovavano in occasione del concilio. In quello stesso anno l’Alberti gli indirizzò la versione volgare del suo trattatello De re uxoria. Nella dedica egli loda la cultura umanistica del M. e ricorda il suo grande interesse per tutti i suoi lavori, «tanto che raro passa ora in quale tu non legga e commendi a memoria qualche mio scritto e detto» (p. 303), riferendosi probabilmente anche al Trattato della pittura steso nelle due versioni latina e volgare tra il 1435 e il 1436. Nonostante la tematica matrimoniale del testo dell’Alberti, non pare che il M. stesse allora per sposarsi: la proposta fatta nel 1435 da Cosimo de’ Medici al conte di Battifolle, Francesco Guidi, di dare una delle sue figlie in sposa al M. non ebbe seguito.
Il M. aveva diciassette anni quando nel 1433 suo padre, al culmine degli aspri contrasti all’interno del partito oligarchico di cui Cosimo stesso faceva parte, fu bandito da Firenze in circostanze drammatiche. Ritiratosi in campagna, Cosimo fu richiamato dalla Signoria a Firenze, accusato di cospirazione contro la Repubblica e quindi imprigionato nel palazzo della Signoria per quasi un mese. Temette una condanna a morte, ma alla fine, sotto la pressione dei suoi amici forestieri e grazie al denaro profuso per corrompere il gonfaloniere e un altro funzionario della Signoria, fu liberato e bandito per dieci anni a Padova. Avvisato in tempo, il fratello di Cosimo, Lorenzo, riuscì a fuggire a Venezia portando con sé il M., suo fratello Giovanni e «quello che poté de’ denari e delle cose sottili», come scrisse Cosimo nei suoi ricordi (Gutkind, p. 103). Esattamente un anno dopo Cosimo rientrò a Firenze – e insieme con lui i figli –, quando il partito filomediceo ebbe il sopravvento e cacciò a sua volta la fazione avversa capeggiata da Rinaldo Albizzi. Cominciò così il predominio di Cosimo e del suo partito a Firenze.
Nella doppia strategia finalizzata a mantenere il potere e a far prosperare gli affari, Cosimo assegnò ai suoi due figli compiti diversi: il M. era destinato alla politica, mentre Giovanni doveva occuparsi del banco e delle altre attività economiche della famiglia. Questa divisione dei ruoli si coglie già nei primi anni dopo il ritorno di Cosimo dall’esilio. Nella primavera del 1438 i due fratelli furono mandati per alcuni mesi a Ferrara. Ma mentre il M. faceva parte della delegazione fiorentina al concilio riunito in quella città come «giovane» aggiunto, Giovanni era costretto a stare al banco che il padre aveva aperto per servire la Curia papale, per imparare il mestiere, con suo grandissimo dispiacere.
La carriera politica del M. si svolse per anni all’ombra del padre e di concerto con lui. Il potere di Cosimo era un potere personale, basato su una fitta rete di amici e clienti, e non mirava a sovvertire gli ordinamenti tradizionali della Repubblica, semmai a svuotarli lentamente con il controllo delle elezioni. Per questo motivo il cursus honorum del M. non si distingueva molto da quello degli altri membri delle grandi famiglie che con Cosimo dividevano il potere. Nel 1440, in seguito allo scrutinio per le qualificazioni agli uffici maggiori, il suo nome fu inserito nella borsa elettorale per il gonfaloniere della Giustizia, la più alta carica della Repubblica. Ma si trattava di una possibilità remota, visto che per l’esercizio di questo ufficio era richiesta l’età di quarantacinque anni. Nel 1444 partecipò alla Balia istituita allora per rafforzare lo «stato» di Cosimo, come «arroto» per il quartiere di S. Giovanni, quello dei Medici. Nel 1446, raggiunta l’età richiesta di trent’anni, fu dichiarato eleggibile come priore, cioè membro del governo, ed eletto a tale carica nel 1448 per i soliti due mesi, dal 1° novembre al 31 dicembre. Nello stesso 1448 fu eletto anche tra gli accoppiatori incaricati dello svolgimento del nuovo scrutinio.
Quella di accoppiatore era una carica di ben altro peso, visto che gli accoppiatori avevano il compito di riempire le borse con i nomi dei candidati, dalle quali essi stessi sorteggiavano i membri del governo oppure li sceglievano direttamente, quando, come spesso avveniva al tempo di Cosimo, venivano muniti di poteri speciali.
Le elezioni si svolsero «a mano», cioè a discrezione degli accoppiatori, anche negli anni 1452-55, quando il M. ricoprì di nuovo questa carica. Nello stesso periodo il M. svolse anche alcune missioni diplomatiche. Nel marzo 1447 fece parte dell’ambasceria fiorentina a Roma, composta da sei eminenti cittadini, per congratularsi con il papa Niccolò V della sua elezione e prestargli la dovuta obbedienza. Nel dicembre del 1450 si recò di nuovo a Roma, questa volta in privato come pellegrino in occasione dell’anno santo. Nella primavera dello stesso anno era già stato a Milano, membro dell’ambasceria fiorentina incaricata di congratularsi con Francesco Sforza il quale, anche con il massiccio sostegno politico e finanziario di Cosimo, si era impadronito del Ducato di Milano. Il M. si era preparato bene per questa missione, come dimostra la notizia relativa a un codicetto, approntato per lui dal letterato Michele Del Giogante, che conteneva documenti e altro materiale tra cui una lettera di F. Petrarca, da adattare eventualmente per il discorso davanti al duca. Firenze era la prima potenza italiana che riconosceva il nuovo duca. Questo sostegno offerto allo Sforza, voluto da Cosimo ma criticato da molti cittadini, compromise l’antica alleanza di Firenze con Venezia, che prese le parti del re di Napoli Alfonso d’Aragona, al quale Filippo Maria Visconti aveva proposto di partecipare al governo di Milano. Per questo motivo il M. e Neri Capponi furono mandati anche a Venezia per condurre trattative con il doge, che tuttavia non scongiurarono la rottura definitiva. Ne seguì una serie di guerre tra gli Stati italiani, finché con la pace di Lodi del 1454 si giunse a una pacificazione generale. In questo contesto, nell’agosto 1454 il M. fu mandato di nuovo a Venezia per trattare l’inclusione di Bologna nella nuova lega conclusa tra Venezia, Milano e Firenze. Naturalmente in tutte queste circostanze il M. rappresentava la linea politica del padre.
Anche se la partecipazione del M. alla vita pubblica fu piuttosto modesta, c’erano però altre sfere della vita cittadina dove egli poteva intervenire efficacemente per rivendicare simbolicamente l’egemonia dei Medici. Il suo nome è collegato a un avvenimento culturale di grande richiamo, il «certame coronario», organizzato nel 1441 dall’Alberti con il finanziamento del Medici. Si trattava di un concorso pubblico di poesia in volgare, bandito dagli ufficiali dello Studio, che si svolse in ottobre nel duomo alla presenza dell’arcivescovo, della Signoria, degli ambasciatori e di una gran folla di cittadini, davanti a una giuria di eminenti umanisti presenti in città al seguito del papa Eugenio IV.
Gli organizzatori intendevano dimostrare che la poesia in volgare poteva gareggiare degnamente con quella antica in latino, questione molto dibattuta negli ambienti umanistici. Il tema era l’amicizia e parteciparono al concorso una decina di poeti quasi tutti fiorentini, tra i quali l’Alberti stesso. Patrocinando questo concorso, il M. si qualificava come difensore della lingua e della grande tradizione letteraria fiorentina della quale la città andava fiera.
Alcuni anni più tardi il M. impresse le sue insegne a due luoghi di culto tra i più importanti e amati della città. Nella chiesa della Ss. Annunziata fece costruire intorno all’immagine miracolosa della Vergine un grandioso tabernacolo di marmo; l’iscrizione sull’altare, datata 15 marzo 1449, informava che egli aveva commissionato quest’opera adempiendo a un voto. Ottenuto inoltre il giuspatronato sulla cappella adiacente, la trasformò in un oratorio per la sua devozione privata. Il nome dei Medici risultava così strettamente connesso a questo culto, popolare non solo a Firenze. Nello stesso periodo fece erigere un altro tabernacolo per la miracolosa croce di S. Giovanni Gualberto nella chiesa di S. Miniato al Monte. Posta al centro della navata davanti all’abside, l’elegante costruzione presentava ben visibili sul fregio le imprese del M., l’anello di diamante con le tre penne e la divisa «Semper» e, nella lunetta posteriore, il suo emblema del falcone.
Il 3 giugno 1444 il M. sposò Lucrezia Tornabuoni, proveniente da un’antica famiglia fiorentina amica dei Medici. Dei loro sette figli ne sopravvissero quattro, Bianca Maria e Lucrezia, nate rispettivamente nel 1445 e nel 1448, e due figli maschi, Lorenzo e Giuliano, nati nel 1449 e nel 1453. È possibile che il voto alla Vergine della Ss. Annunziata, di cui fa cenno l’iscrizione, si riferisse proprio alla nascita di Lorenzo, il futuro «Magnifico», l’atteso figlio maschio. Di una figlia naturale di nome Maria non si conoscono né la madre né la data di nascita che tuttavia dovette essere successiva a quella di Giuliano. I matrimoni delle figlie – Bianca Maria nel 1459 fu promessa sposa a Guglielmo Pazzi, il matrimonio di Lucrezia con Bernardo Rucellai, concordato nel 1461, fu celebrato nel giugno 1466 – permettevano al M. di stabilire legami forti con due grandi famiglie fiorentine che erano rimaste finora al margine dello «stato» mediceo.
Poco dopo il matrimonio ebbe inizio la costruzione del nuovo palazzo di famiglia, nel quale l’appartamento più grande e importante al primo piano, sopra l’ingresso in via Larga, era riservato al M., l’erede destinato dal padre a succedergli nella gestione della politica. L’arredamento di questo appartamento come di altri ambienti del grandioso palazzo, nel quale Cosimo e i suoi due figli si trasferirono con le loro famiglie verso il 1457, mentre la vecchia casa rimase al cugino Pierfrancesco, impegnò il M. per molti anni e ce lo presenta come un committente artistico accorto ed esperto. Attraverso la filiale del banco mediceo a Bruges egli si fece mandare dalle Fiandre numerosi arazzi e tappezzerie nonché quadri su tela e tavola, ma la maggior parte della decorazione del palazzo fu affidata a maestri fiorentini. Per la sala grande al primo piano, destinata alla rappresentanza, commissionò ad Antonio Benci detto il Pollaiolo tre grandi tele rappresentanti Le fatiche di Ercole. Il suo studiolo fu rivestito con le terracotte invetriate e colorate di Luca Della Robbia che per questo ambiente creò anche dodici tondi con le raffigurazioni dei mesi. In questa piccola stanza erano conservati i numerosi codici e manoscritti con i testi degli autori antichi e moderni che il M. raccolse con instancabile zelo durante tutta la vita e il tesoro di gemme, pietre preziose e piccoli bronzi antichi acquistati per lui a Roma e altrove.
La cappella del palazzo, sempre al primo piano, fu affrescata sotto la sua sorveglianza da Benozzo Gozzoli (Benozzo di Lese). Negli affreschi con il corteo dei tre re magi, eseguiti nel 1459, si vede il M. in prima fila, accanto al padre Cosimo, ma davanti al fratello Giovanni, nel seguito dei magi, al culto dei quali i Medici si erano votati. Anche il busto di marmo che egli si fece scolpire intorno al 1453-54 da Mino da Fiesole era destinato a essere collocato nel palazzo, dove è segnalato ancora nel 1492 sopra una porta. Fatto a imitazione dei busti imperiali romani, era la prima scultura moderna di questo genere. Tra i molteplici interessi culturali del M. va segnalato anche il suo amore per la musica. È ovvio che letterati e artisti cercavano la sua protezione e chiedevano i suo intervento per ottenere cariche e committenze, tanto più che il M. faceva spesso parte di commissioni incaricate di sovrintendere ai lavori in edifici pubblici e chiese e nel 1456 fu anche ufficiale dello Studio. In questa veste fu coinvolto nella chiamata di Giovanni Argiropulo alla cattedra di greco. Come ringraziamento il dotto greco dedicò al M. la sua traduzione dei Libri physicorum di Aristotele. Cristoforo Landino gli dedicò, con la speranza, non vana, di ottenere un posto nella Cancelleria o nello Studio, l’ultima versione della sua raccolta di poesie latine Xandra, mentre Antonio Averlino, detto Filarete, che già nel 1450 o 1451 il M. aveva raccomandato a Francesco Sforza, gli donò una copia del suo Trattato di architettura. Marsilio Ficino si avvicinò a lui solo dopo la morte di Cosimo, il suo grande protettore.
Nel 1458 il regime instaurato da Cosimo de’ Medici attraversò una grave crisi. Dopo il ritorno al sorteggio ottenuto nel 1455 dai suoi avversari, il controllo delle elezioni era diventato più difficile e i cittadini «principali», solidali di Cosimo, pensarono a una riforma costituzionale che potesse porre rimedio a questa situazione, ma la riforma fu bocciata dai Consigli. Si fece quindi ricorso a una misura estrema, la convocazione di un parlamento che come al solito approvò le proposte. Fu creato quindi un nuovo consiglio, il Consiglio de’ cento, che già per la sua composizione era da considerarsi più affidabile dei vecchi Consigli del Popolo e del Comune ai quali fu preposto. Inoltre furono aumentati i poteri degli Otto di guardia incaricati, tra l’altro, di perseguire i delitti politici.
Appena approvate le riforme il M. fu per la prima volta «veduto» gonfaloniere nelle elezioni dell’ultimo bimestre 1458, cioè il suo nome fu estratto dalla borsa elettorale per il gonfalonierato e fatto vedere. Non poté assumere la carica per difetto di età, ma già il fatto di essere veduto era considerato un grande onore e non privo di conseguenze pratiche, visto che in base alle recenti riforme i veduti avevano diritto di voto nel Consiglio de’cento. Poco più di due anni dopo, nonostante mancassero ancora sei mesi al compimento dei quarantacinque anni, il M. fu eletto gonfaloniere a tutti gli effetti per i primi due mesi del 1461. Nel discorso davanti alla pratica, un gruppo di eminenti cittadini convocato il 5 gennaio dalla Signoria, il M. si appellò alla concordia dei cittadini e dichiarò che la giustizia doveva essere il fondamento di ogni azione di governo, promettendo anche di governare sempre con il consiglio dei suoi concittadini, una captatio benevolentiae per far dimenticare la sua reale posizione in città. Allora il M. era già gravemente malato. Chiese infatti ai convenuti di poter parlare rimanendo seduto perché non riusciva a tenersi in piedi. Per questo motivo fu anche esentato dall’obbligo di alloggiare nel palazzo della Signoria com’era prescritto per i membri del governo.
La gotta lo tormentava da molti anni e a poco erano serviti i lunghi e frequenti soggiorni nei bagni caldi presso Siena o Volterra. Usava la sua malattia anche per poter tenere le riunioni del governo o ricevere gli ambasciatori a casa propria, una prassi che era divenuta sempre più frequente negli ultimi anni di vita di Cosimo. Il palazzo dei Medici diventava così il centro della politica e della diplomazia, a discapito del palazzo della Signoria, la sede istituzionale.
Cosimo de’ Medici morì il 1° ag. 1464; il 1° nov. 1463 era morto Giovanni, fratello minore del M., senza lasciare figli. Sulle spalle del M. cadeva così una doppia responsabilità, quella di difendere e conservare lo «stato» dei Medici e di assumere contemporaneamente la gestione degli affari. L’eredità politica di Cosimo sembrava ben consolidata, perché il regime era uscito rafforzato dalle riforme del 1458. Il M. stesso, in un’iscrizione da lui apposta nell’anno della morte di Cosimo sulla statua della Giuditta di Donatello (Donato Bardi) collocata nel giardino di palazzo Medici, si accreditava ai suoi concittadini come strenuo difensore della libertà e della salute pubblica, mentre era ben deciso a difendere la propria egemonia a Firenze. Vi riuscì con una sorprendente determinazione e abilità per un uomo nelle sue precarie condizioni di salute.
Nei suoi Ricordi Marco Parenti descrive così la situazione dopo la morte di Cosimo: «Rimase di lui Piero suo figliuolo […] in grande autorità, et con molti amici, ricchezza, et potenza simile a quella del padre […] che già insieme co’ lui haveva preso l’autorità e la cura del governo della città, et a’ sua pareri cedeva ogn’ altro cittadino» (p. 57). Aggiunse però che proprio questa «potenza» e la «grandigia» del M. provocavano «indegnatione» tra i cittadini e persino tra i più fedeli alleati di Cosimo. I più potenti di loro, Angelo Acciaiuoli, Luca Pitti e Dietisalvi Neroni, non erano disposti a riconoscere al M. la stessa posizione di guida di cui aveva goduto il padre. Se erano stati «fratelli» di Cosimo, ora volevano essere «padri ad Piero», scrisse Dietisalvi a Francesco Sforza (Rubinstein, p. 166). I cittadini reclamavano la restituzione delle loro antiche libertà, soprattutto il ritorno al sorteggio nelle elezioni.
Quando nel giugno 1465 il M. chiese di prolungare ancora per altri cinque anni i poteri speciali degli Otto di guardia, il Consiglio de’ cento, creato per rafforzare il potere mediceo, votò contro. Nel settembre si discusse anche della chiusura delle borse elettive, perché, come Dietisalvi Neroni scrisse in un’altra lettera a Francesco Sforza, «la cittadinanza vorrebbe più libertà e più universale governo» (ibid., p. 171). Il ritorno al sorteggio nelle elezioni alla Signoria fu approvato nello stesso mese dai consigli con larghe maggioranze e per il M. fu una grave sconfitta politica. Fu stabilito anche di tenere un nuovo scrutinio per le qualificazioni agli uffici, un’altra minaccia per lo «stato» del M., tanto più che questo scrutinio doveva essere svolto in modo tradizionale secondo gli statuti e non da una Balia speciale, com’era avvenuto dal 1434 in poi. Il M. si oppose con forza perché vedeva in pericolo tutto il sistema mediceo di controllo delle elezioni. Alla fine fu incaricata del suo svolgimento una commissione composta dai gonfalonieri effettivi o veduti a partire dal 1434, da persone cioè che erano state elette spesso per scelta degli accoppiatori. Anche il M. fece quindi parte di questa commissione, come pure suo figlio Lorenzo che entrava al posto del nonno, dato che i gonfalonieri morti potevano essere sostituiti da figli o parenti stretti. Lo scrutinio si svolse tra molti contrasti e difficoltà, ma il risultato fu che il M. riuscì ancora una volta a influenzare la scelta dei nomi e a compattare il regime mediceo. Ma non a lungo.
Fattori esterni provocarono infatti nuove tensioni all’interno del partito mediceo. Il M. aveva proseguito la politica di Cosimo di stretta alleanza con la Milano di Francesco Sforza, considerato da lui il vero garante del potere dei Medici a Firenze, mentre tra i suoi stessi seguaci cominciò a farsi strada l’idea di un riavvicinamento a Venezia. La morte di Francesco Sforza, avvenuta l’8 marzo 1466, indebolì la posizione del Medici. La proposta di un sostanzioso aiuto finanziario a Milano, caldeggiata dal M., fu bocciata anche da Angelo Acciaiuoli e Dietisalvi Neroni. Nel maggio 1466 la situazione interna diventò così critica che la Signoria si vide costretta a far giurare tutti i veduti alle cariche maggiori di mantenere la pace. Inoltre ordinò che «tutte le cose del comune s’abbino a praticare nel Palazzo de Priori» (ibid., p. 189). Era questo un punto fondamentale per gli oppositori del Medici. A questo giuramento ne seguì un altro, sottoscritto da circa quattrocento cittadini che si impegnarono a sostenere la forma di governo repubblicano. Tra loro il Pitti, l’Acciaiuoli, il Neroni e persino il cugino del M. Pierfrancesco. La posizione del M. vacillò sempre di più. Ormai «Luca Pitti teneva residenza a casa sua, dove gran parte dei cittadini andava a consultare de’ fatti de lo stato» (Parenti, 2001, p. 122).
Nel luglio un tentativo di abolire il Consiglio de’ cento fece precipitare la situazione. Sia il M. sia i suoi avversari si procurarono aiuti militari nell’eventualità che le ostilità esplodessero in città: mentre il M. si rivolse al duca di Milano, i suoi avversari trovarono appoggio nel marchese di Ferrara, Borso d’Este. Inoltre il M. allertò i suoi contadini e altra gente d’arme del territorio, pronti a soccorrerlo in caso di necessità. Per poterli introdurre in città ricorse a uno stratagemma. La mattina del 27 ag. 1466 si fece portare in lettiga alla sua villa di Careggi, poco distante dalla città, ma tornò già la sera stessa circondato da molti armati, raccontando che durante il tragitto era sfuggito a un attentato tesogli da sicari di Dietisalvi Neroni – «che non fu vero», commentò il Parenti coinvolto egli stesso in prima persona in questi avvenimenti (ibid., p. 124). Inoltre il M. affermò di aver avuto notizie che le truppe del marchese di Ferrara stavano invadendo il territorio fiorentino per dare man forte ai suoi avversari. Chiese quindi l’invio delle truppe milanesi messe a sua disposizione presso Imola e fece venire altri contadini armati e fanti dal contado – circa 6000 uomini secondo il Parenti (ibid., p. 132) –, poi si asserragliò nel suo palazzo mentre in città esplodeva il tumulto. I capi degli avversari approntarono anch’essi le loro difese, senza però disporre degli stessi mezzi finanziari. Inoltre esitarono perché non sapevano quale fosse il modo migliore di agire.
Il 28 agosto fu sorteggiata la nuova Signoria per i mesi di settembre e ottobre che risultò favorevole al Medici. Questo fatto e la forza militare raccolta dal M. indussero Luca Pitti ad accordarsi con lui dietro una serie di assicurazioni e promesse tra cui quella di un parentado tra le due famiglie. Quando il 2 settembre la nuova Signoria convocò una pratica, che si riunì in casa del M., il Pitti chiese la convocazione di un parlamento per l’approvazione delle misure straordinarie che dovevano riportare la calma in città. Il parlamento si riunì lo stesso giorno, mentre il M. mandò in piazza della Signoria circa 3000 fanti e il figlio Lorenzo armato e a cavallo. Il parlamento quindi non esitò ad approvare la proposta di istituire la solita Balia munita di poteri speciali, la quale a sua volta elesse i nuovi Otto di guardia, tutte persone fedeli al M., restituendo loro anche le competenze in materia di delitti politici tolte nel 1465. La stessa sera l’Acciaiuoli e Dietisalvi Neroni fuggirono dalla città come aveva già fatto Niccolò Soderini, che si era esposto in modo particolare. Altri li seguirono, ma non tutti fecero in tempo e furono arrestati dagli Otto. Su loro indicazione l’11 settembre la Balia esiliò un buon numero di cittadini, con in testa coloro che erano già fuggiti. L’accusa era di attentato alla libertà e alla sicurezza della patria, ma del presunto attentato contro il M. non si fece parola. Non fu pronunciata alcuna sentenza di morte. Nelle sue Storie fiorentine Francesco Guicciardini attribuì questa clemenza al M. stesso il quale, a differenza del padre, avrebbe esiliato soltanto coloro «e’ quali sanza pericolo grande non potevano rimanere impuniti» (p. 100). Tuttavia, la Balia procedette anche ad alcune riforme istituzionali, tra cui il ritorno alle elezioni «a mano» per altri venti anni, restaurando così il controllo sulle elezioni. Inoltre il M. consentì la riammissione in città di alcuni esiliati e dei loro discendenti banditi nel 1434, ai quali il bando era stato rinnovato nel 1458. Con sorprendente energia e astuzia il M. aveva ripreso in mano la situazione.
L’esito della crisi rafforzò i legami del M. con il duca di Milano e il re di Napoli, che fino ad allora avevano intrattenuto rapporti amichevoli anche con gli esponenti del regime ora in esilio. Il M. aveva infatti più che mai bisogno del loro sostegno. Gli esiliati non si davano per vinti e brigarono per anni per tornare in patria con la forza e cacciare il Medici. Il conflitto si spostò quindi dall’interno all’esterno di Firenze. Nel 1467, con l’aiuto prima nascosto e poi aperto di Venezia, misero insieme un esercito al comando di Bartolomeo Colleoni per muovere guerra a Firenze, ma con l’appoggio di truppe milanesi e napoletane il condottiero fu sconfitto nel luglio del 1467 in Romagna. In quel momento il duca Galeazzo Maria Sforza, che si era recato personalmente nel teatro di guerra, si trovava a Firenze, ospite in casa Medici, per sollecitare il pagamento del soldo delle truppe e per convincere il M. a cercare un accordo con i fuorusciti, ma questi rifiutò qualsiasi trattativa. Il conflitto si trascinò con vari tafferugli e tentativi di invadere il territorio fiorentino ancora a lungo e coinvolse alla fine quasi tutti gli Stati italiani, finché nel maggio 1468 non fu conclusa una pace, dalla quale restarono esclusi gli esuli su esplicita richiesta del Medici. Ma essi non disarmarono ancora, e continuarono le loro manovre e i complotti per rientrare a Firenze che inquietarono il M. fino agli ultimi giorni di vita.
N. Machiavelli afferma che le difficoltà politiche incontrate dal M. dopo la morte del padre sarebbero state causate da lui stesso, perché, con il consiglio perfido di Dietisalvi Neroni, avrebbe recuperato molti dei crediti concessi da Cosimo con lo scopo di crearsi amici in città e fuori (Istorie fiorentine, pp. 468 s.).
Effettivamente nel 1464 diversi mercanti fiorentini fallirono, ma i motivi sono difficilmente riconducibili al Medici. Anche il banco dei Medici subì danni da questi fallimenti. Il M. aveva assunto la direzione della banca e degli affari dopo la morte del fratello e dopo quella del padre aveva fatto un inventario di tutte le cose di valore, inclusi i libri, che si trovavano nel palazzo di via Larga. È probabile che allora egli ordinasse anche una revisione dei conti, dalla quale risultò che la situazione non era più così florida come prima. Corse quindi ai ripari con una riduzione e contrazione dei prestiti, soprattutto nei confronti dei principi. La filiale di Milano vantava enormi crediti con Francesco Sforza e il suo successore, poco disposti a onorare il debito, quella di Bruges con il duca di Borgogna Carlo il Temerario. Anche la filiale di Londra che finanziava il re Edoardo IV nella guerra delle Due rose versava in gravi difficoltà e poté essere salvata solo con un grande sforzo. La filiale presso la Curia romana, che era sempre stata un pilastro della banca, diretta dal 1465 dal cognato del M., Giovanni Tornabuoni, aveva anch’essa non poche difficoltà. La Depositeria pontificia, che i Medici avevano detenuto quasi ininterrottamente nei tempi passati, fu concessa nel 1465 dal papa veneziano Paolo II Barbo a un suo parente, come già aveva fatto Pio II Piccolomini. In compenso nel 1466 il M. ottenne dalla Camera apostolica un contratto per partecipare allo sfruttamento delle miniere di allume a Tolfa, recentemente scoperte, e per la commercializzazione di questo prezioso minerale. La filiale di Lione fece invece buoni profitti fino al 1467, quando il re Luigi XI – lo stesso che nel 1464 aveva nominato il M., su sua richiesta, consigliere segreto e nel 1465 gli aveva concesso il privilegio di aggiungere allo stemma dei Medici i gigli del re di Francia – accusò il banco di finanziare i suoi nemici e ne fece diminuire i profitti. Nel complesso però gli affari andavano ancora discretamente. È probabile che il M., soverchiato dai problemi politici e dalla malattia che progrediva inesorabilmente, non trovasse molto tempo per occuparsi degli affari, delegando questo compito al direttore generale del banco Francesco Sassetti, che già aveva collaborato con Giovanni de’ Medici. Nonostante i lunghi anni passati al servizio dei Medici nelle filiali estere del banco, il Sassetti non era molto abile e dopo la morte del M. suo figlio Lorenzo dovette affrontare una situazione già seriamente compromessa.
Anche l’ultimo anno di vita del M. fu turbato da avvenimenti esterni che inevitabilmente si ripercossero sulla stabilità interna di Firenze. La guerra per la successione a Rimini, dopo la morte di Sigismondo Pandolfo Malatesta nell’ottobre del 1468, riaprì i vecchi fronti e vide di nuovo contrapposti la lega tra Firenze, Milano e Napoli al papa e a Venezia. La lega sosteneva il figlio illegittimo del defunto signore, Roberto Malatesta, che si era impadronito di Rimini contro la volontà del pontefice, signore feudale del luogo. Nel corso del conflitto sorsero gravi dissidi tra Firenze e il duca di Milano che si sottraeva al dovere di soccorrere Roberto Malatesta. In questa situazione confusa gli esuli del 1466 ripresero i loro maneggi, mentre a Firenze gli avversari del M. spingevano per un riavvicinamento a Venezia, incoraggiati anche dalle sue pessime condizioni di salute.
Ben conscio che non sarebbe vissuto a lungo, il M. aveva introdotto presto il giovane figlio Lorenzo nel mondo della politica e della diplomazia. Già nel 1465 lo aveva inviato a Milano per presentarlo come erede dello «stato» dei Medici a Francesco Sforza, e nel 1466 a Napoli da Ferdinando d’Aragona. Il matrimonio di Lorenzo con la nobile romana Clarice Orsini, che nelle intenzioni del M. doveva garantire ai Medici un appoggio sicuro nella città dei papi, era stato festeggiato nel maggio del 1469. Nel luglio Lorenzo si recò di nuovo a Milano in rappresentanza del M. per assistere al battesimo del primogenito del nuovo duca Galeazzo Maria, ma fu coinvolto anche nelle discussioni sulla questione di Rimini. Da allora il ventenne Lorenzo diventò sempre di più l’interlocutore degli ambasciatori, non solo di quello milanese. Se il M. non poteva essere del tutto sicuro che il figlio avrebbe trovato il necessario consenso a Firenze per continuare la preminenza dei Medici in città, gli aveva però assicurato un solido sostegno esterno di cui Lorenzo si giovò nel difficile momento della transizione dopo la morte del padre.
Il 1° dic. 1469 Lorenzo informò Galeazzo Maria Sforza che suo padre negli ultimi giorni aveva avuto «alcuni accidenti», non gravi e in via di miglioramento, ma pur sempre preoccupanti. Gli ricordò «l’antica devozione» della sua famiglia verso gli Sforza, esprimendo la speranza di poter contare sul favore del duca in questo grave momento (Lettere, pp. 50 s.). Le preoccupazioni non erano infondate, perché il giorno seguente le condizioni del M. peggiorarono in modo tale che Lorenzo confidò al duca di non avere più molte speranze. Aveva anche perso la parola, perciò non poteva confessarsi né comunicare le sue ultime volontà ai figli.
Il M. morì a Firenze nella tarda serata del 2 dic. 1469.
Fu sepolto con una cerimonia semplice accanto al fratello Giovanni nella sagrestia Vecchia di S. Lorenzo, dove nel 1472 i figli Lorenzo e Giuliano fecero erigere per lui e per lo zio un sontuoso sepolcro a opera di Andrea di Michele detto il Verrocchio, un artista che doveva soprattutto al M. la sua affermazione artistica.
Fonti e Bibl.: Per la corrispondenza del M., in gran parte inedita, vedi Arch. di Stato di Firenze, Archivio Mediceo avanti il principato. Inventario, I-IV, Roma 1963, ad ind. (in particolare IV, pp. 434-449). Vedi inoltre: F. Rinuccini, Ricordi storici dal 1282 al 1460 colla continuazione di Alamanno e Neri suoi figli fino al 1506, a cura di G. Aiazzi, Firenze 1840, pp. XCIX-CIII, CVII; A. Macinghi Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, a cura di C. Guasti, Firenze 1877, pp. 162, 313, 334, 382-384, 386, 396, 409, 412-418, 443, 456, 461 s., 484, 489 s., 562, 565; Lettere di P. di Cosimo de’ M. a Otto Niccolini 1467-1469, a cura di G. Niccolini, in Arch. stor. italiano, s. 5, 1897, t. 20, pp. 33-59; R. Magnani, Delle relazioni private fra la corte sforzesca di Milano e casa Medici, Milano 1910, nn. 38-61 pp. XXVI-XLVII; N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962, ad ind.; L.B. Alberti, Uxorie proemium ad Petrum de Medicis, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, II, Bari 1966, pp. 303-305; L. de’ Medici, Lettere, I, 1460-1474, a cura di R. Fubini, Firenze 1977, ad ind.; B. Dei, La cronaca, a cura di R. Barducci, Monte Oriolo 1984, ad ind.; L. Tornabuoni, Lettere, a cura di P. Salvadori, Firenze 1993, ad ind.; M. Parenti, Lettere, a cura di M. Marrese, Firenze 1996, ad ind.; I. Ammannati Piccolomini, Lettere (1444-1479), a cura di P. Cherubini, Roma 1997, ad ind.; F. Guicciardini, Storie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, Milano 1998, ad ind.; M. Parenti, Ricordi storici, 1464-1467, a cura di M. Doni Garfagnini, Roma 2001, ad ind.; A. Fabroni, Magni Cosmi Medicei vita, I, Pisis 1789, pp. 10, 106, 128, 130, 159, 161, 177, 181; II, ibid. 1788, pp. 97, 146 s.; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, ad ind.; A. Municchi, La fazione antimedicea detta «Del Poggio», Firenze 1911 passim; G. Pieraccini, La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo, I, Firenze 1924, pp. 49-75; C. Gutkind, Cosimo de’ Medici il Vecchio, Firenze 1940, pp. 103, 183, 121 s., 258, 278-280, 292; R. De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze 1970, ad ind.; N. Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), Firenze 1971, ad ind. (in partic. pp. 165-210, 291, 326, 330, 340); F. Ames-Lewis, The library and manuscripts of P. di Cosimo de’ M., New York 1984; S.R. Mc Killop, L’ampliamento dello stemma mediceo e il suo contesto politico, in Archivio storico italiano, CL (1992), pp. 641-711; A. Brown, The Medici in Florence, Firenze-Perth 1992, ad ind.; P. de’ M. «il Gottoso» (1416-1469). Kunst im Dienst der Mediceer, a cura di A. Beyer - B. Boucher, Berlin 1993; M. Bicchierai, Guidi, Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, LXI, Roma 2003, pp. 223-227; I. Walter, Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, Roma 2005, ad ind.; R.G. Witt, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo, Roma 2005, p. 459; D. Covi, Andrea del Verrocchio, life and work, Firenze 2005, ad ind.; I. Walter, Freiheit für Florenz. Donatellos «Judith» und ein Grabmal in Santa Maria sopra Minerva, in Bild/Geschichte. Festschrift für Horst Bredekamp, Berlin 2007, pp. 375-382.
I. Walter