Medici, Piero de’
Nacque a Firenze il 15 febbraio 1472 da Lorenzo, detto il Magnifico, e da Clarice Orsini. Si prestò grande cura alla sua educazione, in quanto destinato a raccogliere dal padre l’eredità del governo di Firenze. Il Magnifico gli scelse come precettore Angelo Poliziano che, poco gradito alla madre del fanciullo, fu nel 1479 sostituito da Bernardo Michelozzi, fratello del cancelliere mediceo Niccolò. All’età di dieci anni Piero iniziò la sua istruzione politica, alla quale seguì presto il primo incarico, come membro dell’ambasciata inviata a Roma per congratularsi con il nuovo pontefice, Innocenzo VIII, al secolo Giovanni Battista Cibo (nov.-dic. 1484). Pochi mesi dopo Piero – in sostituzione di Lorenzo, temporaneamente assente – accolse in città Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna.
Dalla corrispondenza di Lorenzo emerge la preoccupazione che il figlio non fosse all’altezza del suo ruolo e facesse mostra di eccessiva ostentazione: in particolare gli si rimproverava l’abbigliamento troppo lussuoso. Ben presto Lorenzo si adoperò per trovargli una moglie di rango adeguato. La prescelta fu Alfonsina Orsini, figlia del defunto conte Roberto e di Caterina Sanseverino. Le nozze per procura furono celebrate a Napoli il 25 febbraio 1487 nella sala grande di Castel Nuovo: lo sposo era rappresentato dallo zio Bernardo Rucellai. Il matrimonio ebbe luogo a Bracciano nel maggio del 1488. Dall’unione nacquero Clarice nel settembre del 1489; Lorenzo, futuro duca di Urbino, nel settembre del 1492; Luisa nel febbraio del 1494; dai registri battesimali fiorentini risulta anche un’altra figlia, Maria, nata nel febbraio del 1492, molto probabilmente illegittima.
Piero continuò a sostituire il padre in alcune occasioni ufficiali: una vera e propria iniziazione alla scena politica italiana, che culminò con il viaggio a Milano, all’inizio del 1489, per le nozze del duca Gian Galeazzo Maria Sforza e di Isabella d’Aragona. Alla morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta l’8 aprile 1492, Piero gli successe al comando del ceto dirigente fiorentino e nelle cariche da lui detenute: in particolare fu nominato ‘accoppiatore’ e inserito nel Consiglio dei Settanta. Il 7 novembre fece parte dell’ambasciata fiorentina diretta a Roma per giurare obbedienza al nuovo pontefice, Alessandro VI. Durante la missione avrebbe dovuto guadagnare per la famiglia l’amicizia del nuovo papa, tentando di fargli dimenticare l’appoggio dato durante il conclave al cardinale Giuliano Della Rovere. Per rafforzare il legame con Alessandro VI, nel 1493 Piero intavolò trattative per fare sposare il fratello Giuliano prima con Lucrezia Borgia e poi con Laura Orsini, imparentata con i Borgia: entrambe le proposte non ebbero seguito.
Per il governo di Firenze, Piero si appoggiò ad alcuni uomini che dipendevano totalmente da lui, provocando così l’inimicizia della maggior parte degli ottimati. L’esempio più clamoroso di questo conflitto è rappresentato dalla presunta congiura ordita dai suoi stessi cugini, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, che il 14 maggio 1494 furono banditi da Firenze insieme con altri due cugini di Piero, Cosimo Rucellai e Francesco Soderini. La crisi culminò con gli avvenimenti dell’autunno 1494. Fino a quel momento Piero aveva appoggiato il sovrano napoletano Alfonso II d’Aragona, nonostante il parere contrario di gran parte del ceto dirigente fiorentino. Il suo atteggiamento mutò in occasione della spedizione del re di Francia Carlo VIII, che volle incontrare personalmente (a Sarzana, il 26 ottobre). Pur non avendo alcun incarico istituzionale ufficiale, negoziò con il sovrano l’incolumità di Firenze contro la cessione di Sarzana, Sarzanello, Pietrasanta, Pisa e Livorno. Rientrato a Firenze, sconfessato dalla Signoria, e trovatosi con pochi sostenitori armati, fuggì dalla città (9 nov. 1494), rifugiandosi prima a Bologna e poi a Venezia. Un mese dopo fu confinato ad almeno 100 miglia da Firenze; il 25 settembre 1495 fu messa una taglia sulla sua testa.
Negli anni successivi la Serenissima appoggiò a più riprese i tentativi di Piero di riprendere Firenze, con la condizione di garantire l’indipendenza a Pisa, allora sottoposta all’assedio delle truppe fiorentine. Piero cercò più volte di rientrare in città, dove poteva contare su alcuni sostenitori. Nel maggio del 1495 fu scoperto un complotto in suo favore. Pochi mesi dopo a Firenze corse voce che egli avesse progettato l’assassinio di alcuni suoi avversari. Alla fine del 1495 fu sul punto di essere catturato a Cortona, donde voleva probabilmente muovere contro Firenze; effettuò un ulteriore, infruttuoso tentativo l’anno successivo con l’aiuto di Virginio Orsini. In quel periodo si mosse fra Siena, il Perugino e Roma, tentando di entrare in possesso di qualche località per farne una testa di ponte. Nel corso del 1496 il governo fiorentino scoprì in effetti congiure miranti a cedere a Piero alcuni luoghi del dominio della città. Nel 1497 fu messo in atto il tentativo più pericoloso, allorché alla fine di febbraio fu eletto gonfaloniere di giustizia Bernardo Del Nero, un partigiano della famiglia Medici. Pur non potendo contare sull’appoggio di Venezia, Piero decise di sfruttare l’occasione. Ottenuto il sostegno della Repubblica di Siena, da lì partì alla fine di aprile con un contingente di 500 fanti e 600 cavalli posti sotto la guida di Bartolomeo d’Alviano; ma dovette presto rinunciare, avendo il governo fiorentino, avvertito per tempo dell’approssimarsi del nemico, rafforzato le difese. Il 5 agosto fu catturato a Firenze Lamberto Dell’Antella e, grazie alla sua confessione, cinque cittadini filomedicei, ritenuti colpevoli di alto tradimento, furono giustiziati il 21 agosto: si trattava di Giovanni Cambi, Bernardo Del Nero, Giannozzo Pucci, Niccolò Ridolfi e Lorenzo Tornabuoni.
Poco dopo, Siena firmò una tregua con i fiorentini (settembre 1498), nonostante che, per ostacolare le trattative, intervenissero sia Antonio Dovizi (inviato di Piero) sia i veneziani. Piero raggiunse allora il campo veneziano in Mugello, a Marradi, che spostò in Casentino senza ottenere però risultati militari decisivi, anche grazie all’abilità del comandante incaricato dai fiorentini, Paolo Vitelli. In quella circostanza, oltre che sull’esercito guidato dal duca di Urbino Guidubaldo I da Montefeltro, Piero aveva potuto contare sulle milizie di Carlo Orsini e di Bartolomeo d’Alviano. In seguito cercò inutilmente l’appoggio di Cesare Borgia, il quale si presentò in Mugello nel 1501, ma si ritirò dopo avere ottenuto dalla Repubblica di Firenze una forte somma di denaro. L’anno successivo Borgia, appoggiato dalle milizie degli Orsini, decise di sostenere Piero, ma di nuovo dovette desistere dall’impresa per ordine del re di Francia Luigi XII.
Sempre inseguendo il sogno di una rivincita, Piero si fermò a Pisa, durante il viaggio che da Genova lo condusse a Roma (23-28 ott. 1500), e ad Arezzo due settimane dopo la ribellione della città al dominio fiorentino (5 giugno 1502); ma l’indipendenza aretina durò solo tre mesi. Piero si unì quindi alle truppe francesi; durante la battaglia del Garigliano, che contrappose queste ultime all’esercito spagnolo, annegò nel fiume mentre cercava di raggiungere Gaeta, il 28 dicembre 1503.
Bibliografia: P. Litta, Le famiglie celebri italiane, 30° vol., Milano 1834, sub voce Medici di Firenze, tav. IX; G.B. Picotti, Per le relazioni fra Alessandro VI e Piero de’ Medici. Un duplice trattato di matrimonio per Laura Orsini, «Archivio storico italiano», 1915, 277, pp. 37-100; G. Pieraccini, La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo. Saggio di ricerche sulla trasmissione ereditaria dei caratteri biologici, 1° vol., Firenze 1924, 1986, pp. 157-90; R. Ridolfi, La spedizione di Piero de’ Medici nel 1497 e la Repubblica senese, «Bullettino senese di storia patria», 1963, 70, pp. 127-44; N. Rubinstein, The government of Florence under the Medici (1434 to 1494), Oxford 19972 (trad. it. Firenze 1999, pp. 305-13); M. Chiaverini, Onore e gloria. Gli aspetti militari della guerra di Pisa: l’assedio franco-fiorentino del giugno-luglio 1500, Pisa 20022, pp. 218 e segg.; I. Walter, Der Prächtige: Lorenzo de’ Medici und seine Zeit, München 2003 (trad. it. Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, Roma 2005).
Di Piero de’ Medici M. è tenuto a occuparsi spesso, fin dai primi mesi della sua assunzione in cancelleria, in relazione ai suoi tentativi di rientrare in città. Già nella lettera al commissario Simone Ridolfi (2 ag. 1498), M. accenna alla «impresa di Piero» e alla possibile partecipazione a essa di Carlo Orsini e di Bartolomeo d’Alviano (notizia non infondata, come si è visto), per la quale i due condottieri già «hanno tocco danari» (LCSG, 1° t., p. 41); ma più volte M. tornerà nelle lettere di governo delle settimane successive a parlare di Piero e dei suoi movimenti ai danni della Repubblica, non solo per coordinare le notizie sui suoi spostamenti, ma anche per orientare le autorità periferiche sul comportamento diplomatico da tenere con lui. È il caso di una lettera ai commissari di Poppi (databile a metà novembre del 1498), in cui – a proposito di una «audienza» chiesta da Piero – ingiunge loro che «li mandiate a dire non avere aùto ancora da noi intorno a simile materia alcuna risposta» (LCSG, 1° t., p. 125). Espressioni, per lo più, di ordinaria amministrazione; spicca però una vera e propria valutazione politico-morale in una lettera ai commissari del Casentino del 22 novembre 1498, dove l’invito a ricorrere all’inganno nei confronti di Piero è caldeggiato come atto non solo utile, ma eticamente lecito:
Quando intorno ai casi di Piero vedessi da fare un tradimento doppio sotto parlamentare o altro colore, ve ne confortiamo, perché fia sempre mai tenuta lealtà el tradimento che si facessi contro ad uno demolitore della patria sua (LCSG, 1° t., p. 135).
Lo spettro di Piero ricorre anche nelle missive della prima legazione in Francia (luglio-nov. 1500), nell’ottica allargata del gioco mobile delle alleanze degli Stati italiani: in particolare, in una lettera assai articolata inviata da Tours il 21 novembre M. informa i Dieci dei tentativi papali di convincere il re di Francia della maggiore affidabilità di un governo mediceo a Firenze (LCSG, 1° t., p. 523).
Piero è ancora oggetto di attenzione in alcune missive di governo nella primavera e nell’ottobre del 1501, ma con un carattere unicamente preventivo: M. chiede ai commissari di Arezzo e di Cortona di informarsi sull’eventuale presenza di Piero ai confini orientali del dominio (LCSG, 2° t., pp. 329 e 330). Ma non sono che poche note: l’azione di Piero, che ebbe in quei mesi un carattere invero effimero, sembra impensierire meno il governo fiorentino.
Piero de’ Medici non è mai nominato nei Discorsi e neppure nel Principe (che, va ricordato, è dedicato al figlio di Piero, Lorenzo duca di Urbino, il quale dal 1513 al 1519 fu di fatto signore di Firenze), ma a lui e alla sua caduta con ogni probabilità M. allude in Principe ix (De principatu civili: e prettamente fiorentino è del resto il contesto di questo capitolo che guarda, in primo luogo, all’esperienza del governo quattrocentesco dei Medici). Alla rottura del consenso degli ottimati fiorentini, che portò alla cacciata di Piero da Firenze nel 1494, sembra infatti riferirsi tanto il richiamo all’inaffidabilità del favore dei ‘grandi’ (dai quali il principe non solo «debbe temere di essere abandonato, ma che etiam loro li venghino contro», § 8), quanto il richiamo al pericolo rappresentato dal tentativo di passare (nel momento del pericolo) da un principato ‘civile’ esercitato con la mediazione dei «magistrati» (secondo la modalità che caratterizzò tradizionalmente il potere mediceo quattrocentesco) a un principato esercitato in modo «assoluto». Uno snodo attualissimo a metà degli anni Dieci del Cinquecento, quando era tangibile l’ipotesi di un esercizio ‘assoluto’ del potere da parte di Lorenzo. La cacciata del padre, nel 1494, pare dunque un’esperienza degna di attenta meditazione per il giovane rampollo di Piero:
Questi principi o comandano per loro medesimi o per mezzo de’ magistrati: nello ultimo caso è più debole e più periculoso lo stato loro, perché gli stanno al tutto con la volontà di quelli cittadini che a’ magistrati sono preposti; e’ quali, maxime ne’ tempi avversi, gli possono tòrre con facilità grande lo stato o con abbandonarlo o con fargli contro. E il principe non è a tempo ne’ periculi, a pigliare l’autorità assoluta [...] (§§ 24-25).