PIERO della Francesca (detto anche dei Franceschi: Piero di Benedetto da Borgo San Sepolcro; Petrus Burgensis; Petrus de Burgo S. S.)
Pittore e teorico dell'arte. Non è probabile ch'egli nascesse nel 1406 come afferma il Vasari, perché nel 1439 era ancora presso Domenico Veneziano, di certo come suo aiuto se non come garzone. Doveva avere avvicinato Domenico quando questi si trovava nell'Umbria: fu con lui (1439) a Firenze mentre lavorava agli affreschi della chiesa di S. Egidio nell'ospedale di S. Maria Nuova; secondo il Vasari, lo avrebbe indi accompagnato a Loreto per aiutarlo a cominciarvi altri affreschi poi tralasciati: ma doveva essersene già separato nel 1442, quando fu del Consiglio di Borgo S. Sepolcro. Quivi, nel 144, s'impegnava a compiere da solo, entro tre anni, un polittico: la Madonna della Misericordia. Forse poco dopo fu a Urbino, a Bologna, a Ferrara: era nel 1451 a Rimini dove nel tempio malatestiano è un suo affresco firmato, di quell'anno: Sigismondo P. Malatesta dinanzi a S. Sigismondo. Nel 1459 lavorava a Roma per Pio II. Nel 1466 aveva già compiuto, e probabilmente da alcuni anni, il suo maggior capolavoro ancora superstite: gli affreschi del coro di S. Francesco ad Arezzo. Lasciando altre notizie di sue opere scomparse, è da ricordare che nel 1469 fu a Urbino: colà, come in altri luoghi delle Marche, era già stato e poté ritornare altre volte dal non lontano Borgo S. Sepolcro, dove da ultimo risiedeva, intento a pubblici uffici, ai proprî poderi, alla pittura (prima del 1480 vi aveva affrescato la Resurrezione nel Palazzo comunale), a studî di matematica, di prospettiva e di geometria. E nella sua terra morì, il 1492, cieco forse già da più anni.
Dei suoi primi esordî nell'Umbria tutto è ignoto; ma se qualcuno tra i pittori umbri e senesi poté dargli avviamento, prima di Domenico Veneziano, fu il senese Domenico di Bartolo, le cui opere, giunte anche a Perugia, erano già piene di riflessi della nuova arte fiorentina e di Domenico Veneziano (sopra tutte, la Madonna, del 1433, nella Galleria di Siena): e di ciò una prova si potrebbe vedere nel manierismo tutto esteriore , come un vezzo calligrafico, ma singolare, in cui P. fu sempre solito segnare i capelli delle sue figure, ispidi e spinosi, ricordando i modi del maestro senese.
Periti gli affreschi della chiesa di S. Egidio a Firenze, dove P. aveva lavorato con Domenico Veneziano, resta nondimeno palese da tutta la sua opera che fondamento della sua arte fu il giovanile soggiorno fiorentino, nel quale P. divenne partecipe di tutti i nuovi concetti del Rinascimento. Se la sua mente poté essere rivolta alla teoria scientifica dagli esempî del Brunelleschi e di L. B. Alberti, fu allora essenziale nel formarsi della sua arte il conoscere le opere di Masaccio e di Paolo Uccello. Mentre sopra tutti Domenico Veneziano destava in lui quel senso dell'aperta luce da cui ebbe una delle sue più proprie qualità di pittore, le opere di Masaccio gli mostrarono quale potenza morale potesse prendere forma di concentrata corporeità, e quelle di Paolo Uccello come fondare su semplificazioni geometriche non soltanto la struttura dei volumi e dello spazio, ma la loro trasfigurazione fantastica. E da Paolo Uccello sembra essergli derivata (il segno più evidente è negli affreschi di Arezzo: Vittoria di Costantino; Vittoria di Eraclio) la poca motilità nell'insieme delle composizioni e negli atteggiamenti: inerzia, di cui molte volte egli fece virtù di sua arte, in figure e in composizioni (Madonna di Misericordia e Resurrezione a Borgo S. Sepolcro; "Madonna del parto", a Monterchi), la cui incrollabile stabilità è informata a tale impassibilità morale, che le fa remote e più grandi. Per questo P. differì a fondo dai maggiori maestri fiorentini del suo tempo, ai quali pur era strettamente congiunto in tutti i problemi dell'arte: da Andrea del Castagno e da Filippo Lippi prima, dal Pollaiolo e dal Botticelli poi, esaltatori dei moti fisici e spirituali. L'animo e la mente scientifica ebbero in lui concordi il senso pittorico e l'arte nel cercare e nell'esaltare quella solidità e fermezza di forma e dell'intimo. Pittore, egli definì il volume dei corpi, e il loro rapporto con lo spazio, con tanta intensità da imporli come rivelazioni incoercibili, volgendo al suo scopo anche gli elementi più instabili: luce e colore; teorico, ne portò la precisione a rigore matematico. Il colore, se pur diafano e brillante, intese come saldo tegumento della forma, non soltanto negli affreschi ma anche nelle tavole, dove la tecnica a olio, cui lo stimolavano gli esempî della pittura fiamminga (Madonna di Senigallia, nel Museo di Urbino), poteva portarlo a renderlo più vibrante. La luce non coordinò all'azione drammatica, come aveva fatto Masaccio, e poi Andrea del Castagno; non la vide nella qualità di fluido vago, come Filippo Lippi, né quale dissolvente della robustezza plastica, come Domenico Veneziano: ne fece l'elemento dominante su ogni parvenza, veduto per sé nel suo operare, anch'esso non fuggevole né instabile ma di una fissità che lo rende più intenso: luce solare, divorante; luce di aperto cielo, con trasparenze profondissime, che dà nitore a ogni cosa; luce che frange le tenebre. E dove egli passò, la traccia della sua arte, non imitabile altrimenti, restò segnata nel nuovo studio di alta e chiara luminosità tra i pittori di Ferrara, dell'Emilia, del Lazio.
La prima opera di P. alla quale si riferisca una data, è il polittico della Madonna di Misericordia (Borgo Sansepolcro, Galleria comunale), che il pittore assunse nel 1445 e certo procrastinò a finire anche oltre il 1448, termine stabilito nei patti, come non si attenne a questi lasciando che la predella e parte della cornice fossero dipinte da un suo debole anonimo aiuto. La Crocifissione, che corona il polittico, mostra ancora qualche incertezza (più che la tavoletta di uguale soggetto nella raccolta Hamilton di New York), perché ricordi di Masaccio, che diedero grandezza al crocifisso, suggerirono all'artista, nelle figure laterali, concitazioni non spontanee al suo temperamento; ma nelle altre parti, anch'esse tutte a fondo d'oro, il maestro è in piena sua potenza, sicuro non soltanto dei proprî mezzi fisici ma di un suo scopo: sotto l'alta e fissa luce, che già s'incorpora densamente nel colore, le forme sembrano tornite in compatta materia; e, nella parte centrale, entro la simmetria architettonica della composizione, la figura della Madonna - la corona e il suo volto sono chiusi in forme geometriche - assente e impassibile come idolo, impone il senso dell'immobilità e della massa.
Il Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), già nel duomo di Borgo Sansepolcro, è dello stesso periodo del polittico, ma forse più inoltrato, perché il senso dell'aperta luce che Domenico Veneziano aveva comunicato a P. vi ha già tutta l'individualità che si ritrova negli affreschi di Arezzo, e la composizione tutto il fare grave e monumentale di quei capolavori. Nello sfondo di paese macchie di siepi, di colture, di alberi possono ricordare i paesaggi lineati di Paolo Uccello, ma ne sorge altro senso che d'una prospettiva geometrica; sono valori della luminosità che tutto occupa e rivela. Tersissima luce meridiana rende splendenti i corpi, ne imbeve le chiare tinte, ne semplifica le forme entro lucidi contorni: immergersi in essa, sentirne l'immensità anche nelle accidentali apparenze - riflessi, acque trasparenti, nubi - è scopo supremo del pittore e dell'opera, la quale in quell'esaltazione del senso visivo, ch'è accrescimento di coscienza, trova uno dei fini più puri dell'arte. Ma non manca al capolavoro di P. nemmeno una più accessibile giustificazione, nel soggetto: nel pieno meriggio le cose sono immobili, gli atti sono lenti e gravi; come nell'Adorazione di Masaccio, la rappresentazione ha una silenziosa grande religiosità.
Non è possibile seguire poi nelle opere superstiti di P. una linea di sviluppo che guidi a stabilirne l'incertissima successione cronologica, forse perché troppe altre di lui sono scomparse - a Ferrara, a Bologna, ad Ancona -, certo perché la sua arte presto si costituì in tutto e, passato il periodo giovanile, a noi oscuro, non ebbe altre variazioni che verso un fare più monumentale e verso una tecnica più complessa, argomenti non sempre sicuri per la cronologia. Poco lontana di tempo dal Battesimo può essere la tavoletta (Venezia, Galleria) con S. Girolamo e il devoto Girolamo Amadì, in aperta campagna, in piena luce; dipinto in cui la bonomia del santo, che interrompe di leggere per guardare, un po' accigliato, il suo devoto, accenna già alla cordiale vena che dà calore alla rappresentazione di S. Sigismondo in atto di concedere benevola udienza a Sigismondo P. Malatesta, inginocchiato dinnanzi a lui come per omaggio feudale, nell'affresco (1451) della cappella delle reliquie nel S. Francesco di Rimini. La larga composizione di codesto affresco, cui viene grandezza e stabilità dal proporzionale spartimento dello sfondo architettonico, sembra precedere quasi immediatamente gli affreschi aretini.
Nel coro quadrangolare della chiesa francescana di Arezzo l'umile Bicci di Lorenzo aveva incominciato ad affrescare la vòlta, il sommo della parete di fondo e dell'arco trionfale; e forse soltanto dopo la morte di lui (1452), ma di certo non molto dopo, P. fu chiamato a compiere la vasta decorazione, che già nel 1466 veniva lodata. Tolse a soggetto degli affreschi la storia del legno della croce, tema carissimo ai francescani, che già in S. Croce a Firenze era stato istoriato da A. Gaddi: e sembra che fra le molte redazioni della leggenda P. abbia tenuto presente specialmente quella di Iacopo da Varazze. La sua natura lo portava ad altri intenti che di accompagnare con illustrazioni un testo; nondimeno egli si attenne assai strettamente a questo, mentre alla narrazione dava un tono suo proprio, adatto ai suoi più alti intenti d'arte, per questi trasfigurando anche fantasticamente il soggetto.
Narrava la leggenda che Adamo, stanco ormai degli anni, inviò il figlio Seth all'angelo guardiano del Paradiso terrestre per dirgli il suo tedio della vita; che Seth ritrovò il Paradiso e dall'angelo ebbe l'annuncio della prossima morte del padre e un ramoscello spiccato dall'albero del Bene e del Male, perché lo piantasse sulla fossa - o nella bocca - di Adamo; che Seth ritornò, trovò morto il padre e su lui piantò quel ramo che doveva crescere nel grandissimo albero, del cui legno fu formata la croce del Redentore. E P., nel primo affresco delle tre zone in cui spartì torno torno le pareti (esso, come gli altri, ha sofferto scrostature e lacune, e ha subito restauri, non tutti male intesi) seguì assai dappresso quel racconto: portò nel primo piano i due episodî principali - l'invio di Seth; la morte di Adamo - accennando agli altri nel lontano; e forse volle rappresentare già cresciuto l'albero della croce nel grande albero che occupa con i suoi rami tutto il cielo. Se la comune curiosità può trattenersi a rintracciare nell'affresco i particolari della leggenda, immediato è il senso della semplicità primordiale che la fantasia dell'artista v'impresse, eroizzando l'umanità nel vigore dei corpi ignudi, nella gravità degli atti, che nel muto raccoglimento esprimono la sorpresa e il dolore meglio del gesto veemente della donna che stride sul morto Adamo; ma assai più che la rappresentazione, pur attuata con tanta potenza, attrae ed esalta l'animo il sentire in modo incomparabilmente forte e puro, entro le trasparenze dell'aria e della luce, forme colore e profondità quasi in nuovo rivelarsi del visibile.
Poi, dal lungo seguito della leggenda il maestro, che nell'Annunciazione riassunse tutta la storia di Cristo, scelse soltanto alcuni momenti salienti; e prima l'episodio della regina di Saba che, nel giungere alla reggia di Salomone, riconosce e adora il tronco di quell'albero, allora già abbattuto, di cui doveva essere formata la croce: P. ne ideò una composizione che sembra rispecchiare la vita di corte del Quattrocento e la idealizza invece, nella solennità degli spazî e dell'architettura, nel vigore corporeo e nell'impassibilità delle figure - ermetiche profane donne intorno alla regina adorante -; su tutto proiettò la sua luce, che consolida le forme e il disteso colore, impregna i vapori del cielo.
Sulla parete di fondo del coro si apre un alto finestrone; e dall'irrompervi della luce nei riquadri minori che fiancheggiano la finestra, P. trasse occasione di nuove accidentalità di lumi: in figure di profeti stagliate a controluce; nelle storie del seppellimento del legno prodigioso e del ritrovamento della croce; nella Visione notturna di Costantino, dove un fulgore abbagliante insiste sulle tenebre e ne trae i corpi in tagliente rilievo.
Nella Vittoria di Costantino su Massenzio, da cui il racconto riprende in riquadri maggiori (né qui possiamo seguirlo nei particolari), la composizione è sapiente, non certo per il movimento (il maestro lo tentò quasi a malincuore soltanto in qualche figura, lo raggiunse nello striare di aste e di nuvoli il cielo), ma per il senso di corporea stabilità, di miracolosa certezza; l'occhio s'inebbria di luce cristallina, di colori compatti e sonori, di sfumante candore in uno sferico cimiero, di riflessi nel fiume, di chiare lontananze. Le stesse qualità sono nella invano agitata composizione della Vittoria di Eraclio e nella Morte di Cosroe; si ritrovano, ma diminuite dalla collaborazione di aiuti (specialmente nelle figure di S. Elena e delle sue compagne inginocchiate), nell'Invenzione della vera croce; si manifestano al sommo, se pur non in tutto libere dai collaboratori, nell'affresco - anch'esso offeso da larghe lacune - rappresentante Eraclio che riporta la croce a Gerusalemme. In questa Esaltazione della croce, che conclude la leggenda, Eraclio si ferma presentando all'adorazione dei fedeli la croce: e al momento statico, scelto dal maestro, bene conviene la composizione che nelle poche figure entro il vasto spazio ha grande solennità. È l'affresco una severa architettura di forme semplici e geometriche, ma racchiusa e immersa in una visione assai più vasta, in cui i corpi e la loro situazione nello spazio sono sottoposti all'intensa luce atmosferica, che attenua in macchie le cose lontane, scolpisce e dà fermezza alle vicine, e tutto veste di colori che rendono più salde le forme.
Circa il tempo in cui lavorava nel S. Francesco, P. poté affrescare ad Arezzo, nel duomo, la figura della Maddalena, a Monterchi in una cappella, ora nel cimitero, la "Madonna del parto", cui le figure degli angioli, in atto di scostare il pesante baldacchino per scoprire all'adorazione la gestante, nulla tolgono - tanto sono simmetriche - della grave staticità, improntata volutamente nella chiusa immobile figura. Invece il S. Ludovico, del 1460, ora assai guasto, nel Palazzo comunale di Borgo Sansepolcro, sembra eseguito su cartone di P. da qualcuno degli aiuti di cui vi sono tracce qua e là, oltre che nelle parti già indicate, negli affreschi del S. Francesco di Arezzo. E a questi non sembra anteriore, anche per l'ampio ritmo e per le forme delle architetture, la Flagellazione di Cristo, ora nella Galleria d'Urbino, tavoletta firmata ma senza data, che non v'è ragione convincente per riferire al 1444 all'incirca, supponendola dipinta a commemorare l'uccisione di Oddantonio da Montefeltro avvenuta in quell'anno: opera singolare per il sovrano disinteresse dell'artista verso il soggetto principale, così che mette in evidenza, anche più che negli affreschi di Arezzo, quanto il suo animo e i sensi siano assorti nel mondo fisico. Questo, più che l'intimo, il pittore ricrea con la sua sensibilità e con tecnica che ora emula la fiamminga nella fusione e nello splendore del colorito.
L'affresco della Resurrezione, nel Palazzo comunale di Borgo S. Sepolcro, sorpassa per larghezza di fattura anche i dipinti aretini, posteriore ad essi forse di parecchi anni: la forza morale di P. vi grandeggia anche sul visibile, ch'egli esalta con la sua pienezza di senso; e sembra impersonarsi nel Redentore che guarda e domina immobile con potere fascinatorio (nuova concezione del soggetto, intimamente spontanea nel pittore): immota è intorno la campagna nell'alta luce meridiana.
Di periodo molto inoltrato devono essere anche i ritratti di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza, duchi d'Urbino, con allegorie di loro trionfi nel rovescio (Firenze, Uffizî), dittico, la cui data si vuole stabilire circa il 1465, deducendola da un epigramma che si riferisce invece a un ritratto scompagnato del solo Federico. Vi sono al massimo grado tutte le qualità del pittore; né mai la sua tecnica fu più sottile a esprimerle. Le due persone sembrano non attrarre l'artista che per la loro apparenza fisica, chiuse nei volti impenetrabili: egli ne coglie con scrupolo anche le minori apparenze e sarebbe quasi sul punto di perdersi in oggettive e indifferenti minuzie, se sotto queste non insistesse, riconducendo il tutto a semplicità plastica, la prima impostazione geometrica delle due figure, evidente al sommo nel tornito ritratto del duca, e se tutto non dominasse, in unità di visione, la luminosa atmosfera che avvolge e modella le due figure, scopre le più profonde distanze ma anche le sommerge nella sua imponderabile densità e nelle brume. Lo sfondo lontano, veduto in minuti particolari, e la tecnica fluida, nel dittico degli Uffizî scoprono anche meglio che in altre opere quanto P. riguardasse la pittura fiamminga (e poté conoscere opere di un maestro sovrano, come Jan van Eyck, nonché di Ruggiero van der Weyden) pur differendone tanto nel suo modo di vedere, costruttivo e semplificatore. Tali rapporti, e le sostanziali differenze, son0 evidenti nella Madonna con angeli (già a Senigallia ora nel Museo di Urbino), nello sfondo d'interno, con una finestrata di sole che si concentra, dai vetri lenticolari, dietro le statuarie figure. A questa Madonna si accompagnano, anche per l'immaginativa che umanizza le figure degli angeli, un'altra tavola con la Madonna fra quattro angeli, vagamente nota in una raccolta privata; la grande pala già nella chiesa di S. Bernardino a Urbino (Milano, Brera); l'Adorazione del Bambino (Londra, National Gallery), ch'era rimasta a Borgo Sansepolcro nelle case dei discendenti di P. Nella pala di Urbino, in cui la figura di Federico da Montefeltro fu finita, o fu rifatta, nelle mani da altro pittore - supposto lo spagnolo fiammingheggiante P. Berruguete - l'impressione di spazio, ritmicamente concluso nelle forme architettoniche, è così grande da prevenire lo sfondo della stessa Scuola di Atene e da far bene intendere che P. fu maestro di Bramante non soltanto nella prospettiva, come ricordò Sabba Castiglioni: immobili grandeggiano le figure, nella consistenza dei corpi e del prezioso colore, entro l'alta luce di sole; tutte le qualità del maestro, cui vanamente fu negato tanto capolavoro, vi si accordano, temperandosi con dolcezze ch'egli forse cercò nel suo ultimo tempo.
A questo deve appartenere anche l'Adorazione del Bambino, tavola che sembra non essere mai stata condotta a termine. Nel gruppo degli angeli musici il tono eroico proprio del maestro cede a una festosa commozione, se pur contenuta; ma le forme, anch'esse affinate, hanno la consueta compattezza da una tecnica che riesce a nuove fusioni di modellato di luminosità e di colore: su tutto, nello sfondo è uno splendore abbagliante, sulla campagna che ne sembra calcinata, sulla città assolata.
Opere minori, e altre in cui l'arte di P. è meno alta, perché diminuita dalla collaborazione di scolari e di aiuti, sono lo splendente S. Michele (Londra, National Gallery), che non v'è ragione di attribuire al giovane grande discepolo, L. Signorelli; un trittico (nella Galleria di Perugia), in cui la predella meglio dimostra la mano di P., l'Annunciazione fa presentire il Signorelli; un frammento di affresco rappresentante Ercole (Boston, Museo Gardner), già nelle case di P. a Borgo Sansepolcro, e di sua mano; S. Nicola da Tolentino nel Museo Poldi Pezzoli a Milano; due Santi, in tavolette, nella Galleria Liechtenstein di Vienna; S. Apollonia nella collez. Lehmann di New York. E in tutto prossime al maestro, se pur non sue, sembrano due tavole con prospettive di edifizî, di piazze e di strade piene di luce e di silenzio (Urbino, Museo; Berlino, Schlossmuseum); di stretti discepoli una Madonna nella raccolta della marchesa Villamarina in Roma e un'altra nel Christ Church College di Londra.
Tra le molte opere cui male fu associato il nome di P. ricordiamo soltanto un debolissimo S. Girolamo (Berlino, Museo); resti di affreschi in S. Maria Maggiore a Roma, forse di Lorenzo da Viterbo; altri ora nella Pinacoteca di Ferrara; e altri ancora a S. Maria delle Grazie di Arezzo, da attribuire al mediocre discepolo, e forse collaboratore, Lorentino d'Arezzo; gli squisiti profili muliebri del Museo Poldi Pezzoli di Milano, del Museo di Berlino, degli Uffizî, di A. Pollaiolo, a cui non può unirsi uno spurio ritratto già in una raccolta privata d'Inghilterra.
Degli scritti teorici di P., che fra Luca Pacioli disse "monarca dei matematici", non rimangono che il trattato in volgare De prospectiva pingendi (a cura di C. Winterberg, Strasburgo 1899) e il De quinque corporibus regularibus (edito in Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, cl. sc. mor., XIV, 1915, pp. 441-580), che fu largamente plagiato dal Pacioli nel suo De divina proportione. Il trattato della prospettiva è pieno di problemi pratici risolti geometricamente con altra insistenza e precisione che nel De pictura dell'Alberti, ma poco aggiunge alla conoscenza di quel sovrano senso spaziale che il maestro ha esaltato nella sua arte. I matematici osservano che vi sono applicate nozioni poi sviluppate nella moderna geometria descrittiva, come l'uso della rotazione delle figure obiettive per facilitare il disegno delle figure prospettive e quello della moderna nozione d'inviluppo per determinare la prospettiva d'un solido mediante la proiezione delle sezioni del solido fatte con una serie di piani.
Nel De corporibus, P. determina le misure di poligoni regolari, dei poliedri regolari, della sfera e dei poliedri iscritti in una sfera e tratta di cinque dei tredici poliedri semiregolari noti ad Archimede e della determinazione del volume e dell'area del solido ottenuto con l'intersezione di due cilindri circolari retti ed uguali, aventi gli assi concorrenti ortogonalmente (vòlta a crociera); non è da escludere l'influenza di Erone e di Archimede.
V. tavv. XLIX-LVIII.
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