Piero della Francesca: il maestro nel suo tempo
Piero di Benedetto di Piero nacque a Borgo Sansepolcro, una città, allora, di circa 4300 abitanti, che passò in pochi anni dal dominio dei Malatesta a quello del papa e successivamente a Firenze. Sansepolcro era città fiorente e culturalmente vivace. Nella sua chiesa maggiore, la Badia, appartenente all’Ordine dei camaldolesi, accoglieva importanti opere medievali di scultura lignea, affreschi riminesi del Trecento, un polittico del senese Niccolò di Segna. Posta tra la Verna e la via di Roma, era – ed è tuttora – meta di pellegrinaggi.
Nonostante la cura con cui vi furono registrati e conservati gli atti ufficiali, non si è però trovato l’atto di battesimo di Piero. Così la data della nascita oggi accettata è il risultato di riuscite congetture, soprattutto di James R. Banker, che l’ha dedotta ricostruendo il probabile anno, 1410, del matrimonio dei genitori, Benedetto di Piero e Romana di Renzo di Carlo da Monterchi1. Tenuto conto che Piero fu il primogenito, seguito da cinque fratelli, ne deriva la nascita nel 1411-1412. Risulta poi che nel 1436 Piero era in età di fare da testimone. Nei documenti Piero è normalmente indicato come «di Benedetto», a Sansepolcro, o «del Borgo» in altri luoghi. Il patronimico della Francesca è at-testato nel Trecento, divenendo dei Franceschi alla fine del Quattrocento. Nel 1388 «Monna Cecha de Benedecto dela Francesca», bisnonna di Piero, lascia alla compagnia di Santa Maria della Misericordia «uno broccolo d’oglio». Con Cecca ha inizio la stretta consuetudine della famiglia con la compagnia della Misericordia, che aveva un ruolo eminente nella vita cittadina.
Il padre di Piero era conciatore e commerciante di pelli, era cioè insieme artigiano e mercante. Se la maleodorante concia era mestiere plebeo, la pelletteria era invece arte di lusso, il che in parte spiega l’acuta attenzione di Piero per le fogge degli abiti e per le impeccabili cuciture degli stivali. Il padre aveva ricevuto alcune eredità subito prima del matrimonio e anche questa circostanza incoraggiava la sua ambizione sociale, che soddisfece specialmente quando, nel 1460 circa, si dette al commercio del guado, la pianta da cui Firenze otteneva il turchino per la tintura dei panni. Benedetto di Piero era il capo autoritario della sua numerosa famiglia, e Piero ebbe forse difficoltà ad emanciparsi. Da ragazzo doveva aver frequentato la scuola di grammatica fino al secondo grado, mentre aveva studiato la matematica, di cui fu sempre appassionato. Negli scritti pervenuti Piero dimostra di saper leggere il latino2. Al Borgo Piero era stato sicuramente in relazione con il quasi coetaneo Jacopo degli Anastagi, che abitava nella sua stessa parrocchia di San Nicolò. Uomo di grande cultura, questi aveva formato a Sansepolcro una splendida biblioteca di codici latini. Si sarebbe poi imparentato con i Franceschi, poiché il 23 ottobre 1446 Giovanna di Antonio di Lorenzo degli Anastagi avrebbe sposato Marco della Francesca, fratello di Piero.
Per quel poco che ne sappiamo, Piero dovette essere gentile e tollerante. Ai confratelli della compagnia dell’Annunziata di Arezzo, che gli chiedevano ingenuamente di dare visi ‘angelici’ agli angeli del loro gonfalone, prometteva senza scomporsi che li avrebbe fatti come chiedevano. Aveva anche un sottile sense of humor, come dimostra negli affreschi di Arezzo, dove piazza un sussiegoso nano accanto a Elena nel pieno della discussione sullo scavo delle croci, o inventa una conchiglia come copricapo d’una schiavetta africana e rivela cose nascoste nelle brache degli uomini ebbri che gettano nell’acqua il legno destinato alla croce.
Il primo documento che riguarda Piero come pittore è un pagamento del 27 maggio 1430, a lui e ad Antonio d’Anghiari, per aver dipinto gli stemmi papali sugli edifici del Borgo. Seguono altri pagamenti per piccole commissioni come quando, nel 1431, Piero fu pagato poco più di una lira dalla confraternita di Santa Maria della Notte per aver dipinto le candele che sarebbero state portate in processione per il Corpus Domini. Anche per questa piccola commessa egli fu pagato direttamente e non come dipendente da Antonio d’Anghiari, del quale appare socio, ma non sottoposto, in diverse occasioni.
Si è spesso insistito sulla formazione fiorentina di Piero. Egli fu precocemente interessato alle grandi novità di Firenze, di cui aveva esempi vicini a casa in creazioni di Donatello ad Arezzo e a Citerna, ma la sua opera più antica, una piccola immagine della Madonna col Bambino, già nella collezione Contini Bonacossi (cat. 1), non presenta nulla che possa riferirsi ad una specifica bottega fiorentina, mentre già dimostra una personalità sicura, inconfondibile e aggiornata. Escluso il magistero di Antonio d’Anghiari, la sua formazione come pittore si compì di sicuro fuori da Sansepolcro, in una bottega cui l’aveva avviato il padre3.
«Quanto più presto puoi incomincia a metterti sotto la guida del maestro a imparare» aveva scritto Cennino Cennini. Era la norma, a un artigiano come il padre di Piero ben nota, e dobbiamo perciò presupporre un avvio di Piero alla pittura assai precoce. Scartato dunque Antonio d’Anghiari, non si possono trascurare le relazioni con Firenze della Badia camaldolese di Sansepolcro, con la quale i rapporti della famiglia dei Franceschi erano strettissimi. I camaldolesi possedevano case in Oltrarno, intorno alla loro chiesa del Salvatore che, come testimonia la documentazione trovata da Cecilia Frosinini (1990), affittavano a pittori, scontando parte della pigione in lavori, sicché «Camaldoli», come la zona veniva chiamata a Firenze, sembra essere stata nel Quattrocento l’equivalente di ciò che fu per Parigi La Ruche nel XX secolo. Tra gli ospiti vi era Bicci di Lorenzo, che aveva la bottega «in Camaldoli» (e in seguito vi avrebbe comprato la casa) e con il quale Piero ebbe rapporti di amicizia e solidarietà ancora anni dopo, esattamente nel 1447-14524. Può sembrare precipitoso indicare in Bicci il vero maestro di Piero, ma ciò sembra almeno molto probabile. Egli aveva una bottega numerosa ed era il più autorevole tra i residenti «in Camaldoli». Ad orientare Piero verso «i Camaldoli» dovette concorrere poi l’entrata in convento, a Sansepolcro, del suo fratello Francesco nel 1428, dunque negli anni in cui è più probabile che Piero fosse avviato in bottega5.
La Badia dei camaldolesi di Firenze non era troppo distante dal Carmi- ne, dove Piero poté avere il primo incontro con le novità di Masolino, Masaccio, Filippo Lippi. Eppure, se consideriamo la prima opera a lui attribuita, la piccola Madonna col Bambino già citata, non vi troviamo l’impronta dei grandi pionieri della pittura fiorentina, tranne l’idea, che poté derivare da Filippo Lippi, di rap- presentare le figure in un interno, affacciate a una finestra e con un’altra finestra alle spalle. Neanche il Battesimo di Cristo (cat. 2), eseguito nel 1433-1434, può inserirsi nel quadro della pittura fiorentina più avanzata. Ma già la Crocifissione nel Polittico della Misericordia (cat. 6), per l’insistenza prospettica e il rilievo dato dalla luce radente, può essere associata a Domenico Veneziano e a Domenico di Bartolo, ovvero dopo l’andata di Piero a Perugia.
Per via di eliminazione, siamo così vicini a cogliere il segreto di Piero: il suo essere non semplicemente un pittore, ma un matematico pittore. La sua arte, come ha scritto Judith Field, è una «mathematician’s art»6. La composizione del Battesimo, la sua prima opera pubblica, è tutta calibrata su precisi rapporti matematici e anche la tavoletta già Contini Bonacossi nasconde, sul rovescio, un preciso studio prospettico, con la rappresentazione, in finta tarsia, di un rinfrescatoio collocato tra due aperture rettangolari. In questo pensare come matematico, Piero si distacca da tutti i pittori contemporanei, in un percorso ineguagliato.
Piero era dunque già un pittore formato quando, nel 1438, passati i vent’anni, collaborò con Domenico Veneziano a Perugia, per gli affreschi (perduti) nel palazzo di Braccio Baglioni. Si trovava allora a Perugia anche il senese Domenico di Bartolo, il quale, in una tavola datata 1433, ora nella Pinacoteca di Siena, aveva dimostrato una meravigliosa capacità di coniugare Donatello, Luca della Robbia e Filippo Lippi, in una pittura limpida e luminosa, armoniosamente prospettica, con risultati che sembravano anticipare la ricerca di Piero. Mentre il maestro senese era già dal 1428 nel Ruolo dei pittori, e già sembrava aver perduto l’ardimento iniziale, tra Piero e Domenico Veneziano correvano pochi anni, anche se il più anziano dei due aveva collaborato, tre o quattro anni prima, alla conclusione degli affreschi di Gentile da Fabriano e Pisanello nella basilica lateranense. L’incontro con Domenico Veneziano fu per Piero assai importante, ma non vi fu tra loro il rapporto tra maestro e allievo.
Nonostante i soggiorni a Firenze e le assenze dalla patria tra il 1438 e il 1458 – anni in cui fu a Sansepolcro solo sporadicamente, esattamente nel 1445, 1450, 1453 e 1454 –, Piero non fece mai sua la lingua toscana e anzi si espresse nei suoi scritti con una forte coloritura locale7. A Firenze doveva apparire del tutto estraneo e non fu certo lui il corifeo di quella «pittura di luce» che Luciano Bellosi considerava dominante fino all’avvento di Piero del Pollaiolo, nel 1460 circa. È però da escludere che fosse Piero della Francesca il «Piero di Benedetto» che partecipò alla Incoronazione della Vergine in Sant’Ambrogio (ora agli Uffizi), di Filippo Lippi, per la quale i fondi erano stati raccolti dal 1439 ma che fu conclusa, con la proverbiale lentezza di Filippo, solo nel giugno del 1447. La predella fu pagata addirittura nell’agosto del 1458.
Tornando a Sansepolcro, troviamo Piero impegnato a dipingere di nuovo con Antonio d’Anghiari, nel 1434-1435. Insieme affrescano in Badia la cappella di San Lorenzo, fondata per testamento di Lorenzo di Fante del 1416, ma edificata solo nel 1430-1432. Antonio fu pagato dalla compagnia delle Laudi nel 1434 e nel 14358. Piero fu pagato nel 1438 nelle mani del padre9. Le maggiori attese della città erano però rivolte allora al grande polittico per l’altare maggiore di San Francesco10. Già nel 1426 le tavole erano state installate dal carpentiere Bartolomeo di Giovanni d’Angelo, ma solo nel 1430 fu firmato il contratto con Antonio d’Anghiari perché, nel termine di tre anni e sei mesi, dipingesse la parte anteriore del polittico opistografo. Due anni dopo, nel 1432, lo stesso Antonio, in un documento che segna la rottura del rapporto con Piero e i della Francesca, si dichiarava in debito di 56 fiorini verso il padre di Piero per l’opera del figlio «pro fornimentis picturarum»11. Finalmente nel 1437 fu deciso di commissionare un’opera interamente nuova ricorrendo al maggiore maestro senese vivente, Stefano Sassetta, che fece costruire a Siena una nuova struttura lignea.
Nel 1444 il grande polittico fu portato da Siena a Sansepolcro e collocato sull’altare12. Al tempo della commessa al Sassetta, Piero aveva appena ricevuto l’incarico di dipingere il Battesimo per la chiesa di San Giovanni Battista in Val d’Afra, posta sotto il patronato dei Graziani. La commessa risale al 5 settembre 1437, ma i copricapi dei filistei, nel dipinto, dimostrano la conoscenza degli abiti del clero ortodosso, che Piero poté forse osservare già nel 1438 a Ferrara, dove il concilio si era aperto l’8 gennaio, prima che nel 1439 a Firenze.
Nel Battesimo Piero presenta tutta la cristallina novità del suo mondo poetico, il suo sguardo ammirato verso il creato, la ricerca di un’armonia dei colori che quasi cancella le ombre e fa apparire i corpi come proiezioni immateriali. Nello stesso tempo dimostra il suo studio delle proporzioni, la concezione di una regolarità dettata dalla prospettiva, gli accostamenti della proiezione della visione sul piano, o com’egli si esprime, sul «termine» dove si arrestano i raggi visivi.
Straordinariamente pronto a far proprie le grandi novità dell’arte fiorentina, come studioso di matematica e di prospettiva, Piero aveva un grande vantaggio, che gli consentiva di comprendere meglio le teorie di Leon Battista Alberti sulla prospettiva, enunciate nel De pictura, scritto in latino e pubblicato in volgare nel 1436. Il trattato dell’Alberti non riguardava soltanto le regole della prospettiva, incitava anzi alla nobiltà della pittura, dava istruzioni sulla rappresentazione della storia, commemorava i grandi pittori del passato noti dalle fonti latine, trasmettendo quell’ideale di perfezione che aveva indicato Vitruvio. Erano argomenti su cui Piero avrebbe meditato per tutta la vita, che avrebbe ripreso nel trattato sulla prospettiva, dove porta a esempio «Aristomenes Thasius, Polides, Apello, Andramides, Nitheo, Zeusis» e ancora quando avrebbe dipinto Ercole come protettore della sua stessa casa.
Nel settembre del 1439 Piero era a Firenze, impegnato con Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti, ad eseguire gli affreschi (lasciati interrotti, completati da Baldovinetti nel 1460-1461 e distrutti nel 1594) nella cappella maggiore, Portinari, di Sant’Egidio, chiesa dell’ospedale di Santa Maria Nuova13. Una nota di pagamento a Domenico fu allora consegnata a Piero con la specifica: «sta cho’illui»14. La descrizione di Giorgio Vasari e i Ricordi di Baldovinetti consentono di sapere quali pareti furono affrescate da Andrea del Castagno, Domenico e Alesso, ma non fanno menzione delle parti attribuite a Piero. La menzione, di Vasari, di «un nano che rompe una mazza» e di «un putto che batte col martello l’uscio della camera» di sant’Anna, rispettivamente nella Nascita di Maria e nello Sposalizio della Vergine, entrambi dipinti da Domenico, farebbero pensare a un debito con le curiosità descrittive di Iacopo Bellini. Sono annotazioni curiose che riaffiorano negli affreschi di Arezzo. In quello stesso anno 1439, a Firenze, Piero poté vedere il legittimo imperatore romano, Giovanni VIII, con il seguito di dignitari e uomini di Chiesa, i cui costumi esotici furono creduti antichi. Era forse il secondo incontro, se uno se ne era verificato a Ferrara, con l’Impero romano vivente.
Forse nel 1440 Piero era stato a Modena, se è lui quel «magistero Pietro Benediti de Burgo» chiamato a testimone per il contratto dello scultore Michele da Firenze con il duomo. Modena era nei domini estensi e Michele da Firenze aveva commissioni importanti a Ferrara. Se fu il collega fiorentino il tramite per la presentazione di Piero a Lionello d’Este, o se invece Piero si recò a Modena da Ferrara, in ogni caso in una delle sue battaglie dipinte nel castello degli Este appariva Lionello, che morì il 1° ottobre 1450. L’aspetto di questa sua prima battaglia è stato ricostruito in termini approssimativi sulla base di copie cinquecentesche15. Specialmente nella copia di Baltimora già si nota il contrapposto tra cavalli bianchi e cavalli bruni, l’attenzione per i caduti e per lo sventolio delle bandiere, tutte cose che saranno significative, di lì a poco, per l’invenzione della Battaglia di Eraclio che Piero dipingerà ad Arezzo (cat. 7e). Le copie su cui ci documentiamo avranno sicuramente aggiornato il modello di Piero, ma il confronto con il ciclo arturiano di Pisanello a Mantova dimostra la distanza dell’artista dal mondo gotico. Cavalli e cavalieri agiscono per lui in uno spazio concreto.
Sappiamo inoltre che, sempre a Ferrara, Piero eseguì affreschi anche nella chiesa agostiniana di Sant’Andrea, oggi distrutta e già ridotta in altro stato nel 1501. Allora Piero fu probabilmente messo al corrente del progetto di affidare a Pisanello un dipinto commemorativo del passaggio dell’imperatore greco e forse vide i precisi disegni con cui Pisanello si era documentato in preparazione dell’opera mai realizzata16. Sempre alla corte di Lionello Piero conobbe esempi assai alti di pittura fiamminga, poté vedere il ritratto del buffone Gonella di Jean Fouquet. Il tema del ritratto appassionava la corte estense, dove nel 1441 si era svolta la gara tra Iacopo Bellini e Pisanello per il ritratto di Lionello17.
L’11 giugno 1445, a Sansepolcro, la compagnia della Misericordia, con la quale la famiglia di Piero aveva stretti rapporti, gli commise l’esecuzione di un polittico per 150 fiorini d’oro (cat. 6). Era una cifra abbastanza vicina a quella, 140 fiorini d’oro, promessa ad Antonio d’Anghiari per il polittico di San Francesco. Evidentemente la confraternita si era messa in gara per avere un polittico non meno importante. La parte lignea era già stata approntata dal carpentiere Giovanni Benedetto d’Angelo fin dal 1428, ma a Piero fu chiesto di ridisegnare anche la struttura architettonica del polittico, che andò distrutta nel Seicento. Avrebbe dovuto consegnare il lavoro finito entro tre anni, ma dovette indugiare, tanto che nel gennaio 1454 fu sollecitato a tornare in patria, di dove si era assentato, per ultimare l’opera entro quaranta giorni pena la restituzione dell’anticipo. Non erano molti e dunque doveva mancare poco alla fine. Probabilmente si trattava solo del pannello con san Giovanni e san Bernardino. Tuttavia l’ultimo pagamento Piero lo ricevette soltanto nel 1462. Predella, piccole immagini e monogramma della Misericordia sui contrafforti furono eseguiti dal camaldolese Giuliano Amadei, che fu effettivamente a Sansepolcro tra il 1458 e il 1462. È probabile che un tempo di esecuzione così lungo non dipendesse tanto dalle frequenti assenze del pittore, quanto dalle esitazioni dei confratelli, che si trovavano ad aver ordinato un’opera superiore alle loro disponibilità18. Forse il pagamento a Piero sottintende che le pitture di Giuliano Amadei erano state eseguite su suo disegno19. Idee di Piero affiorano infatti sotto l’esecuzione modesta.
Non sappiamo quando effettivamente Piero si sia accinto all’opera. Per il pannello con san Bernardino, certamente non prima che questi fosse canonizzato, vale a dire non prima del 1450. Dal punto di vista biografico è da segnalare la presenza del probabile, fervente autoritratto nel gruppo di fedeli sotto il manto della Vergine che fu il primo pannello ad essere eseguito20. Piero appare un uomo relativamente giovane, con capelli neri ricci, dalla faccia larga, le labbra tumide, il collo largo con il gozzo prominente.
Con l’interminabile commissione della Misericordia, Piero si era ritrovato nel giro familiare. Doveva però sfuggirgli presto. Nel 1450 è ad Ancona, dove in San Ciriaco dipinge lo Sposalizio della Vergine che Vasari ricorderà come «una storia bellissima» e che era ancora visibile nel 158621. Torna così interessante riprendere in considerazione una predella in collezione Kleinberger, pubblicata nella sua Storia dell’arte da Adolfo Venturi, il quale giustamente vi riconosceva l’impronta di Piero persino in alcuni particolari come «la capigliatura a lunghe ciocche serpentine». La predella, di un maestro che ha anche molti punti di contatto con Paolo Uccello, rappresenta anch’essa lo Sposalizio della Vergine e, immaginando il modello da cui deriva, possiamo davvero credere al giudizio di Vasari22.
Sempre ad Ancona Piero («magistro Petro Benedicti de Burgo Sancti Sepulcri») fu allora anche testimone, il 18 marzo 1450, alla stesura in casa Ferretti del testamento di Simona del fu Feliciano di Vannuccio, vedova del conte Giovanni di messer Francesco di Liverotto Ferretti. Il pittore era dunque intimo dei Ferretti, i quali non soltanto appartenevano ad un illustre casato, ma erano, almeno alcuni di loro, interessati alla cultura umanistica, come provano la biblioteca e i rapporti con Giovanni Aurispa del figlio di Simona, Francesco, morto l’anno prima del testamento della madre23. Questa presenza di Piero in casa Ferretti è significativa, poiché probabilmente non erano stati i Ferretti i committenti della pittura in San Ciriaco e dunque i rapporti dell’artista ad Ancona non si limitavano a una sola famiglia. Del soggiorno anconetano resta testimonianza nella preziosa tavoletta con san Girolamo penitente (cat. 3), conservata nei musei di Berlino e datata 1450, che ispirò una composizione analoga di Nicola di Maestro Antonio d’Ancona.
Un passaggio a Bologna è segnalato da Luca Pacioli e ricostruito dalla critica in base agli echi della pittura di Piero riscontrati nei pittori bolognesi, che però non consentono nessun appiglio di date24. Nel 1451 Piero era a Rimini. Nel Tempio Malatestiano firmò e datò l’affresco con Sigismondo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo (cat. 4). A Rimini era stato verosimilmente introdotto dal colto e potente concittadino ser Jacopo degli Anastagi, cui già si è accennato sopra25. Il 12 settembre 1452 Maso di Bartolomeo ricevette l’incarico per la grata del sacello in cui Piero aveva dipinto. Fu forse Maso che presentò Piero a Urbino.
Non abbiamo committenti illustri per l’opera maggiore che ci sia rimasta, il ciclo di affreschi nella cappella maggiore di San Francesco ad Arezzo, posta sotto il patronato della famiglia Bacci, dove Piero subentrò alla bottega di Bicci di Lorenzo e del figlio Neri. Bicci morì nel 1452 e il 6 maggio fu sepolto al Carmine, ma è assai improbabile che fosse rimasto sui ponti della cappella a dipingere fino all’ultimo. Nel 1446 aveva dichiarato di avere 78 anni, un’età ragguardevole per un compito così faticoso. Con il figlio, aveva fatto in tempo a dipingere la fronte della cappella e la volta, lasciando incompiuti due comparti nei costoloni, che furono completati da Piero e da Giovanni di Piamonte. La perfetta cucitura dei nuovi intonaci con i brani lasciati da Bicci fa pensare a un intervento immediato di completamento. Ai Bacci, premeva di finire un’impresa in cui la famiglia era impegnata da più d’una generazione. In una dichiarazione al catasto del 1446 traspare la loro ansia: «one di caricho… a fare una chapela, cioè a dipigniere… chera aloghata per fiorini 400… e per imposibilita di le graveze chio one aiute no se fatta, che non credo che mi possa inchore bene se ella non si fane»26. E ancora, nello stesso anno: «che non credo che mi posa incorre bene per insino no si fa». Nel 1447 i Bacci vendettero una vigna per far fronte alle spese. In una nota di spesa di quell’anno, nell’archivio Bogherini Baldovinetti, è registrata una somma per il «dipintore che a tolto a dipignere la nostra cappella grande di san francescho». John Pope-Hennessy, Charles Hope e ora Paola Refice hanno escluso che il «dipintore» fosse il vecchio Bicci e concluso che doveva trattarsi di Piero27.
La fedeltà a uno schema assai semplice, nella concezione della lunetta a sinistra, sembra ancora rispettosa del programma lasciato interrotto, ma già nelle due teste di angeli che Piero e Giovanni di Piamonte dipingono sui costoloni della volta è un forte segno di novità. Mentre gli angeli di Bicci guardavano la volta, quelli di Piero guardano verso le pareti, dove sarebbe nato il più inventivo piano narrativo d’ogni tempo.
Piero ebbe bisogno di tempo per immaginare una storia che avrebbe narrato in modo assai lontano dal prototipo proposto (come gli affreschi di Agnolo Gaddi in Santa Croce, quelli di Cenni di Francesco di ser Cenni a Volterra) e per tradurla in cartoni da realizzare in affresco: cartoni perfetti dove nessun dettaglio era trascurato. Era la prima volta che una campagna di affreschi si presentava con un progetto così ferreo.
Per Battisti, Piero non poté intervenire prima della morte del principale committente, Francesco Bacci, avvenuta il 28 marzo 145928; Kenneth Clark riteneva che la Vittoria di Costantino (cat. 7r), ultima delle storie dipinte da Piero nella cappella, risentisse della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, e fosse dunque posteriore al 1455; per Carlo Ginzburg, che sosteneva che responsabile del programma degli affreschi fosse Giovanni Bacci, e che il tema ispiratore della cappella fosse la riconquista di Costantinopoli, Piero intervenne dopo il 145929. Calvesi ha motivato gli affreschi di Arezzo con la vittoria cristiana sul Danubio nel 145930. La tesi che gli affreschi della cappella fossero connessi alla caduta di Costantinopoli fu proposta per la prima volta da Aby Warburg nel 191231. Il presupposto è che l’affresco con la vittoria di Costantino fosse in programma fin dagli inizi. Ma che così fosse non è certo.
Le notizie della vita di Piero portano invece ad ammettere alcune interruzioni. Nonostante l’impegno di Arezzo, nella primavera del 1453 Piero era di nuovo al Borgo, dove gli veniva consegnata una balestra in previsione della guerra tra Firenze e Alfonso d’Aragona, ma dovette assentarsi subito dopo, se la confraternita della Misericordia, che gli aveva commissionato il polittico nel giugno del 1445, nel 1454 lo richiamava in patria. Era ad Arezzo, quando lo reclamavano a Sansepolcro? Poteva essere a Roma.
A questo punto suscita interrogativi l’affermazione di Vasari, secondo la quale Piero avrebbe per papa Niccolò V «lavorato due storie» in Vaticano «a concorrenza di Bramante da Milano». Se il riferimento a Bramante è evidentemente una svista, l’elenco dei ritratti che apparivano nelle storie presenta nomi che ebbero relazioni diplomatiche con Niccolò V32. In base all’affermazione di Vasari, Piero sarebbe stato dunque a Roma prima del 24 marzo 1455, data della morte di Niccolò V33. Forse addirittura intorno al 1447, quando anche l’Angelico e Benozzo Gozzoli lavoravano in Vaticano. Siamo nel campo delle supposizioni, ma non vi è dubbio che la scena della Battaglia di Eraclio (cat. 7e), che Bellosi riteneva dipinta prima del 145934, abbia chiari ricordi di monumenti romani, dai rilievi traianei ai cavalli del Quirinale. Al contrario, l’architettura del tempio di Venere a Gerusalemme, nel secondo registro (cat. 7c), non mostra tracce di Roma ma, se mai, arieggia l’architettura veneziana, per il rivestimento di marmi variegati, e Leon Battista Alberti per le proporzioni.
La cesura potrebbe testimoniare un incarico a Roma, che Antonio Pinelli ricostruisce attribuendo al primo soggiorno romano, sotto Niccolò V, gli affreschi sulla volta della cappella del cardinale Guillaume d’Estouteville in Santa Maria Maggiore.
Il confronto con altre opere di Piero non è però così facile, innanzi tutto perché, trattandosi di una volta, non fu usato lo spolvero, che avrebbe provocato scomode difficoltà di lavoro, e la figura fu incisa, direttamente e con grande maestria, nell’intonaco ancora fresco.
Secondo Pinelli, Piero avrebbe dovuto abbandonare il lavoro lasciando a Benozzo l’incarico di continuare l’opera35. Patrizia Di Benedetti è stata l’ultima a negare a Piero la figura di San Luca (cat. 8) e ritengo giuste le sue osservazioni quando scrive che «la marcata fisionomia del volto e il robusto modellato della mano sono lontani dal nitore idealizzante di Piero»36. Tuttavia è certo che una figura tanto imperiosa e monumentale non può spettare a Benozzo.
Se guardiamo attentamente come la luce da tergo modelli il volto del santo, possiamo però trovare alcuni riscontri in disegni eseguiti da Benozzo con la biacca su carte scure. Benozzo deve aver visto Piero in Vaticano, quando entrambi lavoravano per Niccolò V, ma il nostro problema è che, mentre ci restano opere dell’Angelico e di Benozzo di quel tempo, di che cosa facesse Piero a Roma abbiamo solo vaghe notizie. Non sappiamo quali fossero i suoi aiuti, di dove provenissero e proprio questo possente San Luca potrebbe essere di un collaboratore eccezionalmente dotato, di cui scopriremo, si spera, altre opere.
Gli affreschi dovevano proseguire sulle pareti, ma l’opera rimase interrotta37. L’affresco aretino con la vittoria di Costantino poté inoltre essere compiuto solo dopo la chiusura delle nicchie che si aprivano nel muro di destra della cappella. La decifrazione delle costellazioni raffigurate nel Sogno di Costantino (cat. 7q) indicherebbe la data 27 ottobre 1463, cui sembra però arbitrario connettere l’esecuzione degli affreschi38.
In conclusione, dobbiamo immaginare il procedere dei lavori in fasi successive. All’inizio, dopo la volta, si colloca la parete sinistra con il tratto contiguo del muro con la finestra; segue la parete destra con il tratto di muro adiacente e infine, forse dopo un’ultima interruzione, Piero crea la scena di Costantino. L’affresco di un anonimo in Santa Maria del Carmine a Tavernelle in Val di Pesa, riconducibile al 1460, cita dagli affreschi di Arezzo l’Annunciazione (cat. 7f) e l’architettura del palazzo di Salomone39 (cat. 7p). Anche un modesto pagamento per il trasporto dei vetri della finestra, nel dicembre 1459, lascia intendere che i lavori erano finiti40.
È certo che nel luglio 1464 Piero si sentiva abbastanza libero dall’impresa di San Francesco, se assumeva l’impegno di uno stendardo per la compagnia aretina della Trinità, ma è con la richiesta di un gonfalone da parte di un’altra confraternita di Arezzo, quella dell’Annunziata, il 20 dicembre 1466, che abbiamo l’esplicita conferma che a quella data la cappella era finita. Il compito fu presto eseguito e alla fine del 1468 i confratelli raggiunsero Piero a Bastia, dove era sfollato per sfuggire alla peste. Nel 1465, insieme al fratello Marco e a un terzo fratello, Piero aveva comprato una casa nel centro di Sansepolcro. Continuava a vivere nella famiglia. L’acquisto sembrerebbe confermare il disimpegno da altre incombenze fuori della patria, anche dagli affreschi di Arezzo.
Roma ebbe un peso molto importante per Piero. Luciano Berti ha supposto che vi si fosse già recato da giovane, con il padre, nel 1441, per rendere omaggio al pontefice Eugenio IV, nel cui dominio il Borgo era entrato41. Come pellegrino, poteva esservi ritornato ancora nel 1450. Ma la sua presenza a Roma, dove la sua operosità è ipotetica tra il 1447 e il 1455 – ma a chi scrive sembra certa – è invece documentata più tardi. Il 22 settembre 1458 Piero era ancora a Sansepolcro, mentre il 12 aprile del 1459 riceveva il pagamento di 150 fiorini d’oro per «certe dipinture che fa nella camera della Santità Nostro Signore Papa». I palchi erano stati innalzati nell’ottobre 1458. Il 23 maggio seguente la Camera Apostolica dispose il pagamento di altri 80 fiorini «serviti per valore di otto migliaia di pannelli d’oro distribuiti nelli ornamenti et penture di una camera di Nostro Signore in Palazzo». Secondo Vasari, Piero fu richiamato in patria dalla morte della madre, avvenuta il 6 novembre 1459.
A Roma, oltre a conoscere le testimonianze dell’antico, oltre a immergersi nel fervore costruttivo dell’Urbe, Piero poté forse incontrare Leon Battista Alberti, allora scrittore pontificio. Soprattutto ritrovò il concittadino Francesco di Benedetto Cereo, l’architetto della loggia di San Pietro e del Palazzo di Venezia, con il quale condivise interessi matematici, e che lo inoltrò allo studio delle vestigia romane nonché dell’architettura42.
Niccolò V aveva promosso la traduzione latina dei testi scientifici greci, e Piero non solo copiò Archimede latino (oggi, Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 106)43, ma condivise con Francesco un altro codice di Ar- chimede, il parigino Nouv. Acq. Lat. 1538, che cita nel trattato De quinque corporibus regularibus44. I contatti tra Piero e Francesco sono evidenti nella luminosa miniatura che fa da frontespizio all’Ottica di Euclide appartenuta a Francesco: una lunga prospettiva cittadina dominata da un pozzo ottagonale somigliante a un esempio di Piero nel trattato sulla prospettiva.
Il 4 ottobre 1454, quando Piero era forse in procinto di partire per Roma e aveva finito il lavoro di Arezzo, gli era stato allogato il polittico degli agostiniani di Sansepolcro, per il quale sarebbe stato ricompensato con alcuni terreni. La grande macchina lignea era la stessa per la quale aveva provveduto l’ingessatura nel lontano 143045. Ma Piero prevedeva di doversi assentare ancora, e così nominò il fratello Marco suo procuratore, mentre nel contratto si serbava otto anni per il compimento dell’opera.
Dopo Roma, una città che ebbe un ruolo assai importante nella vita di Piero è Urbino. Non sappiamo quando – ma certo poco dopo l’affresco di Rimini – dipinse la Flagellazione (cat. 9), nella cui architettura sono ripresi motivi classici elaborati da Maso di Bartolomeo nel portale di San Domenico, insieme a ricordi riminesi46. È però solo l’8 aprile 1469 che Piero è documentato per la prima volta nella città, dove si è recato, ospite di Giovanni Santi, per vedere la grande tavola della confraternita del Corpus Domini di cui Paolo Uccello aveva già eseguito la predella e che, in un primo tempo, era stata affidata a Fra Carnevale. Rinuncerà all’incarico, che sarà affidato a Giusto di Gand nel 1474.
Secondo Vasari, Piero aveva già dipinto a Urbino, per Guidantonio di Montefeltro (m. 1443), «molti quadri di figure piccole bellissimi», perduti. Non era tra questi la Flagellazione, della quale abbiamo un’eco nel 1480 circa in una miniatura di Bartolomeo della Gatta per un corale del duomo, mentre le tavole di Fra Carnevale dipinte nel 1465 per Santa Maria la Bella dimostrano la conoscenza di questo capolavoro47. Un’altra fonte degli stessi anni si trova in un poemetto del carmelitano Ludovico Ferabò, che era vissuto a Urbino nel 1465-1466, poemetto dedicato alla defunta sposa di Federico di Montefeltro, Battista Sforza, morta nel 1472. Vi si ricorda un ritratto di Federico eseguito da Piero e poiché è escluso che si tratti del dittico dei duchi (non si giustificherebbe il silenzio sulla duchessa in un testo poetico a lei dedicato), il ritratto visto dal carmelitano doveva essere quello presente nella pala della Madonna col Bambino e santi, con il conte Federico inginocchiato in preghiera, che è oggi a Brera. Ne è stata riconosciuta l’eco nella piccola tavola – un tempo al centro d’un trittico – che Giovanni Boccati dipinse per la chiesa di Seppio di Pioraco, nell’Appennino Maceratese, datata 146648.
Nel giugno del 1468, quando il comune di Perugia assegnava 45 fiorini alle monache per il pagamento della tabula, era già conclusa anche l’Annunciazione che sovrasta il polittico per le clarisse di Perugia. Lo stesso anno Piero ricevette l’ultimo pagamento per il polittico degli agostiniani di Sansepolcro. Ma ancora nel 1473 i Bacci di Arezzo non avevano finito di pagare la loro parte per gli affreschi nella cappella di San Francesco. Nel 1474, e ancora nel 1476, la confraternita di San Bartolomeo saldò a Piero il compenso per gli affreschi nella cappella della Madonna nella chiesa di Badia, eseguiti per il testamento, del 1468, della contessina d’Urbano di Bartolo.
La cappella era importante. Sorgeva presso l’altare maggiore e vi si venerava la cosiddetta Madonna di Prete Martino, famosa scultura lignea del 1199 ora conservata nel Bode Museum di Berlino49. L’iscrizione sotto il trono della scultura avrà dato di che pensare a Piero, quando avrebbe dipinto la Ma- donna del parto (cat. 11) e le altre sue Madonne in trono: «in gremio matris fulget sapientia patris». Sul chiostro della chiesa si affacciava un’altra cappella importante, quella detta del Monacato, che sorgeva dove in antico, secondo la tradizione, era la chiesetta di San Leonardo, da cui il Borgo aveva avuto origine. Era in questo luogo venerato che la famiglia dei Franceschi aveva sepoltura. A sua volta la cappella del Monacato era strettamente connessa con la famiglia Gherardi, dalla quale proviene la Madonna col Bambino e quattro angeli di Williamstown (cat. 16). La sorella di Leonardo Gherardi, Mattia, aveva sposato in seconde nozze Niccolò di Marcolino Pichi, con il quale Piero era imparentato, poiché nel 1480 sua nipote Romana aveva sposato Paolo di Meo Pichi50. La pica sul tetto della capanna della Natività potrebbe dunque alludere ai Pichi.
A Sansepolcro è legato anche il dipinto, firmato ma non datato da Pie- ro, con san Girolamo e un devoto, che un’iscrizione apparentemente postuma identifica come Gerolamo di Agostino Amadi. Sullo sfondo appare il Borgo, entro un paesaggio paragonabile a quello della Resurrezione, che Piero affrescò nello stesso giro di anni.
I compensi in terreni e il possesso, dal 1465, di una casa dall’aspetto di palazzo, nel canto dei Graziani, legavano sempre più Piero alla città natale, benché il silenzio su di lui s’interrompa solo nel 1478, quando i confratelli della Misericordia gli commissionano un affresco da eseguirsi su di un muro posto tra la loro chiesa e l’ospedale. Con i fratelli Piero intentò una causa ai Bacci, sempre per il pagamento degli affreschi di Arezzo. Nel 1482 era ancora attivo e pensava di trasferirsi a lungo a Rimini, dove prese in affitto una casa. Nello stesso anno Alesso Baldovinetti, che nel 1460-1461 aveva completato gli affreschi di Sant’Egidio interrotti nel 1439, fu ad Arezzo, e potrebbe aver incontrato Piero51.
Stando a Vasari, sulla sessantina Piero fu colpito da cecità a causa della cataratta; la malattia si sarebbe manifestata dunque intorno al 1470. Ma se Piero fu afflitto da cecità, fu invece molto più in là negli anni, come provano gli impegni che continuò a prendere e la sua stessa scrittura. Proseguì gli studi di geometria e scrisse il trattato De quinque corporibus regularibus che, tradotto in latino, volle che fosse associato al trattato sulla prospettiva nella biblioteca di Urbino.
Secondo un suo appunto ritrovato da Giuseppe Mancini nel 191552, il 5 luglio 1487, «in extremo aetatis suae», incaricava il notaio ser Lionardo di ser Mario Fedeli della stesura del testamento. Chiese di essere seppellito «in Badia nella sepoltura nostra». A parte alcune donazioni pie, la sua eredità passò al fratello Marco. Non aveva dunque eredi diretti.
Chiuse gli occhi il 12 ottobre 1492. Aveva lasciato a Guidantonio di Montefeltro anche il suo trattato De prospectiva pingendi tradotto in latino dall’amico maestro Giovanni d’Anghiari.
Secondo Vasari, Piero «lasciò nel Borgo buonissime facultà ed alcune case». La casa dove è oggi la Fondazione Piero della Francesca, al canto dei Graziani, fu gravemente danneggiata nei tafferugli del 1536. Oggi soltanto la facciata risale all’età di Piero e si distacca ancora orgogliosamente dagli edifici medievali. Mario Salmi ne ha fatto il caposaldo della tesi di Piero architetto, fino a ipotizzare una sua influenza sulle architetture del palazzo di Urbino53. Dal canto suo, Arnal- do Bruschi54 ha non soltanto negato che Piero fosse architetto, ma ha addirittura attribuito l’architettura dipinta nella pala di Brera a Fra Carnevale.
Nell’edizione del 1568 delle Vite, Vasari ha pubblicato il ritratto di Piero. La fonte fu probabilmente il dipinto di Santi di Tito, oggi nel Museo Civico di Sansepolcro (ma allora appartenente agli eredi del pittore), nel quale Piero appare in abiti curiali, accanto a un tavolo su cui sono posati i volumi con le opere di Euclide e Archimede55. Creighton Gilbert56 ha supposto che si tratti di una copia dall’autoritratto che avrebbe fatto da pendant dell’Ercole. Comunque sia, i discendenti di Piero ritrovavano nel dipinto i tratti riscontrati in uno dei devoti della Madonna del Polittico della Misericordia (cat. 6), nel milite addormentato della Resurrezione (cat. 13), nell’ingegnere che con Elena discute circa lo scavo delle croci.
Piero della Francesca non era fiorentino, né vantava ascendenze fiorentine. A Firenze, come già visto nel capitolo sulla vita, era stato certamente nel 1439, con Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti, per attendere con loro agli affreschi in Sant’Egidio. Nei suoi scritti trapelano inflessioni dell’Italia centrale, per nulla fiorentine. Piero non ebbe una bottega, e quindi allievi. Ogni volta doveva formare una sua squadra, come avvenne ad Arezzo, dove ebbe con sé Lorentino e Giovanni di Piamonte. Più avanti scrisse manuali e trattati, sull’abaco, sulla prospettiva pittorica, infine sui cinque corpi regolari. Si rivolgeva a un allievo ideale, cui dava del tu, ma soprattutto rifletteva sulle proprie esperienze e precisava il proprio pensiero. Fu così più un seminatore di idee che un maestro di tecniche.
Piero fu a Ferrara, e la sua eredità si coglie nei pittori ferraresi, ma non immediatamente. Più pronto fu il suo intendimento con Cristoforo e Lorenzo da Lendinara, i quali, come maestri di tarsie, erano a lui più vicini nell’analisi razionale della forma. Eppure l’impronta di Piero s’impresse a lungo, in maestri come Luca Signorelli, che fu forse suo collaboratore e certamente, come affermò Vasari, inizialmente suo imitatore; in Lorenzo da Viterbo, Antoniazzo Romano, Melozzo da Forlì; fu determinante per Bartolomeo della Gatta. Sul suo lascito si formarono Bramante e Raffaello. Ma appunto perché si tratta soprattutto di una trasmissione di idee, non sempre il riconoscimento dell’ispirazione a Piero è così immediato, per esempio in pittori come Nicola di Maestro Antonio che, mentre prende Piero alla lettera, lo stravolge e lo fa suo57.
Benché gli scritti su Piero della Francesca crescano in modo impressionante, il suo è sempre stato un soggetto complicato per gli storici dell’arte, soprattutto per la difficoltà di condividerne la cronologia58. Il suo percorso si dimostra infatti così coerente e autonomo, da non lasciare appigli cronologici, mentre gravi perdite riguardano opere che sarebbero state di grande importanza. Sappiamo che operò a Ferrara, ad Ancona, a Roma nel palazzo del Vaticano, ma non ne è rimasto nulla. Carlo Volpe cercò gli echi del suo magistero presso i pittori bolognesi, ricordando che Piero era stato anche a Bologna, secondo un’affermazione di Luca Pacioli59. A complicare gli indizi, proprio il Vasari, che avrebbe dovuto essere un riferimento sicuro, appare invece una «fonte sfuggente»60.
Piero fu così riscoperto assai tardi, accomunato a pittori come Seurat, Cézanne o Carrà61, rivalutato dai critici moderni, come Roger Fry62, amato da poeti, come Ezra Pound63 (penetranti le sue osservazioni sull’affresco di Rimini), Raphael Alberti, Pier Paolo Pasolini e da uno storico ispirato come Roberto Longhi, la cui lettura poetica ha esercitato l’attrazione più vasta e coinvolgente. Era stato scoperto con grande intuito dai mercanti inglesi dell’Ottocento64.
Ammessa da tutti la grandezza di Piero, certificata dai due volumi monumentali di Eugenio Battisti, nella seconda metà del XX secolo è prevalsa una lettura che lega la sua opera a congiure dinastiche, ne fa la copertura di delitti familiari, oppure la vede impegnata nella promozione di campagne in favore della crociata contro i Turchi. Anche se, ha commentato un poeta, Yves Bonnefoy, nessun pittore sarebbe stato meno adatto di Piero per una campagna di propaganda, sicché, scrive, «mi pare legittimo concepire che Piero della Francesca abbia voluto in primo luogo verificare che la vera città di Dio non è da strappare ai Turchi ma costruire in chi si è e dove si è»65.
Nello stesso tempo in cui crescevano le ipotesi interpretative, altre ricerche sono state compiute negli archivi e nei laboratori di restauro. Lo scavo sistematico dei documenti d’archivio ci sta restituendo un’immagine concreta di Piero, così reticente a parlare di sé e tanto legato alla patria e agli amici, mentre l’analisi delle sue opere, condotta con metodologie prima impensabili, ci dà risultati inaspettati su cui basare anche la cronologia.
Piero è entrato nella nostra scala di valori «quietly, inexorably, almost unobserved», scrisse Kenneth Clark, mentre Bernard Berenson notò con una certa impazienza la «mass admiration»66 sorta per questo maestro che considerava al vertice di un’arte «non eloquente», silenziosa e comunicativa solo per chi, come scriveva Petrarca a proposito di Giotto, era in grado d’intendere. John Pope-Hennessy ha commentato con leggera ironia la civetteria del Piero Trail, il mini-tour britannico per vedere «tutto Piero» in pochi chilometri67. È comunque significativo che solo nel 1977 un dipinto di Piero della Francesca sia entrato al Louvre, e questo quando ne era direttore Michel Laclotte, amico e, per certo verso, discepolo di Roberto Longhi.
Se Piero ci è tanto vicino, mentre non lo fu per tanto tempo, è perché vi è stato un rovesciamento dei canoni di bellezza. A Crowe e Cavalcaselle, che scrivevano nel 1864-1866, non piaceva il volto della Madonna della Misericordia, che trovavano «moorish». Longhi invece lo considerava addirittura «isiaco».
Piero è stato un grandissimo maestro dell’«arte del descrivere»68 e chiede dunque lente e attente osservazioni. In minimi particolari può a volte annidarsi la chiave del racconto. Come a sottolineare questa esigenza, spesso egli colloca all’in- terno di una composizione personaggi che invitano alla meditazione. Per esempio, le tre figure in primo piano nella Flagellazione (cat. 9), oppure, in misura meno avvertita, i tre personaggi, chiusi nei loro manti e con copricapi bizantini, che assistono silenziosi al miracolo della Vera Croce negli affreschi di Arezzo (cat. 7c).
Possiamo mettere a confronto questo episodio con un caso analogo di Domenico Veneziano. Nella rappresentazione del miracolo di san Zanobi nella predella della Pala di Santa Lucia dei Magnoli, anche Domenico ha scelto di dare alla scena un’ambientazione cittadina assolutamente vera. La differenza è che i fiorentini presenti al miracolo s’interrogano e gesticolano, mentre i personaggi di Piero restano silenziosi, presaghi di quanto avverrà. Diresti che nella pittura di Domenico l’evento si chiuda entro un tempo trascorso, mentre in quella di Piero il silenzio interiorizza il miracolo e ne prolunga la risonanza nel nostro tempo. Piero è in colloquio con noi.
Nella nativa Sansepolcro Piero aveva studiato l’abaco ed egli stesso ne aveva scritto un trattato69. Gli era dunque familiare l’esposizione in forma di problemi, al punto che anche un suo dipinto poteva presentarsi come problema. «La pictura – avrebbe scritto – non è se non dimostrazioni de superficie et de corpi degradati o accresciuti nel termine». Dimostrazione, appunto e «termine» equivale a ciò che l’Alberti chiama «intersegazione»70, il diaframma colpito dalle «linee, le quali s’a presentano da l’estremità della cosa e terminano nell’occhio».
Una forza persuasiva straordinaria viene alla pittura di Piero dall’adesione alle teorie prospettiche elaborate a Firenze da Brunelleschi e Donatello e sistemate da Leon Battista Alberti. La pittura è rappresentazione di cose e figure nei loro corretti rapporti spaziali, è come una finestra aperta sul mondo, alla quale lo spettatore si avvicina da una certa distanza. La piramide visiva si stende dall’occhio alle cose viste, vale a dire che il punto di osservazione deve essere fisso. Di conseguenza Piero ci impone dove e come vedere. La coerenza con cui applica a legge è parte integrante della soggezione della rappresentazione all’imposizione prospettica.
Come teorico, Piero non dice nulla della luce e tace dei colori. Dei colori ha invece una consapevolezza acuta («quel sacro muro colorato di verdi e di rosa, di bruni e di bianchi», scrive Longhi a proposito del ciclo di Arezzo) e la luce nella sua pittura ha la forza, talvolta, di contraddire ciò che la prospettiva ci direbbe. Lo vedremo nell’esame della Pala Montefeltro (cat. 17).
Per lui la luce è «elemento dominante su ogni parvenza, veduto per sé nel suo operare, anch’esso non fuggevole né instabile, ma di una fissità che lo rende più intenso: luce solare, divorante; luce di aperto cielo, con trasparenze profondissime, che dà nitore a ogni cosa; luce che frange le tenebre»71.
La luce nella pittura di Piero non è quella avvolgente dei pittori fiamminghi, in impaziente ricerca dell’ombra, né la stessa che colpisce e plasma le figure nella pittura fiorentina contemporanea. È una luce vibrante. Della «pittura di luce», come tendenza dominante a Firenze, ha scritto Luciano Bellosi, escludendone però Filippo Lippi72, cui invece Piero della Francesca fu vicino dalla prima opera conosciuta73.
Il ricordo di Filippo ricorre in maniera sottile e costante nella mente di Piero, come se fosse stato quello il maestro con cui più sentiva il bisogno di confrontarsi. Sin dagli anni del supposto apprendistato in Oltrarno doveva aver riflettuto sul pannello che è oggi al Castello Sforzesco, datato circa al 1429-1432, dove uno stesso volto è riproposto più volte da angolazioni diverse e le mani in prospettiva invitano ad esplorare la profondità in un apparente stiacciato.
Nella primissima opera di Piero che conosciamo (cat. 1), la tavola già in collezione Contini Bonacossi, quell’immagine dove il nimbo in prospettiva sul capo della Vergine «rade a segno sotto lo sguancio» (Longhi) e nell’appiombo della figura c’è già, inconfondibile, traccia dell’artista, la finestra alle spalle che si apre su di un paesaggio «maculato dagli alberi» (ancora Longhi) riprende idee maturate intorno a Filippo Lippi. Nel capitolo sulla vita, si è detto come sia probabile che il padre inviasse il ragazzo Piero a imparare il mestiere in una bottega di «Camaldoli», forse presso Bicci di Lorenzo. Il mestiere da Bicci, probabilmente, ma le grandi idee da Masaccio, da Masolino e da Filippo Lippi74. Nella tavola, la ferma mano che trattiene il Figlio è quasi ripresa da Masaccio. Nello stesso tempo, il tratteggio che traspare sotto lo strato pittorico, fortemente assottigliato dalle vicende del dipinto, è cosa insolita nelle procedure della pittura italiana e sembra un tentativo di adeguarsi alle tecniche fiamminghe.
Accanto al gioco delle finestre – quella cui si affaccia la Vergine e quella dietro di lei –, gioco che è così vicino alle idee di ‘pittura d’interno’ di Filippo, il rovescio della profetica tavola Contini Bonacossi c’introduce a un altro impor- tante aspetto della pittura di Piero. La tavola era stata già usata da lui per dipingervi lo studio di una tarsia: un rinfrescatoio listato di strisce chiare e scure collocato dentro un incastro spaziale non dissimile da quello in cui si trova il gruppo divino. Sin dagli inizi Piero manifesta, dunque, una predilezione per il mondo della tarsia, dove forme sagomate inserite sul piano creano illusioni di profondità e di volume. La parità dei pieni e dei vuoti, nella tarsia, illustra perfettamente quanto avviene nel disegno prospettico.
L’ammirazione per le tarsie poté avere per lui un aspetto anche pratico, come dimostra il taglio perfetto degli spazi risparmiati per l’oro nel Polittico della Misericordia75 (cat. 6), ma fu specialmente un interesse intellettuale, considerando il modo in cui la tarsia traduce in sagome le proiezioni delle cose sul piano. La tarsia autorizzava il ribaltamento delle figure, la loro ripetizione simmetrica, come avviene, per esempio, con i cavalli negli affreschi di Arezzo, dove le figure in azione si confrontano con le immagini araldiche delle bandiere. La ripetizione controlla e verifica, dà stabilità e assorbe gli incidenti che potrebbero distrarre in una coralità di azioni. Le dame degli affreschi di Arezzo sono studiate su manichini girati secondo angolazioni diverse: variazioni di un unico modello, ritornano, l’una simile all’altra, restando del tutto impersonali, e lasciano ai protagonisti della storia gestire il proprio ruolo. È una ripetizione di teste tra loro identiche del tutto irreale. Contemplarla genera stupore.
Talvolta la ricorrenza delle forme garantisce le misure: alberi tra loro uguali come colonne, nel Battesimo (cat. 2), come ancora nel San Girolamo di Berlino (cat. 3). Le loro misure costanti ci consentono di definire – «commensurare» – la profondità. Un aspetto interessante della ripetizione, che vuol dire similitudine di forme commensurabili, è la permanenza. Piero si ripete dentro lo stesso ciclo per suggerire il ritorno su se stessa della storia. Ad Arezzo, Elena e la regina di Saba sono identiche. Così erano, probabilmente, Costantino ed Eraclio, proiezioni nel tempo di un’unica idea imperiale. Anche un gesto può passare, negli anni, da un dipinto all’altro. L’atto di san Francesco che, tenendo in una mano la croce, apre con l’altra il saio per mostrare la ferita sul costato, appare nel polittico delle clarisse di Perugia (cat. 19), come anche nella Pala Montefeltro (cat. 17). È uno stretto confronto che ci permette di cogliere come Piero lavorasse sulle costanti, ogni volta con profondi mutamenti di tecnica e stile. Ovvero con nuovi pensieri.
In uno stesso dipinto, la ripetizione era simile a una cadenza. Confermava un gesto, un volto. Quando invece il richiamo ricorre in opere diverse, il segreto sta nella fucina di Piero, nel suo uso dello spolvero che trasforma un disegno in un prototipo, meglio in un archetipo. Le immagini di Piero, meditate e disegnate sui cartoni per essere trasferite con lo spolvero, sembrano venire da una distanza remota, esatte come pitture vascolari, capaci di preziosi riscontri simmetrici. Si guardino le braccia nude, del Cristo e degli aguzzini, nella Flagellazione (cat. 9), proiettate contro il fondo nero o ocra. Un braccio è seminascosto dal turbante del misterioso spettatore, ma è subito richiamato per simmetria da quello che vediamo intero.
Il contratto per il dipinto con il falegname risale al 143376. Giustamente Banker l’ha ritenuto la prima opera pubblica di Piero, in anticipo sulla forte impressione della pittura di Domenico Veneziano che lo porta a modellare i panneggi come negli scomparti laterali del Polittico della Misericordia.
Il Battesimo (cat. 2) di Piero è opera così assoluta che, quando Matteo di Giovanni si trovò ad integrare il trittico con gli altri due scomparti, forse in origine non previsti, ne rispettò il silenzio, facendo sì che l’oro dei due pannelli venisse a fare da cornice al quadro centrale. Era un segno di rispetto, da parte di un maestro che aveva colto nel dipinto di Piero il colloquio tra gli angeli, che riprese, nel 1460, nella pala che eseguì per il duomo di Siena.
Contemplazione del momento sacro e commozione davanti a un paesaggio, quello che fa corona al Borgo, si compenetrano. Il volto frontale del Cristo, ieratico come in un’icona bizantina, si accampa contro il cielo in una valletta e sembra santificare il paesaggio, che Piero esplora sfruttando il cannocchiale degli interstizi tra le figure. Sotto il gomito destro di Gesù si scorge il «Borgo al Santo Sepolcro» e nello stretto spazio tra i corpi del Battista e dello stesso Gesù, si rivela la torre malatestiana fuori le mura. L’acqua limpida rispecchia rovesciato questo stesso paese incantato sotto il sole meridiano. Per la quinta di alberi, è probabile che Piero si fosse ispirato al bassorilievo di autore vicino a Donatello nel fonte battesimale di Arezzo ma, mentre Donatello insiste sul carattere solitario e selvoso del luogo, Piero considera l’evento tra i campi arati alle porte della sua città; trasforma il Tevere nel Giordano, mentre scala nello spazio i quattro alberi, ripetuti come indicatori delle distanze. Forse Piero aveva potuto vedere l’affresco di Bicci, al Carmine, con il Battesimo di san Valeriano, dove il paesaggio ha tanta parte, ma trovò un modo stupendo di dare un senso nuovo e alto a un precedente modesto77.
Assai presto, sin dalla prima opera nota, Piero, forse sospinto da Filippo Lippi, s’interessa alla grande novità della pittura delle Fiandre78. La tavola di Berlino (cat. 3), datata 1450, dipinta l’indomani dell’incontro a Ferrara con le opere dei grandi maestri fiamminghi, nel cartiglio con la firma insinua un motivo di realismo nordico che proprio Filippo aveva adottato nel 1437 con la sua Madonna di Tarquinia. Piero appunta il suo foglietto al tronco di un albero che fa da sipario alla scena. Non solo: per rendere la cosa più naturale, piega il piccolo foglio e ne proietta l’ombra. Persino la scelta del legno per il supporto, il castagno, dimostra la volontà di tentare una via diversa dalla tradizione italiana del pioppo. Il dipinto è poi ricchissimo di osservazioni minute: il calamaio appeso nella piccola nicchia, i fermagli dei libri, il rosario nella mano di san Girolamo. Purtroppo le condizioni in cui la tavola ci è giunta invitano a un recupero mentale per analogia. Dobbiamo chiedere in prestito al Battesimo ciò che qui manca. Dobbiamo anche rivolgerci, per comprendere qualcosa della fonte ispiratrice di Piero, a momenti intensi della pittura fiamminga, come il baluginare delle acque e il rispecchiarsi degli alberi nello sfondo del trittico Miraflores di Rogier van der Weyden.
Nel dipinto di Piero, l’acqua del rivo serpeggia riflettendo la luce, si mostra, o si nasconde, al di là degli alberi, li rispecchia fedelmente vicini o lontani. Le nubi percorrono la volta celeste in corsa verso l’orizzonte, come già le aveva volute Masaccio nella Cappella Brancacci. Gli alberi scandiscono il quadro in profondità e nel boschetto formano una piccola architettura vegetale.
La piccola tavola deve essere la riduzione di formato, e quindi la semplificazione, di un’opera che Piero aveva dipinto ad Ancona in un luogo pubblico, se poté ispirare Nicola di Maestro Antonio per la lunetta della sua pala oggi a Pittsburgh79. Non conosciamo il prototipo, ma in questa nuova versione Piero riesce a racchiudere in un’apparente semplicità le sue riflessioni sul paesaggio, assai più mature dell’enunciazione che ne aveva dato nel Battesimo e con problemi prospettici nuovi.
La tavola di Berlino è tutto ciò che ci resta del passaggio di Piero ad Ancona, in una fase che anticipa l’affresco di Rimini (cat. 4). Di altre opere di Piero nelle Marche si coglie l’eco in Girolamo di Giovanni, come nel gruppo riferito al probabile Giovanni Angelo d’Antonio, il quale ultimo, nella lunetta dell’Annunciazione di Spermento, sotto una croce posta in prospettiva, insinua, negli interstizi tra le figure, volti che occhieggiano e frammenti di altri volti, come fa Piero negli affreschi di Arezzo80.
Sappiamo che nella cattedrale di San Ciriaco Piero dipinse uno Sposalizio della Vergine da Vasari giudicato «bellissimo». Ignaro della sosta di Piero ad Ancona e della sua opera in San Ciriaco, Adolfo Venturi attribuì a un «seguace di Piero della Francesca» una predella in collezione Kleinberger, con la rappresentazione dello Sposalizio, che per molti indizi potrebbe derivare proprio dal dipinto perduto di Piero81.
Malgrado i marmi, le lesene, le ghirlande, la sala dove si svolge l’incontro tra il signore di Rimini e il santo re Sigismondo è pur sempre la rappresentazione d’un interno, tema di elezione fiamminga quanto fiamminga è l’intimità della scena (cat. 4). Piero era stato attento a tenere separato l’incontro privato dal fasto romano del tempio. La classica cornice di cornucopie che inquadra la scena riceve infatti la luce da destra, mentre la sala dell’incontro è rischiarata da una fonte nascosta a sinistra. La scena è dunque volutamente separata dall’ambiente in cui si trova, nonostante si tratti di un sacello chiuso ai più. A Piero è toccato uno spazio segreto, segnato all’esterno da un disco di porfido.
Era una saletta raccolta che attraverso una grata, che Maso di Bartolo avrebbe dovuto realizzare, si affacciava sulla cappella di San Sigismondo condita soli, come recita la dedica, dove il santo titolare stava sul punto di essere celebrato con una statua di Agostino di Duccio. Due veltri sorvegliano la riservatezza dell’incontro. L’oculo attraverso cui si vede la rocca di Rimini, scrupolosamente rilevata con lo spolvero, accenna a quelle viste dalla stanza sulla città, che nella pittura fiamminga – del Maestro di Flémalle, di Jan van Eyck e Rogier van der Weyden – segnano il rapporto tra privato e pubblico. Non si tratta di una ‘finestra mistica’ fiamminga, ma di una cosa vera: il castello che Sigismondo ha dedicato al suo patrono.
Lo spolvero invece non c’è dove più ce lo saremmo aspettato. Il finissimo fregio marmoreo che inquadra la scena, da Piero dipinto con perizia calligrafica, ripetendo il disegno dei cartoni, era stato schizzato nella sinopia con impressionante sicurezza, così come altre parti della composizione erano state accennate liberamente nella sinopia82. Lo spolvero viene dopo la prima ideazione, è già una seconda riflessione prima di farsi pittura.
Piero si trova su di un campo di battaglia. Tra Matteo de’ Pasti, redarguito da Leon Battista Alberti («io credo molto più alla ragione che a persona»), e lo stesso Alberti, il quale a sua volta vuole nel tempio statue e non pitture. Sa anche che attraverso la grata si stabilirà un caso di ‘paragone’ tra le arti, tra l’evocazione in pittura del santo e la sua celebrazione in scultura. Ha insistito sulle sue convinzioni di pittore: la sfera d’oro su cui poggia la mano il re è quasi un simbolo della perfezione geometrica e allorché il ritratto di Sigismondo si disegnava su di uno sfondo di marmo, vi si doveva inserire con la precisione di un opus sectile.
Le figure emergono nella luce: brillano i peli della barba del santo, riluce la sfera su cui appoggia la mano, persino le unghie di Sigismondo Malatesta sono disegnate dalla luce che le sfiora. La prospettiva, nel pavimento, interviene a dare razionalità alla scena, ma l’architettura è ancora incerta, se l’oculo con la veduta del castello è decentrato rispetto alla campata.
Il ritratto del Louvre, una tavola di cm 44,5 × 35,5, riprende il volto dell’affresco, ma, malgrado la fedeltà al profilo all’italiana, spinge la tecnica della tempera a risultati di trasparenza e finezza in concorrenza con la pittura a olio dei fiamminghi.
Nel 1451, con l’affresco di Rimini (cat. 4), Piero è pienamente nel proprio tempo. Staccarsi completamente dal passato era però per lui difficile, e sarebbe ritornato più volte a considerare il nuovo modo d’intendere dovuto alla sua formazione fiorentina e le richieste che lo spingevano a riconsiderare l’eredità del passato. Ecco in breve alcuni fatti. Il contratto per il Polittico della Misericordia (cat. 6) fu firmato l’11 giugno 1445, ma la struttura lignea su cui Piero avrebbe dipinto era stata eseguita nel 1428, e su disegno di Ottaviano Nelli, diciassette anni prima e da un pittore del tutto estraneo al rinnovamento in corso. L’esecuzione si protrasse fino a quasi il 1460. Vale a dire in anni in cui Piero eseguiva alcune delle sue opere più importanti.
Ricreare la sequenza cronologica dei pannelli che costituiscono il polittico è operazione assai incerta. Di sicuro il pannello centrale, che comprendeva anche la Crocifissione, fu eseguito prima di tutti gli altri, già nel 1445-1446. Dopo questa prima affermazione drammaticamente monumentale, che costituisce una vera rottura con il passato, Piero poté intervenire sui temi della tradizione rinnovandoli, dal di dentro, nella drammaticità delle figure nelle cuspidi, sbalzate dalla luce radente, o facendo accostare i santi dai pannelli laterali a quello centrale come se si avviassero, specialmente quelli all’estremità destra, verso una sacra conversazione83. Piccoli aggiustamenti avrebbero collegato i pannelli laterali a quello centrale: lo strascico nero del manto d’una donna, la scarpa rossa d’un uomo. Nel Battesimo (cat. 2) aveva rinunciato al fondo oro, ma non poteva farlo nel polittico, i cui committenti sembravano dubbiosi di ogni innovazione.
Il taglio nello spessore della pedana marmorea su cui sostano i santi è dimostrativo del ‘termine’ della piramide visiva, i lati in scorcio della stessa pedana si congiungono idealmente nel punto centrico posto subito sotto l’estremità del cordone che cinge i fianchi della Madonna. A sottolineare come lo spessore del gradino e il piano su cui posano i santi siano della stessa materia, proseguì le venature del marmo dentro lo spessore della lastra, ma proprio studiando le macchie del marmo vediamo come i due pannelli di sinistra e quelli di destra appartengano a due tempi diversi. Sfidando le incertezze dei committenti, usò largamente le resine come legante. Queste si essiccarono rapidamente e contraendosi produssero un cretto esteso, notevole soprattutto nelle zone scure. Il duplice pannello con san Bernardino, che fu certo eseguito dopo il 1450, non appartiene alla stessa fase di quello con san Sebastiano e il Battista.
Su tutto domina la regolarità geometrica del grande esagono accennato dal manto di Maria, che contiene e quasi abbraccia l’ombra che fa risaltare il luminoso rosso granata dell’abito. Era stata, con la Crocifissione, la prima tavola ad essere dipinta e Piero la tenne come guida per le altre. Chiarendo bene la recessione dei piani, il pittore poté fare del fondo oro una fonte di luce, luce che investe le figure alle spalle, al punto che sull’orlo di pelliccia del manto della Madonna i peli si rivelano, contro l’oro, luminosi come scintille84.
Madonna e Crocifissione, si è detto, sono dipinti sulla stessa asse. Nacquero insieme. Il gesto implorante del giovane di scorcio in primo piano, sotto il manto della Vergine, fa eco al gesto di dolore e allo scorcio di san Giovanni.
Il corpo di Gesù sulla croce Piero lo immaginò come un nudo da coprire successivamente col perizoma e lo stesso fece per il niveo san Sebastiano, facendo proprio il precetto di Leon Battista Alberti, per il quale le figure andavano disegnate in prima istanza nude.
L’universo creato da Piero è in sé completo e sufficiente. Con difficoltà avrebbe potuto introdurvisi un pensiero estraneo, un racconto venuto dall’esterno. Ogni nuova opera si presentava a lui come un progetto, nel quale tutto doveva essere impostato sin dalla prima ideazione, senza prestiti esterni e senza nulla concedere all’improvvisazione. Il cartone consentiva la ripresa di soluzioni già sperimentate e insieme un’eccellente organizzazione del lavoro. Senza la strategia dei cartoni, che avrebbe adottato anche a Rimini, Piero non avrebbe potuto affrontare l’impresa degli affreschi in San Francesco ad Arezzo.
L’ultimo restauro ha individuato una spia del modo di procedere di Piero. Il primo capitello del palazzo di Salomone fu disegnato dal maestro con suprema sicurezza, mentre gli altri furono eseguiti con lo spolvero dagli aiuti85.
La chiamata di Piero fu inaspettata. Fu l’inizio, forse casuale, di un grande capolavoro. Della cui fama locale abbiamo un’eco immediata allorché, il 20 dicembre 1466, i soci della compagnia dell’Annunziata si rivolgono a Piero per chiedergli di dipingere il loro gonfalone. La confraternita ha cercato dappertutto un pittore degno della somma destinata: «Aviamo disaminato fra noi e anche chon più e più homini di la nostra compagnia e praticato a Firenze e qui per avere uno buono e suficente maestro e rimasi d’achordo fra noi aloghiamo el detto ghonfalone a maestro Pietro di Benedetto dal Borgho Santo Sepolchro, el quale à depinto la chapela magiore di San Francesco d’Arezo». Abbiamo così anche la prova sicura, se ne dubitassimo, che a quella data la cappella era certamente finita. I tempi di esecuzione degli affreschi sono tuttora discussi. Nel capitolo sulla vita si è cercato di presentare l’iter che sembra essere più probabile. L’impressione è che agli inizi Piero esitasse.
La lunetta con il ritorno della Croce a Gerusalemme (cat. 7a) non si scosta troppo da quella che appare come la prima idea di Bicci. Probabilmente è ancora in opera un ponte all’altezza della cornice e, prima che sia smontato, vengono dipinte tutte le parti alte. Quindi, per consentire l’uso della cappella, il lavoro prosegue con ponteggi separati, uno per parete e in tempi diversi.
Sarà appunto su di un nuovo ponte, ma non subito, dopo un intervallo che è difficile precisare, che Piero imposterà il racconto a modo suo partendo dalla lunetta a destra, quella che inaugura tutta la storia con la Morte di Adamo e che trasmette la sua solennità silenziosa a tutta la parete. La storia è ora dominata da un grande albero che asseconda l’arco della cappella. È l’albero che segna il meridiano che percorre tutto il muro. Come nel San Girolamo di Berlino (cat. 3), altri alberi formano un bosco e – sembra di capire dopo il restauro – un fiume scorre al di là degli uomini e li separa dall’Eden. È sparita la semplicità del racconto di Bicci e la rappresentazione dei nudi ha spinto a cercare riscontri nella scultura romana86. Nel rilievo del tabernacolo di San Pietro, che Piero poté aver veduto a Roma, Donatello aveva dato al denudarsi il senso profondo della inerme nudità di fronte al dolore. Sarebbe questo esempio anche la fonte del gesto disperato della donna che leva le mani e che rompe il silenzio circostante. Piero l’affidò però a Giovanni di Piamonte. Ripeté una figura simile nel disegno della predella del Polittico della Misericordia.
È evidente che altre idee, altri pensieri accorrono quando Piero lascia la parete sinistra e affronta in modo autonomo e nuovo una storia antica da cui sa trarre significati nuovi. Roma appare nella mente di Piero con tale insistenza da dubitare ch’egli non vi fosse stato per conto suo altre volte, oltre a quelle documentate. Per esempio, per il giubileo del 1450. Ma Piero deve dipingere in Vaticano per Niccolò V87, così dopo aver finito il secondo ordine degli affreschi sulla parete sinistra, s’interrompe, va a Roma e, al ritorno, ma molto prima del 1459, dipinge la disfatta di Cosroe (cat. 7e). A Roma ha assaporato la grandezza altera dell’arte romana. Ora può proseguire sulla parete opposta, dove deve però interrompersi ancora in attesa che siano murate le nicchie con le tombe. Infine dipingerà la Vittoria di Costantino (cat. 7r).
Torniamo agli inizi. Nei compassi ornamentali rimasti vuoti, Piero dipinge la testa di un angelo, mentre il suo aiuto, Giovanni di Piamonte, ne esegue una seconda. Gli angeli di Bicci pregavano verso le figure della volta, mentre quelli di Piero e del suo aiuto si volgono alle storie che sarebbero state dipinte. La concezione dell’intera cappella è dunque rovesciata. Tra la chiamata di Piero e il proseguimento dei lavori dovette passare diverso tempo. Rispetto ai cicli noti, quello di Agnolo Gaddi a Firenze e quello di Cenni di Francesco di ser Cenni a Volterra, Piero operò una revisione radicale che sconvolgeva il piano del racconto tradizionale, anche se già Bicci aveva affrescato sulla facciata della cappella il Giudizio, mettendo in evidenza la Croce come strumento di redenzione. E doveva persuadere delle sue scelte i committenti e i frati.
Ad autenticare la leggenda, furono posti due giganteschi profeti sulla parete della finestra. Fu una scelta audace che portò Piero a sfidare con la sua pittura la violenza di luce e colori d’una vetrata istoriata. Sul profeta a sinistra intervenne l’aiuto, Giovanni di Piamonte (cat. 7b), e il risultato fu crudo, ma nel profeta dipinto da Piero fu ed è sublime (cat. 7m). La luce gioca nelle circonvoluzioni e nello spessore sottile del cartiglio di pergamena, trasforma in una raggiera la bionda zazzera del giovane, gli sfiora appena il naso, mentre, con un tocco di ‘bianco di san Giovanni’, si riflette nel bianco degli occhi. Sul risvolto grigio del manto la penombra insegue con toni leggeri creste e avvallamenti mentre l’orlo luminoso che disegna la figura scende fino alle gambe e ai piedi, più forte in prossimità della finestra, meno nella gamba più distante.
Il fascino della luce che irrompe alle spalle delle figure e ne segna i contorni entrò nell’arsenale di Piero, sino a dare un’alta drammaticità alla figura dell’orientale che assiste al supplizio nella Flagellazione (cat. 9), che Piero colloca sulla diagonale che l’ombra traccia sul pavimento. Vi è un’impressionante coincidenza tra questa intuizione della luce in Piero e i disegni a punta metallica e biacca che Benozzo Gozzoli esegue a Roma negli anni 1448-1449. Non solo i contorni sono disegnati dalla luce, ma questa è così forte da proiettare le ombre sul terreno, come avviene nel celebre disegno di uno dei Dioscuri del Quirinale conservato al British Museum.
Il linguaggio dei profeti è oscuramente allusivo, e, dunque, bene si adattava a rendere credibile una laboriosa leggenda. Non sappiamo fino a che punto Bicci avesse avuto il mandato di attenersi all’esempio di Agnolo Gaddi in Santa Croce. Neanche se fin dagli inizi fosse disposto a inserire l’Annunciazione (cat. 7f) e le due storie di Costantino (cat. 7q e 7r). Oggi la prima scena eseguita, nella lunetta a sinistra (cat. 7a), ci appare addirittura elementare, tanto la pittura è sfiatata. Ma se guardiamo – come sempre conviene – la vecchia fotografia Anderson, troviamo che i due alberi erano scalati in profondità come Piero aveva sperimentato nel Battesimo (cat. 2) e nel San Girolamo di Berlino (cat. 3), mentre la grande Croce esaltava le linee di forza della prospettiva88.
Carlo Ginzburg si pone il problema di come i committenti degli affreschi, gli eredi di Francesco Bacci, fossero giunti a un grande maestro quale Piero89. La risposta più semplice è che Piero era venuto in sostituzione del vecchio Bicci ed era giusto che fosse lui a continuare. Né Bicci doveva apparire ai contemporanei tanto scadente: la sua «mauvaise presse»90 è fenomeno recente.
Sulle pareti, il primo registro a sinistra, sotto la lunetta di Eraclio, è occupato da due storie. Vi si narra lo scavo delle tre croci e quindi il miracolo della Vera Croce (cat. 7c). Solo lo strascico della veste d’una donna unisce le scene, esattamente come avviene tra il pannello centrale e i laterali nel Polittico della Misericordia (cat. 6). La prima unità è dominata dalla veduta d’una città murata, alta su di una collina, limpida e chiara nella descrizione di tetti, torri e campanili. È Gerusalemme, ma è anche Arezzo.
Siamo a una pausa dei lavori. Sono emerse due croci e un uomo con in testa un turbante è sceso nella fossa per cercare la terza91. Il soprintendente, nel quale giustamente, credo, è stato riconosciuto lo stesso Piero, ne discute con Elena, mentre gli scavatori sono in attesa di nuovi ordini. Con questo arresto, la storia si conclude. Dietro gli operai in ascolto si scorge una vertiginosa veduta di campi arati, una breve apparizione che ci riporta all’affresco raffigurante i Santi Giovanni Battista e Francesco di Domenico Veneziano in Santa Croce a Firenze, del 1454. Tra la scena di Costantino e la battaglia di Eraclio (cat. 7e) vi è uno scarto stilistico tanto grande che non lo si può attribuire soltanto a un eccesso di aiuti. Già Longhi richiamò l’attenzione su questo divario. Luciano Bellosi – rammento – poté indicare echi della battaglia nella Storia di san Nicola, dipinta per la Cappella Cavalcanti in Santa Croce da Giovanni di Francesco del Cervelliera, morto a Firenze nel 145992. Nel 1460 Giovanni di Piamonte, che era stato aiuto di Piero dalla volta sino alle scene della Tortura dell’ebreo (cat. 7d) e del trasporto del legno (cat. 7o), firmava la pala di Santa Maria delle Grazie a Città di Castello. Doveva essere dunque libero dall’impegno di Arezzo. Gli era già succeduto Lorentino, ben riconoscibile, con quegli occhi appuntiti, soprattutto nell’incontro tra Salomone e la regina di Saba. Nel 1462 lo stesso Lorentino già prendeva alcuni spunti dal secondo registro a sinistra (cat. 7c).
Il resto della storia non va seguito secondo l’ordine della leggenda. Piero l’ha sovvertito e ha trasposto una storia medievale nel mondo di Roma. L’ordinamento delle scene è stato definito «a matassa», ovvero con rimandi da una parete all’altra93, secondo una «concordanza tipologica»94, permettendo alle singole storie di rispecchiarsi l’una nell’altra per la forma o per il significato. Questa lettura analogica sarà stata condivisa con qualche dotto rappresentante dell’ordine, ma corrisponde talmente alla forma che le ha dato Piero da fare di lui il vero responsabile se non l’inventore. Le analogie smontano la storia, ne traggono significati profondi e consentono riflessioni congeniali al luogo, uscendo dall’adesione al testo della leggenda per sollevarsi sino a includere l’Annunciazione (cat. 7f), ovvero l’incarnazione del Verbo, che è la chiave di lettura che rende trasparente il complicato racconto.
Le mutue corrispondenze da una parete all’altra sono assorbite dalla direzione in cui le storie si muovono. Sulla parete sinistra, si dirigono verso la finestra; sulla parete opposta, verso la navata. Intervenendo sulla parete destra, Piero rilegge quanto ha già realizzato su quella sinistra.
Si è già visto quanto la lunetta di Adamo (cat. 7n) sia l’opposto della narrazione semplice della lunetta di Eraclio (cat. 7a). Piero non solo immagina una composizione monumentale e unita senza precedenti, ma torna sul racconto e introduce un terzo profeta, testimone del trapianto del rametto nella bocca di Adamo. Egli è dunque all’inizio della storia, di cui certo non fa parte, ma che commenta e attesta95. Come altre volte – nella figura di san Luca nell’affresco in Santa Maria Maggiore, nella Flagellazione (cat. 9), in uno dei due profeti presso la finestra (cat. 7m) –, Piero ripete il gesto della mano protesa con la palma volta in basso. È un invito alla pausa e, con questa, all’attenzione. È il prologo d’una narrazione del tutto diversa da quella usata e Piero se ne assume la responsabilità.
A sinistra, la conclusione è nella visione assolata dell’Annunciazione (cat. 7f); a destra le si contrappone il magico notturno del Sogno (cat. 7q). La luce, che è folgorante nelle figure dei profeti presso la finestra, è assoluta protagonista nel notturno del Sogno. Piero poté avere precedenti nell’Angelico, che nel dittico di Forlì ci ha lasciato una poetica visione della notte, ma dovette ragionare sul tema in opere perdute anche a Rimini dove, quando Piero era ormai partito, Giovanni da Fano illustrò il poema Hesperis di Basinio con le vedute dell’accampamento di giorno e di notte96.
Al di sopra dei coni scuri delle tende, il cielo accoglie le prime luci dell’alba, le costellazioni brillano prima di scomparire nella piena luce. È l’ora dei sogni profetici. Le costellazioni sono rappresentate con esattezza, tanto che si è ritenuto che possano indicare una data: 27 ottobre 146397. La tenda dell’imperatore, colpita dal fulgore dell’angelo, riluce di rosso e oro, i colori di Roma. Più che mai Piero è affascinato dagli effetti del controluce, che esamina nelle diverse gradazioni, sino alle due figure simmetriche delle guardie.
Ciò di cui assolutamente nella leggenda non si parlava era l’Annunciazione a Maria. Piero, e i frati con lui, ritennero indispensabile introdurla in parallelo all’annuncio di vittoria portato dall’angelo all’imperatore avvolto nel sonno e la pittura sfruttò in modo meraviglioso il contrasto tra la visione notturna e l’apparizione in pieno sole.
Nei cicli della Vera Croce il sogno di Eraclio anticipava la vittoria su Cosroe e la riconquista della Croce. L’affresco di Piero riprende a questo punto la tradizione e la sconvolge per la sua profonda immedesimazione nel sogno. Che il dormiente sia Costantino, anziché Eraclio, lo deduciamo solo dalla scena successiva98.
Piero ebbe però difficoltà a comporre nello stesso registro, sulla parete sinistra, la battaglia di Eraclio, il duello e l’uccisione del figlio di Cosroe, infine la condanna del re persiano (cat. 7e). Sotto la stupenda invenzione delle bandiere che occupano un terzo della superficie, ostentando gli animali araldici, e che, stracciate, mostrano entrambe le facce, si svolge uno scontro affollato, a stentoequilibrato dai cavalli, di colori opposti, replicati tre volte, evidentemente ispirati alle statue del Quirinale. Al di là delle pance equine si scoprono ancora le zampe di altri cavalli e gambe di altri uomini appiedati. Il cavallo del figlio di Cosroe scalcia per il colpo inferto alla gola del suo cavaliere, che si riversa morente.
Si combatte con indosso sia corazze all’antica che armature moderne, oppure addirittura nudi, come nei rilievi dei sarcofagi. Come in uno specchio spezzato, i volti dei combattenti appaiono e scompaiono negli interstizi lasciati dalle figure in primo piano. Non è certo qui la malinconia delle battaglie di Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova. Come sulla Colonna Traiana, i caduti, terrei, giacciono a terra tra gli zoccoli dei cavalli. Sono guardati in modo obiettivo, diresti con romano distacco.
Piero andava e veniva, sicuro dei cartoni affidati agli aiuti. Sul volto del combattente che duella con l’uomo ignudo, è rimasta l’impronta del telo premuto per far riaffiorare l’acqua nel brano d’intonaco quasi asciutto. Ben pochi sono i volti eseguiti dall’artista.
La battaglia occupa i quattro quinti della superficie. Solo un quinto è lasciato alla sua conclusione. Fatto scendere dal trono, Cosroe è condannato. Alla sentenza assistono tre rappresentanti della famiglia Bacci. Uno di loro ha otte- nuto da Piero la modifica del copricapo, per averne uno alla borgognona, che il pittore ha corretto in rosso con pittura a secco. Quando? Le ultime testimonianze di questa moda nelle Fiandre risalgono agli anni Cinquanta del XV secolo99.
Non è improbabile che il programma iniziale finisse qui. Come si è già accennato, la parete destra presentava infatti una difficoltà che non sappiamo se fosse stata calcolata sin dal primo momento. Vi si aprivano due nicchie che accoglievano due tombe, e una di queste custodiva le spoglie di un personaggio assai importante nella storia dell’ordine, il beato Benedetto Sinigardi, compagno di san Francesco, a capo della missione francescana a Costantinopoli durante il regno latino, autore dell’Angelus, committente della grande croce dipinta.
La salma del beato fu trasferita nella navata, deposta in un sarcofago romano collocato in un’edicola quattrocentesca. Sulla parete sinistra, i committenti degli affreschi comparivano alla chiusura della rappresentazione, presso l’altare, quando, probabilmente, ancora non si era deciso che cosa fare delle tombe. La loro chiusura consentì l’affresco più straordinario di tutta la cappella. Trasferire le tombe e chiudere le nicchie sul muro destro richiese un certo tempo. Tempo di accordi e discussioni, di maggiorazioni di spesa, mentre la malta si asciugava. Sulla nuova superficie preparata Piero poté ritornare sul tema della battaglia con idee del tutto nuove (cat. 7r).
Doveva rappresentare una vittoria senza spargimento di sangue, ottenuta solo in virtù della potenza taumaturgica della reliquia. Anziché un’esortazione alla crociata, dipinse un inno alla pace. La visione del fiume nell’intervallo tra le due schiere è in asse con le colonne del palazzo di Salomone (cat. 7p) e, soprattutto, con il grande albero della scena della morte di Adamo (cat. 7n), e questa calcolata collocazione fa del paesaggio il vero centro del racconto. È un cristallino paese di pace.
Purtroppo anche questa apparizione sognante è stata colpita dal grave danno che si estende sulla destra degli affreschi. Fortunatamente un acquerello di Johann Anton Ramboux, del 1835 circa, conservato alle Kunstsammlungen di Düsseldorf, ci trasmette il ricordo delle parti perdute100. Da questo testimone apprendiamo che vi era un grande albero prossimo alla bandiera dell’usurpatore, che un altro si trovava sulla riva ghiaiosa del fiume e che entrambi, con un terzo, conservato, collocato più lontano sulla sponda opposta, scandivano lo spazio, secondo una visione prospettica appena enunciata nel Battesimo (cat. 2), sviluppata nel San Girolamo di Berlino (cat. 3).
Chiari indizi permettevano di distinguere il giusto imperatore dall’usurpatore, il vero dal falso. Che si tratti di Eraclio o di Costantino, secondo Piero siamo sempre davanti all’immagine di sé promossa dall’Impero di Roma. I volti contano poco, come sempre nella pittura di Piero quando non siano ritratti. Tanto meno le fisionomie valgono qui, dove si tratta di tipi la cui costanza mette in evidenza la continuità della storia. Il vento gonfia la bandiera dell’impero, sospinge la schiera dei Romani dai bianchi cimieri al seguito dell’imperatore, che stringe delicatamente tra due dita la piccola croce d’oro. I cavalli marciano ubbidienti e sicuri; uno solo s’impenna rivolto alla battaglia dipinta sulla parete opposta. Appartiene infatti alla stessa razza dei destrieri del Quirinale, che Piero torna qui a evocare, ma da un altro punto di vista.
Le aste romane, bianche, verdi, rosse, dorate si levano diritte contro il cielo dove le nubi degradano in prospettiva. Se nel campo leale a Costantino dominano le rette, quello di Massenzio è invece segnato dalle oblique. Pende verso sinistra l’asta che sostiene il vessillo biforcuto con i colori di Roma, ma che reca come figura araldica un drago color ramarro. Tra i vessilli di Massenzio ricompare l’emblema della testa di moro che avevamo visto portato da Cosroe. Massenzio anticipa Cosroe. Di Massenzio resta oggi appena il cappello appuntito.
Costantino è in piena luce, ma non è in primo piano. Prima di lui, che avanza su di un bianco destriero, incede, ma lasciandogli il passo, un armigero in corazza d’acciaio che cavalca uno stallone fulvo. I due cavalli procedono identici, l’uno specchio dell’altro. Le loro proporzioni ci parlano di antica Grecia, ispirati come sono ai cavalli di San Marco a Venezia, il cui modello era stato fatto conoscere a Firenze da Paolo Uccello. Dopo i cavalli del Quirinale, Piero conferma la sua predilezione per i tipi derivati dalla Grecia classica.
Lasciata la composizione tradizionale della prima lunetta eseguita sulla parete sinistra, Piero aveva dipinto il secondo registro in un fitto dialogo con Domenico Veneziano, per scoprire poi, nella scena finale della battaglia, la suggestione dei monumenti di Roma.
Ancora non era incominciato l’anno 1459, ma Piero era già stato a Roma per Niccolò V. La seconda andata a Roma fu determinante sia per la nuova concezione dell’intera parete come un unico fatto unitario sia per il dominio sicuro di quanto nel mondo antico Piero era capace di trovare e distinguere.
Osservando gli affreschi di Arezzo, si avverte sin dalla parete sinistra l’imminenza di un grande ed enigmatico capolavoro, la Flagellazione (cat. 9). Per la leggenda della Croce, Piero era partito da modelli iconografici riconosciuti, cui si era sottratto per inventare una storia totalmente nuova. Per l’immagine della Flagellazione, aveva in mente ricordi d’infanzia, quando, certamente, l’aveva osservata nella predella del Polittico della Resurrezione di Niccolò di Segna in Sant’Agostino. Nel dipingere la piccola tavola della Flagellazione, non seguì nessuna iconografia prestabilita, a parte la presentazione tradizionale del Cristo legato alla colonna. Ne dette così non tanto una rappresentazione, quanto una rivelazione, come se la scena gli fosse apparsa nella sua verità e per un disegno celeste fosse toccato a lui trasmetterla. Un solenne atrio in penombra, una statua illuminata da una luce improvvisa, una piazza assolata, tre uomini assorti, un supplizio silenzioso. Va da sé che questa creazione di Piero avrebbe suscitato un’inflazione ermeneutica101.
Piero attua pienamente la sua idea del dipinto come progetto. Conformemente a quanto avrebbe scritto nel Trattato d’abaco, l’inizio è la «propria forma» in cui realizzare l’immagine, ovvero la pianta su cui saranno disposti oggetti, uomini e cose, edifici e persone, una premessa da cui discende anche agli umani una lapidea immobilità. Così che sono costretti ad essere testimoni, alla pari dei muri e degli alberi d’alloro al di là d’una recinzione fiorita, bloccati nei loro ruoli inspiegati. Il solo gesto enfatico è affidato a una statua, a un’antica statua d’oro.
Molti segni inducono a credere che la Flagellazione sia stata concepita a Urbino: soprattutto la coincidenza degli elementi architettonici decorativi con il portale di San Domenico, realizzato su disegno di Maso di Bartolomeo entro il 1455. Il dipinto poté essere eseguito proprio a Urbino, dove nel 1480 circa lo rievoca Bartolomeo della Gatta in un’iniziale del corale del duomo102 e dove esercitò un’influenza profonda sull’invenzione delle tavole di Santa Maria la Bella di Fra Carnevale.
Negli affreschi di Arezzo abbiamo già incontrato taciturni testimoni ammantati in vesti orientali, come anche un pezzo di città letto con logica attenzione alle destinazioni d’uso; abbiamo visto anche l’atrio di un palazzo edificato su colonne di marmo, con architravi anch’essi di marmo e travi e capitelli rischiarati dal riflesso della luce che batte sul pavimento. Piccole osservazioni aiutano a riunire la tavola agli affreschi, per esempio la luce che fruga tra le dita del misterioso orientale che assiste al supplizio, simile, ma addolcita, a quella che s’insinua tra le dita della mano protesa nel profeta dipinto accanto alla finestra. Ricorre anche la decorazione a cubi prospettici che abbiamo osservato nel cubicolo della Vergine annunziata.
La Flagellazione ha perduto la cornice, che pure aveva un ruolo sicuramente importante, visto che era stata prevista prima ancora della pittura. Il supporto consiste infatti in «due assi di pioppo ricongiunte in orizzontale per raggiungere l’ampiezza quadrangolare della superficie da dipingere, e dunque con ampi margini»103. Seguendo esempi fiamminghi, con rare eccezioni in Italia, sulla cornice era scritto il commento alla scena rappresentata: «convenerunt in unum», citazione dal Salmo 2, 2 che negli Atti degli Apostoli Pietro richiama parlando nel sinedrio104. Creighton Gilbert105 ha osservato che non si può prescindere dal contenuto dell’iscrizione (che è da integrare con i nomi di Ponzio Pilato ed Erode e la menzione delle «genti d’Israele»). Di conseguenza, proseguiva, dobbiamo ritenere che Piero abbia qui rappresentato Erode e Ponzio Pilato.
Benché sotto le vesti d’un imperatore bizantino del secolo XV, in rappresentanza dell’autorità di Roma, possiamo credere che sia qui raffigurato Pilato, ma è difficile identificare in Erode l’uomo scalzo col turbante. Ancora più difficile accettare che i tre uomini all’esterno dell’edificio in cui avviene il supplizio siano i rappresentanti dei popoli d’Israele ricordati da Pietro. Nelle raffigurazioni della Flagellazione, citate anche da Gilbert, gli Ebrei appaiono infatti numerosi. È anche vero che tutti e tre i personaggi sono vestiti in modo del tutto estraneo al costume italiano. Sarebbe stato davvero bizzarro incontrarli in una piazza italiana.
Piero «nutriva la sua intuizione del divino con una pratica delle cose più naturalmente quotidiane»106 e adotta la strategia dello straordinario e inatteso per distoglierci dalla falsa impressione dell’anormale quotidianità delle cose effigiate, per inoltrarci a riflettere sulle verità nascoste in ogni avvenimento della storia sacra, e dunque avvertirci dell’incombenza d’un enigma.
Invano, ritengo, cercheremo di dare un nome e un ruolo pubblico al personaggio a testa scoperta107, ammantato di broccato, poiché nessuna persona ragionevole, in Italia, si sarebbe presentata in piazza sotto panni degni di rivestire Maria in trono. Il giovane scalzo vestito di rosso, del quale tutti i commentatori hanno riconosciuto la solare bellezza, ma dandogli nomi diversi, è speculare all’uomo con turbante che assiste al supplizio, il testimone che ci volge le spalle e che vede i fatti accadere nel loro tempo storico. Il giovane invece volge le spalle a tutto il suo presente, alla piazza, al giardino murato, e guarda noi. Abbandona la contingenza per invitarci ad ascoltare il suono degli eventi che si prolunga e ci tocca.
Malgrado l’apparente semplicità dell’impaginazione, la tavola urbinate è d’una tale complessità mentale da richiedere un’attenzione estrema su ogni particolare. L’atrio del pretorio di Pilato, in cui si compie la Flagellazione (Lightbown ha dimostrato come Piero si fosse documentato sulla topografia dei luoghi santi) ha l’apparenza di un portico aperto, ma la luce che irrompe fra le colonne della seconda campata non può provenire che da una alta finestra, tanto la sua fonte è localizzata. Si veda la sottile linea nera verticale, al di sotto del collarino, sulla sinistra della colonna a destra che, appena ingrossando il contorno, indica la presenza di una cornice di marmo nero a coronamento del muro per noi invisibile, che si estende al di là della colonna. Spostandoci a sinistra e osservando il margine della colonna posta all’estremità della tavola, vediamo che la sala continua idealmente al di là della pittura.
Nel meditare quest’opera suprema, Piero ripensa esperienze vicine e lontane. Il litostrato della sala, con commessi di marmi che disegnano le stelle, è una sfida al pavimento ideato da Domenico Veneziano nella Pala di Santa Lucia dei Magnoli108. La ringhiera marmorea della scala, che s’intravede al di là della porta semiaperta, è ispirata ai recinti di Matteo de’ Pasti nel Tempio Malatestiano, come al campanile di San Giuliano a Rimini; le mensole lignee che sorreggono il tetto della casa hanno riscontri nella Romagna veneziana, il disegno di cubi prospettici sul muro di recinzione del giardino appare, come si è già detto, anche nella scena dell’Annunciazione di Arezzo (cat. 7f), infine il tralcio di rose tre volte ripetuto è ripreso dai fianchi del Tempio Malatestiano.
L’evento si trova verso il fondo del cannocchiale prospettico, secondo una concezione narrativa che risale a Iacopo Bellini, le cui opere Piero poté conoscere a Ferrara. Si trattava di una novità in Italia centrale, ripresa prontamente, come già detto, da Fra Carnevale nelle tavole dipinte per Santa Maria la Bella intorno al 1465109. Il successo di questo schema narrativo si sarebbe prolungato fino al 1473 circa, con le tavole dipinte a Perugia per San Bernardino110. L’attenzione si appunta sul personaggio orientale (il turbante aveva richiesto un apposito cartone) rivolto verso il Cristo alla colonna. La sua è una presenza altamente drammatica poiché coinvolge lo spettatore, che condivide con il personaggio di spalle la stessa visione. Il misterioso orientale è funzionale al supplizio e in accordo con il diritto romano. La mano visibile ordina agli aguzzini di smettere: satis. Il gesto blocca l’azione, arresta il movimento e asseconda l’ideale di Piero di figure statiche in un’immobilità statuaria. Più ancora che nei due profeti di Arezzo (cat. 7b e 7m), la luce gli gira intorno e lo modella, creando nel marmoreo burnus creste e onde, avvallamenti e promontori, scanalature e volute.
Lo studio delle luci si affina ulteriormente. Il cortile, per esempio, è rischiarato da una luce fredda e indiretta, che bagna i gradini e il corrimano, e che è ben diversa da quella, carica di energia, che illumina la piazza, che batte contro la seconda campata del soffitto e che fa risplendere l’idolo d’oro collocato sulla colonna. A Pilato, che impersona l’imperatore, con scrupolosa osservazione del costume contemporaneo111, è riservato il privilegio del profilo che si staglia sull’anta di un uscio semichiuso.
I tre personaggi che sostano in primo piano nella piazza non possono vedere ciò che si svolge nel pretorio, se un muro continuo, interrotto solo da un’alta finestra, unisce le colonne. Quello dalla barba divisa e il cappello orientale, ripete un gesto assai vicino a quello dell’uomo col turbante, come se avesse l’autorità d’invitare i compagni a una pausa. La sua bocca è dischiusa. Egli ha certo grandi verità da comunicare agli altri in ascolto. Sull’identificazione dei personaggi esiste una diatriba infinita, ma priva di presupposti certi112. Bene Judith Field ha scritto che questo dipinto non è «an example of perspective», esso è «the perspective»113. Piero ha dimostrato qui la logica coercitiva della prospettiva che, oltretutto, ingrandisce e porta in primo piano le figure che la tradizione avrebbe relegato in ogni caso a una dimensione minore di neutro contorno.
È invalso negli studi il collegamento tra il dipinto e la causa della crociata in seguito alla caduta di Costantinopoli (1454), ma la sua data di esecuzione è probabilmente anteriore, tra il 1452 e, al più tardi, il 1455.
Non credo che le devote e i devoti che si recavano nella piccola chiesa di Santa Maria di Momentana, fuori le mura di Monterchi (cat. 11), si ponessero i problemi teologici enumerati e confutati da Giovanni Pozzi114. Nessuno tra loro dubitava che Gesù fosse nato vero Uomo e vero Dio e tutti ritenevano normale la gravidanza della Madre, né allora l’immagine della Madonna gravida appariva tanto eccezionale. Ma il ribaltamento di uno stesso cartone per ottenere due angeli perfettamente identici, salvo il colore, li rendeva astratti e dava alla Madonna una realtà statuaria, paragonabile a quella che aveva nel Polittico della Misericordia (cat. 6), ma qui più assorta e partecipe. Baldacchino foderato di vaio, angeli simmetrici e anonimi danno all’immagine una maestà araldica. Subito attenuata, però, e ricondotta alla realtà, dal gesto delicato della mano che avverte i movimenti del Bambino sotto la camicia e dall’abito due volte slacciato. Il nimbo di Maria conferma l’appiombo di tutta la figura, ma negli angeli l’inclinazione diversa dei nimbi toglie rigidità alla scena. Dietro le loro teste abbronzate, come di comparse prese sui campi, affiora la sommità delle ali nascoste, che si immaginano simmetriche a quelle visibili. Anche l’orecchio destro della Madonna si affaccia appena al di là del profilo della guancia.
Il volto fiorente della Madonna richiama quello, bellissimo, della Maddalena affrescata nel duomo di Arezzo (cat. 12). Entrambe hanno stupenda la bocca carnosa, con fossette agli angoli e la loro carnagione è luminosa. Nel confronto risalta la scelta di dare alla Vergine di Santa Maria di Momentana una pesante veste lanosa, dalle pieghe che spiombano rigide, ben diverse dal panneggio classico che accomuna la Maddalena ai due profeti di Arezzo. La treccia legata con un nastro bianco della Vergine assomiglia all’acconciatura di alcune dame del seguito di Elena negli affreschi di Arezzo.
Di nuovo il paesaggio intorno a Sansepolcro e un’opera civica. Il 5 aprile 1474 veniva ordinata la costruzione di un tramezzo al piano inferiore del Palazzo dei Conservatori «in quella forma e modo che sta sopra donde è depento el sepolcro». Nel 1474 la Resurrezione (cat. 13) esisteva dunque già e probabilmente da qualche anno. Se il soldato addormentato con la testa appoggiata al sarcofago è un autoritratto, Piero aveva allora appena cinquant’anni.
Generalmente accostata stilisticamente agli affreschi di Arezzo, soltanto per de Tolnay115 la Resurrezione andrebbe datata al 1474 circa, quando Piero fu preposto alle mura di Sansepolcro. La forte alterazione degli azzurri ha reso ancor più stupefacente l’emergere dal sarcofago, senza alcuno sforzo apparente, della luminosa figura di Cristo, che punta l’asta del vessillo sul terreno alle spalle del soldato addormentato. L’ispirazione al dipinto trecentesco di Niccolò di Segna, che è oggi in duomo ed era allora degli agostiniani, è evidente e Piero non esita a rinunciare a una dimostrazione prospettica, lasciando che appaia bidimensionale il corpo del Risorto, in contrasto con la veduta dal basso del sarcofago. Accetta l’universo consolidato dell’iconografia sacra in quanto sistema sicuro di consenso e quindi ammette il contrasto tra il volto che ha sofferto e visto gli orrori degli inferi e il corpo intatto e rinnovato, senza tracce della Passione. A Roma Piero doveva avere studiato il Torso del Belvedere che nel 1432 circa Ciriaco d’Ancona aveva indicato presso i Colonna a Santi Apostoli116. La potenza dei muscoli addominali, le pliche al di sopra dell’ombelico, il solco che discende dal petto sino alla terminazione della cassa toracica rendono questo riferimento piuttosto probabile. Il torso è firmato da Apollonio, figlio di Nestore, da Atene. Se l’identificazione è giusta, sorprende l’acutezza con cui Piero sceglieva invariabilmente modelli greci. Forse Vasari aveva riconosciuto il debito dell’affresco con l’antico, da cui la sua affermazione che questa era «tenuta, dell’opere sue che sono in … città, e di tutte le sue, la migliore». Tanto più l’ammirazione era giustificata per come l’affresco si presentava allora, tra due colonne con capitelli compositi, al di sopra di uno zoccolo che fungeva da stilobate. Era un proscenio che dava profondità e che esaltava certi momenti in cui più si evidenziava lo spirito geometrico, come nella cupola del ginocchio sollevato da cui le pieghe del manto rosa partono come scanalature.
La piccola tavola di pioppo (misura solo cm 49 × 42), che Piero scelse già invecchiata117, rappresenta un culmine nella sua pittura. Idealmente si colloca dopo l’affresco di Rimini (cat. 4; 1451) e ha un suo precedente nella tavola con san Girolamo datata 1450 e dipinta ad Ancona (cat. 3). Proviene da una collezione veneziana ed è sempre stata a Venezia, una circostanza che portò Longhi ad identificare con i comignoli di Venezia la città che appare al di là dei due personaggi in colloquio. Su questa identificazione, il grande storico appoggiò la sua ipotesi circa un’attività veneziana di Piero e una conseguente, profonda influenza di Piero sulla pittura veneziana del Quattrocento118.
Successive osservazioni hanno portato alla conclusione che la città è in realtà Sansepolcro, centro con cui gli Amadi, originari di Lucca, ma divenuti eminenti cittadini di Venezia, poterono avere rapporti connessi con il mercato tessile. Le datazioni proposte oscillano e si basano soprattutto sulla ricerca dell’identità del devoto, ai cui piedi è la scritta, spesso ritenuta coeva, ma forse aggiunta in seguito, sebbene ancora in età umanistica, «hier amadi avg f».
Poiché un Francesco Amadi, fratello di Girolamo Amadi di Agosti- no, compì una missione diplomatica in Toscana nel 1475, a questa occasione Chreighton Gilbert119 ha associato la commessa del dipinto. Successivamente Marinelli ha ricostruito che Agostino si era sposato nel 1427 e che Girolamo era stato il suo quarto figlio, dunque nato non prima del 1431120. Vi sono quindi molte probabilità che il devoto del dipinto sia il Girolamo Amadi nato circa il 1431. Dall’età che possiamo attribuirgli dipenderebbe l’età del dipinto, anche se, come sempre, indicare l’età di un personaggio ritratto non è mai tanto sicuro. Nel 1475, il nostro uomo dovrebbe avere superato i quarant’anni, ma lo diremmo un poco più giovane. Se il dipinto risalisse al 1475, saremmo prossimi al dittico degli Uffizi, mentre l’ampio paesaggio qui rappresentato non ha nulla dello studio atmosferico in cui si racchiude la magia del dittico. Inoltre il supposto Girolamo Amadi indossa il ‘sacco’ rosso di una confraternita e anzi la sciarpa nera, seminascosta, che pende dalla sua spalla destra, sembrerebbe distinguerlo come personaggio d’una certa autorità. Tutto ciò fa supporre un vero radicamento nella società del Borgo e forse non fu il viaggio dello zio Francesco nel 1475 l’occasione del dipinto. Sempre che l’iscrizione sia coeva e non aggiunta in seguito. Le analisi compiute dalla Soprintendenza di Venezia dimostrano che Piero trasformò il volto del supposto Girolamo Amadi in maniera sostanziale, tanto da far sospettare che si tratti veramente di un ritratto121, per il quale in passato vi furono vari tentativi di riconoscimento, anche tra i fedeli raccolti sotto il manto della Madonna della Misericordia.
Piero ha firmato il dipinto nel tronco d’albero su cui è collocato il croci- fisso: «petri de bv(r)/go s(an)c(t)i sep/vlcri opvs». Le lettere capitali girano intorno alla forma cilindrica del tronco, restringendosi prospetticamente ai margini. Il crocifisso si mostra a noi di spalle, mentre è rivolto verso la città, quasi santificandola. La luce dell’imminente tramonto (proviene infatti da occidente) tocca la figura del santo, sfiora le pagine del libro posto sulle ginocchia, proietta un’ombra lunga sulle pagine del volume spalancato appoggiato sulla panca. Cogliamo qui anticipi della ricerca che, nel dittico, porta i volti a unirsi al paesaggio grazie alla luce che li accomuna. Il paesaggio stesso, però, non è del tutto indifferente alle figure in primo piano. Si veda come la curva del letto del fiume si accorda con la manica del devoto.
Se la micro-rappresentazione dei particolari – dalle unghie e le nocche del santo alla scrittura, al letto ghiaioso del Tevere – ci fa ancora ricordare il penitente san Girolamo del 1450, qui cogliamo l’impazienza del santo interrotto nella lettura, tanto da temere di perdere la pagina e fermarla, volgendo uno sguardo severo all’ignaro visitatore. L’incontro avviene in un luogo posto in alto e distante, dunque solitario e faticosamente accessibile, all’opposto dell’udienza cerimoniosa in un’aula del palazzo celebrata dall’affresco di Rimini.
Anche se l’ipotesi di Longhi su una attività veneziana di Piero è stata messa in dubbio122, a Venezia il dipinto fu visto e fu studiato dagli artisti. Giovanni Bellini avrà guardato il cielo al tramonto che trapela tra i rami e le foglie dell’albero e ancora, nel dipingere la predella della pala di Pesaro, si sarebbe ricordato, nello scomparto con le stimmate di san Francesco, della drammatica immedesimazione con lo spettatore che veniva dalla rappresentazione del crocifisso visto di spalle. Infine non sappiamo, a meno che non si supponga un soggiorno di Petrus Christus a Venezia, come questi abbia potuto riprendere la posa di san Girolamo in uno degli apostoli intorno al capezzale della Vergine nel dipinto, già a Palermo, che è oggi al Metropolitan Museum di New York. Il quadro di Piero era chiaramente ispirato a un modello di van Eyck ed era dunque destinato ad essere guardato con particolare interesse da un pittore fiammingo.
Alla fusione di figure e architettura avvia la tavola che è oggi a Williamstown (cat. 16). Guardata a lungo con sospetto, poiché il trasporto della pittura da tavola a tela e la successiva applicazione su compensato hanno appiattito il colore, e perché restauri e vernici hanno tolto trasparenze e passaggi luminosi – soprattutto dato che un cretto diffuso, che incide in profondità fino alla mestica, l’ha in gran parte sfigurata –, quando fu presentata a Brera nella mostra di Fra Carnevale, nel 2005, fu sottoposta a nuovi esami che non solo ne hanno confermato l’autenticità, ma anche ricostruito la fase della ricerca tecnica di Piero cui appartiene123.
Dalle indagini risulta un tempo in cui Piero ancora cercava di carpire i segreti della pittura a olio, procedendo per tentativi e insuccessi. Siamo dunque a una data anteriore a opere, come la pala di Brera o il Polittico agostiniano, nelle quali Piero si dimostra in pieno possesso della nuova tecnica. Il cretto invadente è infatti dovuto all’essiccazione troppo rapida dei leganti, per i quali il pittore era ricorso a una mistura di oli, di cui si è però servito in modo discontinuo. Errori simili si notano negli scomparti di destra nel Polittico della Misericordia e nel manto della Madonna nel polittico di Perugia (cat. 19).
La ricostruzione della storia collezionistica del dipinto rende ora probabile che la pala, che proviene da Sansepolcro, fosse nella chiesa di Badia, dove Piero operò più volte124.
Nella tavola il pittore aveva riflettuto sulla disparità di dimensioni tra uomini e architettura, e aveva voluto creare intorno ai personaggi uno spazio dilatato, come avverrà nella Pala Montefeltro (cat. 17), poi nella Madonna di Senigallia (cat. 22): solo puntando lo sguardo negli interstizi, dove appena si mostrano le basi delle colonne e dei pilastri o si rivela un tratto di mattonato, ci rendiamo conto dell’enormità dell’area immaginata, la cui recinzione si conclude assai lontano dal gruppo compatto della Vergine col Bambino tra gli angeli. Come nell’affresco di Rimini (cat. 4) – che i festoni tra le lesene ricordano – l’architettura è sfondo alle figure, che si presentano in primo piano, quasi sul margine inferiore del quadro. I volti di due angeli sono rivolti allo spettatore e un angelo indica, invitandoci a seguirlo, il gesto della Vergine che offre la rosa al Bambino.
Tutto intorno è uno spazio romano. Il fregio d’acanto che corre sull’architrave ripete quello un tempo ben visibile sull’arco detto di Portogallo, sul tratto interno della via Flaminia125, davanti a Santa Maria in via Lata, ripreso a mosaico nella navata di Santa Maria Maggiore e persino, in forme romaniche, nel portico di Santa Cecilia in Trastevere. Secondo alcuni osservatori, lo stesso gradino su cui è posato il trono, dove i grandi fiori nivei sono una delle parti più riuscite, alluderebbe a un frammento architettonico romano126.
I corridoi che circondano la vasta corte sono immersi nell’ombra, dove gli aggetti non hanno quasi rilievo. È qui la premessa dell’amplissimo chiostro dell’Annunciazione nel polittico di Perugia.
La corona di rose e qualche gioiello indosso agli angeli e alla Madonna sono ancora lontani dalla ricchezza profusa nella Pala Montefeltro, che pure è assai vicina. Ce la segnala questa riunione silenziosa, lo dice l’aria assorta degli angeli, benché quelli più a sinistra siano sfigurati dalle condizioni del dipinto. Dal profilo dell’angelo all’estrema sinistra si passa gradualmente al volto di tre quarti, ma leggermente girato verso sinistra, dell’angelo che ci guarda. Così, contro l’irraggiungibile sfondo del grande cortile, si forma un cerchio angelico che chiude al centro il trono della Vergine. E ci si chiede di dove provenga l’ombra che attraversa il gradino del trono in diagonale. Forse nel mondo di Piero anche gli angeli gettano l’ombra.
La datazione della pala non è concorde. Le figure degli angeli sono assai prossime alla Pala Montefeltro, tanto da lasciare perplessi tra l’anticipazione e la ripetizione. Ma la pala di Urbino sembra appartenere a una fase più avanzata nello studio dell’integrazione tra architetture e figure.
In un poemetto encomiastico scritto dopo il 1472, in morte di Battista Sforza, il carmelitano veronese Ludovico Ferabò ricorda un ritratto di Federico che aveva visto sicuramente a Urbino, dove si trovava nel 1465-1466: «imago eiusdem principis a Petro Burgensi picta»127. La sua testimonianza, dapprima erroneamente riferita al dittico degli Uffizi, è stata screditata, ma a torto, poiché l’autore non aveva nessun motivo di esporsi citando incautamente, in un’opera offerta proprio al signore di Urbino, un ritratto inesistente del destinatario. Dunque Ferabò aveva visto il ritratto; non sappiamo in quale fase di esecuzione, ma sicuramente l’aveva visto. E doveva averlo visto nella pala di Brera (cat. 17) di Piero della Francesca.
Il 1463 segnò una svolta definitiva nella vita di Urbino. A Senigallia, Federico aveva definitivamente sbaragliato il suo avversario Sigismondo Malatesta e, nel nuovo clima, dava corso alla trasformazione del palazzo e della cattedrale. La pala poté essere destinata alla cattedrale, o forse al mausoleo che Federico intendeva costruire nel palazzo.
Forse la concezione di questa pala che unisce figure e architettura in un tutto indissolubile e misterioso poteva risalire a un tempo lontano, a una probabile idea di Filippo Lippi di cui Neri di Bicci ci ha trasmesso un ricordo sfocato, nel 1455, in un affresco nel chiostro di San Pancrazio a Firenze128 (ora nella chiesa di Santa Trinita). Nella pala di Williamstown (cat. 16), l’architettura è spinta lontanissima dalle figure, le quali invece nella pala di Montefeltro vi si trovano dentro. A differenza di quanto avviene con la pala di Williamstown, Piero ha compreso che per ottenere l’integrazione desiderata, occorre immaginare lo spettatore molto distante.
È solo immaginando le figure poste a grande distanza che è possibile stabilire una relazione convincente tra i personaggi e un’architettura amplissima, molto più ampia dell’inquadratura, pensata assai oltre la cornice. Come nella Flagellazione (cat. 9), l’architettura e la collocazione delle persone sono state attentamente predisposte in pianta.
Nella pala di Williamstown la scena è ambientata probabilmente all’aperto, ma l’angolo del portico la chiude e soltanto la luce forte che rade il blocco di marmo su cui posa il trono della Madonna segnala che siamo in un esterno. Nella Pala Montefeltro siamo invece in un luogo chiuso, all’interno di un tempio, ma qui la luce che irrompe fortissima da una finestra nascosta determina, o meglio confonde, la nostra lettura dello spazio.
È nella tradizione che i santi protettori della città siano rappresentati frontalmente intorno alla Madonna col Bambino, con il devoto committente in preghiera. E che le dimensioni del gruppo della Madonna col Bambino superino quelle di tutti i convenuti, era anche questa una convenzione consolidata nel tempo.
Piero riesce a collocare la scelta tradizionale in una situazione inedita. Il gruppo della Madonna col Bambino e Federico si distacca da tutti gli altri presenti grazie ad un’esasperazione prospettica. Tutti sono infatti resi più piccoli dalla distanza.
È occorso uno studio attento del metodo prospettico seguito da Piero per rendersi conto dell’architettura che è qui immaginata129. L’abside risulta molto lontana, la Madonna e i santi sono collocati al centro di un transetto, al di qua del gradino del presbiterio su cui si trovano invece gli angeli. Un potente fascio di luce proveniente da una grande finestra sulla sinistra, nascosta alla vista, va a colpire l’uovo appeso alla conchiglia dell’abside, richiamandolo illusoriamente in primo piano e suscitando l’impressione che si trovi direttamente sopra la testa della Madonna. Un tappeto anatolico posto sotto il trono – in realtà una sella plicatilis degna di un comandante – ha al centro una stella a otto punte ottenuta dall’inserto di due quadrati. I piedi della Vergine quasi ne sfiorano due apici, accentuando l’impressione di collocazione centrale del gruppo divino.
Nel repertorio architettonico sono stati individuati prestiti dagli edifici di Urbino130, e certo la pala si dimostra parte essenziale dell’ambizioso programma urbano di Federico di Montefeltro, cui forse Piero contribuiva con quel tunnel a lacunari sopra il presbiterio che ricorda l’ingresso al romano Palazzo di Venezia disegnato da Francesco del Borgo. La grande idea di Piero, che integrava personaggi e marmi in un solo disegno architettonico, fu ripresa da Antonello da Messina e trasmessa a Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Cosmé Tura. Ma ciò avvenne, come ha indicato Shearman, con un compromesso131. Un alto trono venne a separare la Madonna mentre la cornice del quadro s’integrava con la pittura dipinta. Piero aveva invece costruito un’architettura immaginaria che andava ben al di qua della pala, che invade il nostro spazio e, nonostante la maestà dei marmi e delle persone, ci costringe a sentirci parte della scena.
L’offerente, in primo piano, le cui proporzioni eguagliano quelle della Madonna, rivolge a lei una silenziosa preghiera. I suoi occhi non guardano però né il Bambino né la Madre; guardano davanti a sé, come se il devoto offerente fosse immerso in un proprio pensiero132. Il gradino su cui sta la Vergine è più avanzato del presbiterio, ma non così tanto da giustificare che san Giovanni Battista o san Girolamo, benché in piedi, siano alti come la sua figura seduta. Quanto agli angeli, questi sì sono posti verso il fondo, al di là del gradino del presbiterio, così che, diminuiti dalla lontananza, abbiano gli occhi alla stessa altezza della Vergine e dei santi. Una immaginaria linea orizzontale unisce gli occhi di tutti, che siano frontali o raffigurati di tre quarti.
Dai gioielli degli angeli alla croce di cristallo mostrata da san Francesco, sino alla borchia a forma di stella sulla legatura turchina del libro tenuto da san Giovanni Evangelista, tutta la pala – abbagliante di marmi bianchi per più di metà, variata di colori nella zona inferiore, dal rosso granata di san Giovanni Evangelista al raffinato rapporto tra un celeste topazio e un giallo agata di san Giovanni Battista, al centro il colore notturno del manto della Vergine e il rosso e l’oro della veste – è percorsa da un itinerario di luci nelle perle, nell’oro e negli smalti che comprende anche la nivea pietra con cui san Girolamo si batte il petto. Apparentemente sono gioielli dipinti con la cura degna di una tavola fiamminga, ma basta poco per rendersi conto che il modo di trattare un gioiello da parte di un van Eyck, per esempio nel polittico di Gand, è del tutto diverso.
Al pittore fiammingo interessa l’oggettiva realtà del gioiello (una perla, per esempio, può avere un’ammaccatura) mentre cerca di cogliere la luminosità interna delle pietre. Piero invece vede i gioielli come ricettacoli della luce solare e la sua stessa pittura li tratta con tocco leggero. La sua mente logica insegue le leggi dei riflessi e non vi è perla che non abbia la luce che la colpisce in superficie cui corrisponde una seconda luce dovuta alla rifrazione. Persino lo spallaccio della corazza di Federico, il suo elmo ammaccato presentano una profusione di luci riflesse che si richiamano tra loro. Federico ha deposto le armi e il bastone di comando ai piedi della Madonna. L’elmo ammaccato ricorda un incidente di torneo dovuto alla lussuria, un peccato che aveva messo in pericolo lo Stato133. Il vittorioso condottiero è qui penitente. Poiché, come è stato notato, il conte Federico vi è rappresentato senza nessuna delle onorificenze che ricevette nel 1472, il dipinto deve precedere quell’anno134.
La fusione della Madre di Dio con la chiesa è ottenuta da Piero prima di tutto suscitando l’illusione che l’uovo – normalmente posto sopra gli altari – sia perpendicolare alla Vergine, quindi deponendo il piccolo corpo del Bambino sul risvolto lanoso del manto della Madre, allusione all’agnello sacrificale, richiamato anche dalla collana di rosso corallo. Un riflesso di luce bianca rischiara, dal basso, l’architrave e i capitelli, a sinistra, prossimi all’altare, che dobbiamo immaginare con la mensa coperta di lino.
Dipingendo, Piero evitò in varie parti, ma non in tutte, che i colori a olio s’incontrassero sui margini delle figure, e in alcuni casi, per esempio nel saio di san Francesco, nel braccio sinistro di san Girolamo, il colore è così scarso da far pensare a una prima stesura, come se mancasse l’ultima seduta.
L’influenza che la pala ebbe sulla pittura del Quattro-Cinquecento fu enorme, anche se ognuno si sforzò di rendere semplice e immediatamente comprensibile la complessa immagine architettonica di Piero. Questi aveva volutamente trascurato di dare sul pavimento indicazioni prospettiche e aveva nascosto particolari che sono illuminanti per comprendere la costruzione che aveva immaginato. San Giovanni Battista copre quasi interamente un nodo importante, quello dove ci saremmo accorti che il grande arco introduttivo non è affatto posto a far da cornice. Le basi dei suoi pilastri riposano infatti sul marmo nero del presbiterio, al di là del gradino posto alle spalle di Maria.
Per le clarisse di Perugia, Piero operò in più tempi e su livelli diversissimi, salendo, dal racconto popolare delle predelle alla tradizione, appena intaccata, del trittico (cat. 19), per concludere infine con la magnifica invenzione dell’Annunciazione.
Nel trittico aveva dato realtà oggettiva alle figure dei santi immaginando spessi nimbi metallici in cui le teste si rispecchiano. Aveva così inventato un punto di vista del tutto inedito. Il nimbo della Madonna s’incastra con la cornice della nicchia a lacunari che corona il trono marmoreo.
L’idea del trono di marmo come immagine della Chiesa risaliva addirittura alla pittura giottesca – non ignota alle clarisse di Perugia –, ma nei grandi fiori dei lacunari, negli specchi di marmi variegati della spalliera, già si fanno strada pensieri che avranno la loro piena affermazione nella pala di Brera (cat. 17). Il colmo della piccola abside appare perpendicolare alla nuca di Maria, che invece ha il capo leggermente inclinato verso l’erculeo infante, non troppo lontano, per le proporzioni, da quello della pala di Williamstown (cat. 16), con la quale il trittico ha in comune l’imperizia nel dipingere a olio, evidentissima nel manto della Vergine. I santi del trittico sono quattro, mentre nella predella sono riunite le storie di tre soltanto.
Nelle storie dei santi della predella Piero fu di un’apparente e delicatissima semplicità. Nel notturno delle stimmate di san Francesco usò nero su nero e anche con la rapidità della pennellata creò un notturno assai diverso dall’incanto del sogno negli affreschi di Arezzo (cat. 7q). Nelle scene domestiche, la semplice espressività dei gesti fa dimenticare l’accurata misura nella descrizione degli ambienti. Piero ama l’affabilità narrativa nelle predelle; qui come anche nel polittico degli agostiniani (cat. 20h). Il carattere colloquiale della predella è forse inatteso rispetto ai silenzi che pervadono la pittura dell’artista.
Un contributo del Comune, il 21 giugno 1468, ci offre la data certa dell’esecuzione del fastigio135. Per persuadere le monache dell’inserimento del trittico in una più grande tabula, il pittore poté citare un esempio di quarant’anni prima, il trittico che l’Angelico aveva dipinto nel lontano 1429 per le camaldolesi di San Pietro Martire a Firenze, ora nel Museo di San Marco. L’Angelico aveva dato valore rituale al trittico, opponendo la sua immobilità dorata alla storia narrata nelle scene.
Né Piero narratore era meno dell’Angelico prossimo ad una visione sacrale del mondo. «Egli – cito di nuovo Pietro Toesca – definì il volume dei corpi, e il loro rapporto con lo spazio, con tanta intensità da imporli come rivelazioni incoercibili»136. Rivelazioni, appunto.
Nel giugno 1468 Piero aveva da poco licenziato la Pala Montefeltro (cat. 17). Dopo un’opera che avrebbe rivoluzionato la concezione italiana della pala d’altare, si trovava a dare assetto unitario ad opere realizzate anni prima. Agì con impensato ardimento. La sagomatura della tavola in cui dipinse l’Annunciazione è infatti originale.
Un triangolo di cielo, da cui scendeva la colomba dello Spirito Santo in una raggiera d’oro, dominava l’ambiente monastico137. L’annuncio a Maria avveniva dentro un chiostro eccezionalmente ampio e sontuoso, eretto su pilastri di porfido, o di marmo nero, abbelliti sugli angoli da classiche colonnine coronate da capitelli compositi. Al centro del prato chiuso dalle gallerie del chiostro, un alto albero frondoso e arbusti tagliati con accortezza. Piero ha ideato la pianta di tutto il chiostro con estrema chiarezza, ricorrendo ai corsi di marmo bianco tra i campi di mattonato per permetterci di comprenderla. Ma nella galleria interposta tra l’angelo e la Madonna, sembra aver abbandonato l’idea dei pilastri in favore di semplici colonne, che proiettano l’ombra sul pavimento. Dove il corridoio svolta, Piero ha inserito una lastra di marmo colore del cielo, come quello che appare dietro un angelo nella Pala Montefeltro.
La Vergine è venuta incontro all’angelo interrompendo la lettura. Ora si sottomette all’autorità che il messo celeste rappresenta. Ha i capelli sciolti e una certa angolosità del volto ha fatto dubitare a Toesca che vi sia la mano di Luca Signorelli138.
Con questa scena grandiosa, Piero si è accostato ad un’opera eseguita anni prima, trovando ancora una volta un nesso tra attualità e memoria.
Il dittico con i ritratti di Battista Sforza e Federico di Montefeltro (cat. 21) fu eseguito da Piero dopo la morte della contessa, avvenuta nel luglio 1472139. Era l’ultimo grande impegno dell’italiano per la corte di Urbino, dove dal 12 febbraio 1473 è stipendiato Giusto di Gand, il «maestro solenne» cercato da Federico140 per la pala del Corpus Domini che Piero non aveva più dipinto.
L’interno immaginato da Giusto di Gand, un ambulacro in una chiesa romanica del Nord, doveva suonare come una radicale smentita di tutto ciò che Piero aveva pensato solo cinque o sei anni prima con la pala di Brera (cat. 17).
Il ritorno a Pesaro di Alessandro Sforza dalla missione a Bruxelles, nel 1450 circa, aveva destato nuovi pensieri in Federico. Lo Sforza aveva portato con sé un suo ritratto, uno del duca di Borgogna e il famoso trittico della Crocifissione. Un inventario redatto nel Cinquecento annota che si trattava di ritratti «con due occhi», ovvero non di profili a medaglia secondo la tradizione italiana141. Intanto da Milano, nel 1460, Bianca Maria Sforza aveva inviato a Bruxelles il pittore di corte Zanetto Bugatto perché apprendesse l’arte fiamminga del ritratto da Rogier van der Weyden. L’incarico del dittico offrì a Piero una rara occasione per affermare il legame con la tradizione italiana del ritratto. Come vent’anni prima a Rimini, si attenne al profilo.
La collocazione dei ritratti in un paesaggio non era in Italia una novità. Ghirlandaio, per esempio, aveva situato un ritratto femminile a mezzobusto in un paese di cielo, acque e castelli142. All’incirca all’epoca in cui Piero eseguiva il suo magico doppio ritratto, Piero di Cosimo dipinse il dittico con Francesco Giamberti da San Gallo e il figlio Giuliano, sullo sfondo di un paesaggio che continua da una valva all’altra, come avviene nel dittico di Piero. Piero di Cosimo aveva fatto del paesaggio uno sfondo; i due volti di Piero della Francesca sono invece dentro il paesaggio.
Benché visti di profilo contro il cielo, sono trattati come solidi tridimensionali. Battista è rivolta alla luce, mentre il volto di Federico è in ombra. In ombra sono i monti più vicini a Federico, mentre, nella valva di Battista, l’ombra si attenua e invade le colline dietro di lei, per salire sino al limite d’un colle al di là del quale appare una città murata, di cui la luce radente rivela torri e campanili. È la stessa luce che s’insinua fra i cipressi e gli altri alberi della valle e del lago dietro Federico, e ora raggiunge il volto e il busto di Battista. Ne seguiamo il percorso mattinale nelle valli più lontane, dove ancora ristanno le nebbie.
Il confine dell’ombra coincide con il collare ingioiellato di Battista, dal quale scende una cascata di perle che si conclude sul busto della donna con un grosso gioiello. Sul collier della duchessa la luce è più brillante, come se una parte di lei fosse avvolta nella penombra. Oltre la città, la luce del primo mattino è sul punto d’invadere i campi e mettere in fuga le brume. L’aria del giorno nascente ha mosso appena la mussola di Battista, che ricade leggera dall’intreccio complesso di nastri e di capelli. Il volto immobile si offre alla nuova luce trattenendo ogni emozione; appena un leggero infossamento alla tempia interrompe la sua superficie d’avorio. La brezza leggera ha sollevato qualche capello biondo rivelandolo alla luce; poi, scendendo, troviamo che le perle che adornano la donna brillano come lontane finestre raggiunte dai raggi radenti.
Piero ha dunque dato segni di vita a Battista e pietrificato il ritratto del duca. Benché non guardino che davanti a sé, Battista e Federico si trovano in un luogo elevato che si affaccia su di un ideale Montefeltro. Come avviene nella pittura di Piero, tutto è vero e tutto è inafferrabile. Invano cercheremmo nelle terre dei Montefeltro l’ubicazione del lago pacifico dove veleggiano i vascelli.
Le colline all’orizzonte sono azzurre, secondo una lezione appresa dai grandi maestri fiamminghi, quando ancora ben pochi, in Italia, avevano compreso il fascino della prospettiva aerea. Il punto di osservazione dell’amplissimo paesaggio è posto in alto e coincide con l’altezza degli occhi dei due protagonisti, con i quali siamo portati a immedesimarci.
Piero ha molto insistito sulla figura del duca. Ormai provetto nel trattare la pittura a olio, ne ha allargato il collo, che gli era parso esile, e ha ammorbidito i contorni nelle zone in ombra. Nella descrizione di Battista, non ha trascurato nessuna minuzia: si guardi l’orlo della mussola e l’affiorare della camicia contrassegnata da una fila di punti bianchi.
Piero aveva conosciuto Battista, ma non doveva avere con sé nessun suo ritratto. Le orbite incavate fanno pensare all’aiuto di una maschera mortuaria. Per Federico, usò invece, con minimi spostamenti, il disegno della pala di Brera143.
I due pannelli erano collegati da cerniere. All’interno erano i due ritratti e all’esterno apparivano i trionfi dei duchi (cat. 21b). Un parapetto di marmo, su cui sono iscritte le rispettive lodi, ci distacca dal terreno su cui sfilano i carri trionfali, trainati da due unicorni quello di lei e da due destrieri bianchi quello di lui. Cupido è al timone di entrambi i carri. Il trionfo che qui si celebra è un trionfo d’amore al di là della tomba.
Una Vittoria incorona il duca. In armatura completa, è seduto su di un seggio militare da campagna, uguale a quello su cui siede Battista, che è attorniata dalle Virtù e intenta a leggere un piccolo libro dalla copertina nera, evidentemente un breviario. Il carro della duchessa ha compiuto una leggera discesa per giungere alla grigia scogliera orizzontale su cui i carri corrono a incontrarsi, una striscia di roccia spianata al di là della quale si apre improvviso un altro paesaggio paragonabile a quello dei ritratti, ma forse ripreso a un’ora del giorno più inoltrata. Vediamo di nuovo il pacifico lago solcato dalle barche con il vento in poppa; un’isola sorge al suo centro.
Nel pannello di Federico, la collina si rispecchia perfettamente nelle acque, mentre in quello di Battista abbiamo solo l’inizio della sponda. Qui il paesaggio è più descritto, in emulazione con l’esattezza topografica che dimostra Alesso Baldovinetti nell’affresco del chiostro dell’Annunziata, eseguito già nel 1460-1462. Lo stimolo della pittura fiamminga si univa agli studi geografici fiorentini e alla riscoperta di Tolomeo.
Ancora alle commesse di Federico, o della sua stretta cerchia, ci rimanda un’altra magica opera in cui Piero conferma la propria autonomia dai modelli fiamminghi e al tempo stesso il desiderio di confrontarsi con loro e vincerli.
È molto probabile che la Madonna di Senigallia (cat. 22) risalga al 1474 o al 1478 e che sia stata commissionata, forse da Federico, in occasione delle nozze di Giovanna da Montefeltro, terzogenita di Battista Sforza, con Giovanni della Rovere. Le nozze pro forma ebbero luogo nel 1474, quelle effettive nel 1478144.
Sono passati all’incirca cinque anni dal dittico dei duchi e la tavola è destinata ai della Rovere, che da tempo raccolgono dipinti fiamminghi. Urbino è occupata da Giusto di Gand e presto, se non già, accoglierà anche Pedro Berruguete, al quale Federico ha fatto mettere le mani sulla Pala Montefeltro di Piero. La grande pala del Corpus Domini di Giusto ignora tutto quanto è stato pensato e realizzato a Urbino.
Si presenta l’occasione di andare oltre quei pittori che «biasimano la prospettiva perché non intendono la forza delle linee». Per dipingere la tavola di Senigallia, Piero incominciò dalla scelta del legno. Non il pioppo dei quadri italiani, ma il noce. Stese una preparazione sottilissima e stemperò i colori in un legante resinoso.
Superando ogni esempio italiano, ma ancora memore della Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi dove la Vergine si trova all’interno di una stanza145, Piero dipinse la Madonna col Bambino a mezza figura in una stanza tra due angeli. Dipingendo la Pala Montefeltro (cat. 17), si era reso conto della necessità che le figure posassero molto lontane, per essere incluse in modo naturale nell’architettura di un luogo chiuso. Sul muro di fondo, si apre una porta al di là della quale s’intravede una seconda stanza rischiarata da una finestra.
Anni or sono, capire la profondità della stanza in cui sono la Vergine col Bambino e gli angeli fu questione di attenta osservazione a occhio nudo146. Oggi la Soprintendenza ci offre un modello ricostruttivo convincente e perfetto, con un solo errore147. I vetri della camera della Madonna non sono composti di dischetti, bensì di lastre quadrate, come appare nei grafici di M. Bucci relativi alle condizioni del dipinto148. Questa differenza è importante per comprendere il complesso ragionamento con cui Piero è arrivato a darci un saggio miracoloso della sua capacità di operare con la luce.
Subito al di là della porta, in corrispondenza con la sommità dell’ala dell’angelo, si profila la parete della finestra della seconda stanza, una finestra incassata nel muro. Subito dopo, un’alta striscia bruna rappresenta uno scuro aperto. Immediatamente dopo, un’altra striscia orizzontale corrisponde al telaio della finestra. La luce del giorno si frange nelle lamelle della persiana chiusa e penetra obliqua nella stanza, i vetri riflettono in bruni trapezi il legno dello scuro, esattamente ritratto con le sue venature.
Tutto è dentro una logica rigorosa. Capirla ha richiesto particolare attenzione in collaborazione con le restauratrici man mano che l’ultima pulitura avanzava e si scopriva, per esempio, lo zampetto di ermellino nella fodera di pelliccia del manto della Vergine. Un piccolo indizio per attribuirle la maestà d’una regina.
Resa obliqua dalla direzione delle lamelle della persiana, la luce incontra il pulviscolo sollevato dalla finestra aperta e suscita l’inedito spettacolo degli infiniti punti luminosi danzanti nell’aria. Gli angeli, uno in vesti turchine di paggio della corte borgognona, l’altro con un classico peplo rosa, l’uno decisamente maschile, l’altro pronunciatamente femminile, hanno funzioni diverse. A guardia della porta della stanza verginale di Maria l’uno, e in ammirazione del Bambino l’altro, o l’altra. Come nella Madonna di Williamstown (cat. 16), il Bambino porge una rosa e benedice con la solennità di Gesù nei rilievi d’un sarcofago del IV secolo.
Ancor più che nel dittico, Piero è attento ai particolari dell’abito, ma li tratta con estrema delicatezza, con un pennello morbido che dà risalto ai lumi. Lascia ai contorni un po’ d’imprimitura visibile, ma ancora non ha pieno dominio del mezzo nelle parti scure del manto della Vergine, dove il legante si è asciugato troppo presto. Come sempre, negli scuri Piero usa colori organici che richiedono più legante che, asciugandosi, si frange in un cretto vistoso.
La parte lignea del grande polittico destinato alla chiesa degli agostiniani al Borgo (cat. 20), per il quale Piero firmò il contratto il 4 ottobre 1454, era costituita da quelle stesse tavole che Piero aveva ingessato, come collaboratore di Antonio d’Anghiari, vent’anni prima. Già allora l’intelaiatura lignea era apparsa inadeguata al confronto con il grande polittico dipinto su due facce che Sassetta fece venire da Siena nel 1444.
Tanto più vent’anni dopo a Piero dovette apparire gravoso intervenire su di una struttura gotica. Non si mise subito all’opera – ciò era previsto nel contratto, che accordava al pittore un tempo assai lungo – e poiché fu pagato a più riprese nel corso del 1469, siamo in anni assai vicini alla pala di Brera (cat. 17) e certo dopo gli affreschi di Arezzo, dei quali anzi Piero si è compiaciuto di rievocare almeno l’Annunciazione (ma con Maria seduta su di un trono marmoreo) sul manto di sant’Agostino (cat. 20a) mentre, nella Crocifissione della predella (cat. 20h), ha richiamato diversi spunti delle due battaglie. Il collarino di seta tempestato di pietre e perle indossato dall’arcangelo Michele (cat. 20b) sembra preso nel guardaroba di Urbino e il San Giovanni Evangelista della collezione Frick (cat. 20c) è degno compagno dei santi della pala di Brera.
L’impegno era enorme. Secondo l’ultima ricostruzione, si trattava di dipingere otto pannelli principali, una predella con sette scomparti, infine i contrafforti149. Ci sono giunti soltanto i quattro pannelli maggiori e quattro comparti della predella, quello centrale con la Crocifissione (cat. 20h) e tre con santi a mezza figura (cat. 20e, 20f e 20g). Il pannello centrale, con la Madonna in trono, è perduto.
Anche la struttura gotica è perduta e ciò c’impedisce di sapere come Piero vi avesse reagito. Nei pannelli con i santi, egli rinunciò al fondo oro della tradizione e pose le sue quattro figure monumentali con le spalle verso il cielo, da cui li separa un parapetto di marmo spartito da lesene e con una classica cornice a palmette. I parapetti dovevano dare l’impressione che i santi si affacciassero tutti al di là di un portico aperto sul cielo. Anche il trono della Vergine era unito alla loro schiera. Il fondo oro Piero lo riservò alla predella, ma nella Crocifissione inserì la sorpresa dei monti lontani resi celesti dalla prospettiva aerea, in anticipo su quanto ci darà nel dittico dei duchi.
Ancora Piero ci sorprende con il dipinto suo più inatteso, la Natività150 (cat. 23). La prima domanda è se le lacune indichino che la pittura non fu finita o se invece si tratti di danni dovuti a un incauto restauro. Ma la bruciatura d’una candela, in basso, attesta che la tavola fu posta su di un altare, e che dunque doveva essere finita151. La seconda domanda è in che rapporto stia con la più celebre Natività fiamminga, quella del Trittico Portinari di Hugo van der Goes, giunto a Firenze nel 1482. Che il dipinto di Piero sia in relazione con un modello fiammingo è assai probabile, ma non si trattò solo del Trittico Portinari, bensì di un esempio prossimo a van der Weyden che poteva aver conosciuto grazie a Filippo Lippi. Dallo scomparto centrale del trittico dipinto da Rogier van der Weyden per Pieter Bladelin verso il 1445, che ispirò diversi pittori neerlandesi152, discende anche la Natività che Filippo Lippi dipinse per la cappella di Palazzo Medici e che è ora alla Gemäldegalerie di Berlino. Anche Filippo si ispirò alla visione che santa Brigida scrisse di aver avuto a Roma nel 1370 che tanto influenzò la pittura fiamminga, e dunque dipinse un’Adorazione del Bambino, posato da Maria accanto o sopra il manto. Nella Natività la citazione di Filippo si limita al contenuto della visione, mentre la concezione del dipinto è assolutamente fiorentina.
Come nel Trittico Portinari, nel dipinto di Piero una grande distanza separa gli attori dalla cornice. Un viottolo tracciato dai carri in mezzo a rade erbe di campagna occupa lo spazio lasciato libero e, con altre curve che si scorgono a destra, malgrado le energiche puliture subite dal dipinto, chiude la scena in un cerchio. La stalla è un rudere coperto da una tettoia provvisoria, senza allusioni alla vecchia sinagoga, né, come fa Domenico Ghirlandaio nel 1485 nell’Adorazione dei Magi degli Innocenti, al mondo romano. I due pastori non sono tipi caratteristici presi dalle campagne, ma ritratti, come probabilmente è un ritratto san Giuseppe. Colpisce soprattutto la Vergine Maria, volto delicato e vero, del tutto al di fuori dell’iconografia tradizionale, l’unico vero ritratto senza condizionamenti in tutta la carriera di Piero. Tanto che si sarebbe tentati a credere che lei, con i tre uomini, facesse parte della sua famiglia. Sul tetto del riparo si nota una gazza, ovvero una ‘pica’, animale araldico dei Pichi di Sansepolcro e appunto a Paolo di Meo Pichi era andata sposa la nipote di Piero, Romana, nel 1480153.
È stato notato che Piero ha qui rinunciato alle esibizioni prospettiche di altri suoi dipinti, ma la scena è studiatamente calibrata. Spartita in zone orizzontali, ben definite dalla grande tettoia di legno invasa dalla luce, ha chiuso l’orizzonte, ma due squarci di paesaggio rivelano l’uno, al di là di una collina, il Borgo, visto dalla parte del Canto dei Graziani dove si trovava la casa di Piero. L’altra apertura è sull’alta valle del Tevere, descritta con accuratezza topografica.
Come sempre, il paesaggio italiano è visto dall’alto, al contrario di quanto avviene nella pittura fiamminga.
Gli angeli musici sono vestiti di peplo leggero nella tradizione all’antica, hanno però gioielli degni della corte dei Montefeltro e dietro di loro sono altri angeli cantori, ingioiellati e con indosso le vesti liturgiche della tradizione fiamminga. Sono cugini degli angeli della Pala Montefeltro.
Come ha detto giustamente Marilyn Aronberg Lavin, è questa l’unica occasione in cui il reticente Piero ci parla apertamente di sé e dei propri affetti.
L’affresco di Ercole, ora nel museo Isabella Stewart Gardner di Boston (cat. 18), è un’eccezione nel catalogo di Piero. È il solo suo dipinto di soggetto profano, a parte i ritratti.
Siamo nella casa che l’artista ha acquistato, per sé e per i fratelli, nel 1465. Il giovane dio si presenta in cima alla scala che ha salito senza affanno e che è suggerita dalla rapida discesa delle travi dipinte dietro di lui. Brandisce la clava verso il basso, appoggia orgogliosamente il pugno al fianco. Questo Ercole giovane, ricciuto come era stato Piero in gioventù, non minaccia. Ha già combattuto e vinto, come indica la clava rivolta in basso, nella stessa posa della statua di bronzo dorato di Ercole Vittorioso scavata al Foro Boario al tempo di Sisto IV (1471-1484), così bella «che par di man di quel che fece Adamo»154. Piero poté non averla mai vista, ma ne poté conoscere il tipo in un aureo di Traiano che la riproduce. Una antica tradizione vuole che l’Ercole nella casa di Sansepolcro ricordasse la patria della madre di Piero e dei suoi fratelli, Monterchi, latinizzato in Mons Herculis. Non ne dubito. Piero celebra in modo nuovo il paesaggio natale. Non più santificandolo ma trovandovi le radici mitiche più antiche e, forse, riunendo la famiglia nella memoria materna. L’affresco risale evidentemente a dopo il 1459, l’anno in cui la morte della madre costrinse Piero a lasciare Roma. L’affresco è stato tagliato poco sotto i polpacci. Non sappiamo a che altezza si trovasse né come fosse la cornice della porta sulla cui soglia Ercole appare. Egli è davvero un’apparizione poiché la sua agile figura non è vista di scorcio, nonostante la fuga delle travi alle sue spalle.
Il volto dell’eroe ci ricorda Piero giovane, ed è stato supposto che si opponesse ad un altro ritratto del maestro, celebrato come matematico, secondo un dipinto di Santi di Tito155.
All’entrata nel settimo decennio del secolo, Piero non era certamente più così giovane come quel dio ragazzo, elegantemente agghindato nella pelle di leone portata come un corto mantello, che guarda davanti a sé sicuro della vittoria.
Sotto questo nume, Piero avrebbe trovato il rifugio dei suoi ultimi anni e il coraggio per affrontare l’ultimo certame geometrico. Intorno al 1460, con l’apparizione dell’astro del Pollaiolo, Firenze era cambiata. Un eventuale dipinto di Piero vi sarebbe apparso come cosa d’altri tempi.
Ciò non doveva accadere con il trattato sulla prospettiva, stampato per la prima volta a Strasburgo nel 1899, ma la cui circolazione raggiunse Francesco di Giorgio, Serlio, Daniele Barbaro, Vignola. Vi fu un’attualità di Piero che andò oltre la sua pittura.
L’abbandono da parte di Federico, dopo il 1472, poté ferirlo, ma la dedica del Libellus de quinque corporibus regularibus a Guidobaldo, quindi dopo il 1482, prova un tenace attaccamento a Urbino e il desiderio di continuare ad essere presente in quella biblioteca umanistica cui aveva già donato il trattato sulla prospettiva. Ovviamente in una traduzione latina. Il volgare non sarebbe stato gradito in una biblioteca aristocratica che aveva messo al bando i libri stampati.
La premessa del trattato era che la pittura è dimostrazione di cose vedute messe in prospettiva. I problemi di cui Piero si occupava in tarda età, esposti nel trattato sui cinque solidi regolari, erano di pura geometria, indipendenti dalla rappresentazione. Luca Pacioli recava con sé, nelle sue peregrinazioni didattiche, alcuni esempi realizzati di solidi e si fece rappresentare da Jacopo dei Barbari con un dodecaedro di cristallo riempito d’acqua sino al diametro orizzontale. Attraverso Luca Pacioli, i corpi regolari arrivarono a Leonardo, che ne fece un problema di raffigurazione.
1 J.R. Banker, The culture of Sansepolcro during the youth of Piero della Francesca, Ann Arbor 2003, pp. 128, 136 e sgg; Id., Documenti fondamentali per la conoscenza della vita e dell’arte di Piero della Francesca, Selci-Lama 2013.
2 Id., Piero e i suoi libri a Sansepolcro, in Piero della Francesca e le corti italiane, a cura di C. Bertelli e A. Paolucci, catalogo della mostra, Arezzo 2007, p. 9; Id., The culture, cit., p. 192 e sgg. Il codice di mano di Piero è il Ricc. 106 (Archimede, Trattati) della Biblioteca Riccardiana di Firenze.
3 Id., The culture, cit., p. 192 e sgg.
4 C. Frosinini, Botteghe in Camaldoli (dal Catasto 1427), in Da borgo medievale a piazza: vicende urbanistiche dell’attuale piazza Tasso, a cura di G.P. Trotta, Firenze 1990, p. 92, cat. 8.
5 J.R. Banker, Piero della Francesca: gli anni giovanili e l’inizio della sua carriera, in Città e corte nell’Italia di Piero della Francesca, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Urbino 1992), a cura di C. Cieri Via, Venezia 1996, pp. 85-96, a p. 87.
6 J.V. Field, Piero Della Francesca: a mathematician’s art, New Haven 2005.
7 P. Manni, Sulle coloriture linguistiche del «De prospectiva pingendi», in Piero della Francesca tra arte e scienza, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Arezzo e Sansepolcro, 8-11 ottobre 1992), a cura di M. Dalai Emiliani e V. Curzi, Venezia 1996, pp. 207-221.
8 M. Mazzalupi, in A. Di Lorenzo et al., La Badia di Sansepolcro nel Quattrocento, Selci-Lama 2012, pp. 29, 96 (docc. 27, 28).
9 Ibid., p. 97, doc. 33 (8 gennaio 1438).
10 Sassetta. The Borgo San Sepolcro altarpiece, a cura di M. Israëls, Firenze 2009.
11 Ibid., docc. X, XII.
12 In una posizione subalterna, collaborava all’impresa anche Bicci.
13 H. Wohl, The paintings of Domenico Veneziano, c. 1410-1460. A study in Floren- tine art of the early Renaissance, New York-Oxford 1980, pp. 200-205, 341.
14 Ibid., pp. 200-205, 341. Uno Sposalizio della Vergine attribuito a Francesco Bot- ticini, nella collezione Berenson, potrebbe essere ispirato all’affresco di Domenico.
15 J. Lauts, A note on Piero della Francesca’s lost Ferrara frescoes, in «The Burlington Magazine», XCV, 1953, pp. 166-169; A.K. Loss, The black figure in the Baltimore copy of Piero della Francesca’s lost Ferrara frescoes, in «L’arte», I, 1968, pp. 99-106; M. Salmi, La pittura di Piero della Francesca, Novara 1979, pp. 40-50.
16 D. Cordellier, Le peintre aux sept vertus, in Id., Pisanello, le peintre aux sept vertus, catalogo della mostra, Paris 1996, pp. 195-199. Se Niccolò III ebbe questo progetto, dovette essere abbandonato da Lionello.
17 C. Eisler, The genius of Jacopo Bellini: the complete paintings and drawings, New York 1989, pp. 38-43, 531. La competizione fu vinta da Iacopo Bellini e fu celebrata in una poesia dell’Aleotti, riprodotta da Eisler.
18 M. Salmi, Piero della Francesca e Giuliano Amedei, in «Rivista d’arte», XXIV, 1942, pp. 26-44; J.R. Banker, in Ripensando Piero della Francesca. Il polittico della Misericordia di Sansepolcro, a cura di M. Betti et al., Firenze 2010, pp. 15-30.
19 A. De Marchi, Identità di Giuliano Amadei miniatore, in «Bollettino d’arte», LXXX, 93-94, 1995, pp. 119-158, specialmente p. 120 e passim. Resta misterioso come il disegno dell’apparizione di Cristo alla Maddalena sia giunto a Barthélémy d’Eyck che lo adottò nel trittico di Aix (cfr. C. Bertelli, Piero della Francesca: la forza divina della pittura, Milano 1991, pp. 13-15, 174).
20 A. Uguccioni, Ritratti e autoritratti: alla ricerca del vero volto di Piero della Francesca, in Piero della Francesca, incontri del Dizionario Biografico degli Italiani (28 aprile 1993), in «Cultura e scuola», 134, Roma 1995, pp. 155-163.
21 Pittori ad Ancona nel Quattrocento, a cura di M. Mazzalupi e A. De Marchi, Milano 2008, pp. 224-228.
22 A. Venturi, Storia dell’arte italiana, VII, 1, Milano 1911, pp. 473-474; VII, 2, Milano 1913, pp. 246-255. Per la capigliatura, vedi anche ibid., VII, 1, p. 433 e cfr. P. Toesca, s.v. Piero della Francesca, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere e Arti, XXVII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1935, pp. 208-213. Nella stessa predella, la Visitazione orienterebbe invece verso Vecchietta. Venturi definiva il pittore «probabilmente senese».
23 Pittori ad Ancona, cit., pp. 225-226.
24 C. Volpe, Tre vetrate ferraresi e il Rinascimento a Bologna, in «Arte antica e moderna», I, 1958, pp. 23-37, ora in Id., La pittura nell’Emilia e la Romagna. Raccolta di scritti sul Trecento e il Quattrocento, a cura di D. Benati, L. Peruzzi, Modena 1993, pp. 152-168.
25 J.R. Banker, Soluzione di uno degli enigmi della «Flagellazione» di Piero della Francesca, in Piero della Francesca, incontri, cit., pp. 20-31; C. Martelli, La cappella di Jacopo Anastagi e l’affresco di Bartolomeo della Gatta, in A. Di Lorenzo et al., La Badia, cit., pp. 45-71.
26 G. Centauro, E. Settesoldi, Piero della Francesca. Committenza e pittura nella Chiesa di S. Francesco ad Arezzo, Poggibonsi 2000, p. 221, docc. 0027, 0028.
27 Per J. Pope-Hennessy, Sulle tracce di Piero della Francesca, Torino 1991, p. 15, Bicci avrebbe incominciato gli affreschi nel 1447, quando «l’ultimo contributo dei Bacci fu elargito», avrebbe abbandonato Arezzo nel 1448 e Piero gli sarebbe subentrato già nello stesso anno 1448, con interruzioni successive. C. Hope, Vasari’s «Vita» of Piero della Francesca and the date of the Arezzo frescoes, in Città e corte, cit., pp. 119-134; P. Refice, Arezzo, San Francesco: la «Leggenda della vera Croce» di Piero della Francesca. Qualche dato e alcune riflessioni, in «Millequattro- centododici-1492», VI, 2013, 1, pp. 63-78, ha tolto ogni dubbio sul fatto che il «dipintore» menzionato nel 1447 sia Piero.
28 E. Battisti, Piero della Francesca, II, Milano 1971, pp. 444-451.
29 C. Ginzburg, Indagini su Piero, Torino 1981, pp. 36-41.
30 M. Calvesi, Piero della Francesca, Milano 1998, pp. 82-94.
31 A.Warburg, Piero della Francescas Constantinschlacht in der Aquarellkopie des Johan Anton Ramboux, in L’Italia e l’arte straniera, Atti del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte in Roma (1912), Roma 1922, pp. 326-327; poi in Id., Gesammelte Schriften, I, Leipzig 1932, pp. 251-254.
32 R. Lightbown, La vita e le opere di Piero della Francesca nel Dizionario Biografico: problemi ancora aperti, in Piero della Francesca, incontri, cit., pp. 11-19.
33 G. Vasari, Le opere, ed. Milanesi, II, Firenze 1881, p. 492.
34 Pittura di luce. Giovanni di Francesco e l’arte fiorentina di metà Quattrocento, a cura di L. Bellosi, catalogo della mostra (Firenze), Milano 1990.
35 A. Pinelli, Esercizi di metodo: Piero e Benozzo a Roma, tra cronologia relativa e cronologia assoluta, in Benozzo Gozzoli. Viaggio attraverso un secolo, Atti del Convegno Internazionale su Benozzo Gozzoli (Firenze-Pisa 1998), a cura di E. Castelnuovo, A. Malquori, Pisa 2003.
36 P. Di Benedetti, La cappella d’Estouteville in Santa Maria Maggiore a Roma, in Benozzo Gozzoli, allievo a Roma, maestro in Umbria, a cura di B. Toscano, G. Capitelli, Milano 1998, pp. 238-245, con bibliografia.
37 F. Mancinelli, G. Colalucci, in «Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontifici», IV, 1983, pp. 101-110; Santa Maria Maggiore a Roma, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1988, p. 201.
38 V. Valerio, Piero e gli astri. Il primo cielo stellato della pittura occidentale, in Piero della Francesca e le corti, cit., pp. 81-86, con l’ipotesi che si riferisca alla ricorrenza della vittoria di Costantino. In realtà la battaglia di Ponte Milvio avvenne il 28 ottobre 312 e non, come si sostiene, il 27 ottobre 313. Pio II si recò ad Ancona, per la crociata, il 18 giugno 1464.
39 Per tutta la complicata questione della data degli affreschi di Tavernelle, già segnalati da Battisti, rinvio ad A. Pinelli, Esercizi di metodo: Piero e Benozzo a Roma, tra cronologia relativa e cronologia assoluta, in «Ricerche di storia dell’arte», LXXVI, 2002, 4, pp. 7-30, con relativa bibliografia.
40 G. Centauro, E. Settesoldi, Piero della Francesca: committenza e pittura nella chiesa di S. Francesco ad Arezzo, Poggibonsi 2000, p. 242, doc. 0054. Cfr. A. Pinelli, Esercizi, cit., pp. 29-30, nota 32.
41 L. Berti, Nel raggio di Piero. La pittura nell’Italia Centrale nell’età di Piero della Francesca, Venezia 1992.
42 C.L. Frommel, Francesco del Borgo, Architekt Pius II und Paulus II, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», XX, 1983, pp. 108-154; XXI, 1984, pp. 129-138; P.N. Pagliara, s.v. Francesco di Benedetto Cereo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, pp. 692-696.
43 J.R. Banker, Piero e i suoi libri, cit., p. 9.
44 M. Clagett, Archimedes in the Middle Ages, III, Philadelphia 1978, pp. 392-394.
45 Vedi supra.
46 J. Höfler, Maso di Bartolomeo e la sua cerchia a Urbino: il portale di San Domenico e il primo palazzo di Federico da Montefeltro, in Michelozzo scultore e architetto (1396-1472), Atti del Convegno Internazionale (Arezzo e Firenze 1996), a cura di G. Morolli, Firenze 1998, pp. 249-255, in cui l’autore ha così ricostruito le vicende del portale: il suo maestro principale, Maso di Bartolomeo, soggiornò a Urbino tra il 1449 e il 1451, ma dopo il 1449 vi fu un’interruzione nei lavori, ripresi nel 1454.
47 Fra Carnevale: un artista rinascimentale da Filippo Lippi a Piero della Francesca, a cura di M. Ceriana et al., catalogo della mostra, Milano 2004, pp. 258-267. P. Dal Poggetto, Il punto sul «Maestro delle Tavole Barberini», in I da Varano e le arti a Camerino e nel territorio, Atti del Convegno (Camerino, 4-6 ottobre 2001), a cura di P.L. Falaschi, II, Recanati 2003, pp. 747-765; l’autore ritiene che le tavole Barberini provengano dal palazzo e non da Santa Maria la Bella, di conseguenza farebbe cadere la certezza sulla loro data.
48 E. Daffra, Urbino e Piero della Francesca, in Piero della Francesca e le corti, cit., pp. 53-67.
49 M. Mazzalupi, in A. Di Lorenzo et al., La Badia, cit., pp. 20-23.
50 F. Dabell, riassunto in Fra Carnevale: un artista, cit., p. 274.
51 R.W. Kennedy, Alesso Baldovinetti, New Haven 1938, pp. 101-103, 218- 219, n. 234.
52 E. Battisti, Piero, cit., ed. 1971 e 1992, docc. CCX e CCXI.
53 M. Salmi, La pittura di Piero, cit., pp. 187-190, con riferimento ad articoli precedenti.
54 A. Bruschi, Osservazioni sulle architetture dipinte di Piero della Francesca, in Piero della Francesca, incontri, cit., pp. 102-125.
55 A. Uguccioni, Ritratti e autoritratti, cit.
56 C. Gilbert, The Hercules in Piero’s house, in «Artibus et historiae», XXII, 2002, pp. 107-116.
57 A. De Marchi, Antonio d’Anghiari e gli inizi di Piero, in Arte in terra d’Arezzo, Il Quattrocento, a cura di L. Fornasari, G. Gentilini e A. Giannotti, Firenze 2008, pp. 64-65. Cfr. C. Hope, Vasari’s «Vita», cit.
58 Esempio ne è la tabella pubblicata da M.A. Lavin, Monarca della pittura, in Piero della Francesca and his legacy, a cura di M.A. Lavin, Washington 1995, pp. 14-17: su dieci autori, ben pochi concordano.
59 C. Volpe, Tre vetrate ferraresi, cit., poi in Id., La pittura nell’Emilia, cit., pp. 152-156.
60 A. De Marchi, Antonio, cit., p. 64 e sgg.
61 M.F. Zimmermann, Die «Erfindung» Piero’s und seine Wahlverwandschaft mit Seurat, in Piero della Francesca and his, cit., pp. 269-302; Piero della Francesca e il novecento. Prospettiva, spazio, luce, geometria, pittura murale, tonalismo, 1920-1938, a cura di M.M. Lamberti et al., catalogo della mostra (Sansepolcro), Venezia 1991.
62 M. F. Zimmermann, Die «Erfindung», cit., pp. 293-295; C. Elam, Roger Fry and the re-evaluation of Piero della Francesca, New York 2004.
63 C. Wilmer, Ezra Pound’s artists, in «Apollo», CXXII, 1986, pp. 312-313.
64 A. Brilli, Quando Piero e il suo museo apparvero agli occhi del mondo, in A. Brilli, F. Chieli, Piero della Francesca. Il Museo Civico di Sansepolcro, Milano 2002, pp. 47-57.
65 Y. Bonnefoy, La civiltà delle immagini, trad. it. Roma 2005, pp. 15-42, a p. 32.
66 Così nella successiva edizione inglese di B. Berenson, Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, Firenze 1950 (nuova ed. Milano 2007), mentre in quella italiana, che precede, «ammirazione universale» mi sembra assai meno efficace.
67 J. Pope-Hennessy, Sulle tracce di Piero, cit.
68 Mutuo questa espressione dal libro di S. Alpers, The art of describing: Dutch art in the seventheenth century, Chicago 1983 (trad. it. Torino 1999).
69 P.G. Grendler, What Piero learned in school, in Piero della Francesca and his, cit., pp. 161-174.
70 L.B. Alberti, De pictura, a cura di C. Grayson, Bari 1971, p. 32.
71 P. Toesca, s.v. Piero della Francesca, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere e Arti, XXVII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1935, pp. 208-213.
72 Pittura di luce, cit.
73 A. Di Lorenzo, Regesto fiorentino, in Fra Carnevale: un artista, cit., pp. 292 e 295.
74 Filippo Lippi entrò nel convento del Carmine nel 1421. Fino al 1431 fu il solo pittore carmelitano. L’affresco distaccato che rappresenta il conferimento della regola era quasi contiguo a quello perduto di Masaccio con la Sagra (K. Christiansen, New light on the early work of Filippo Lippi, in «Apollo», CXXII, 1985, pp. 338-343).
75 C. Frosinini, in Ripensando Piero della Francesca. Il Polittico della Misericordia di Sansepolcro, a cura di M. Betti et al., Firenze 2010, pp. 189-202.
76 J.R. Banker, The culture, cit., pp. 225-236; F. Polcri, Piero della Francesca e il suo ambiente culturale e sociale, in Piero della Francesca e le corti, cit., pp. 238-243, a p. 241.
77 R. van Marle, The development of the Italian schools of painting, L’Aja 1923-1938, X, pp. 1-83.
78 F. Ames-Lewis, Filippo Lippi and Flanders, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», XLII, 1979, pp. 265-273; P. Nuttall, From Flanders to Florence. The impact of Netherlandish painting 1400-1500, New Haven-London 2004, pp. 20-21.
79 M. Mazzalupi, «Uno se parte dal Borgo … e va ad Ancona». Piero della France- sca nel 1450, in «Nuovi Studi», XI, 2006, 12, pp. 37-54; M. Mazzalupi, A. De Marchi, Pittori ad Ancona, cit., p. 66.
80 A. Di Lorenzo, in Il Quattrocento a Camerino, a cura di A. De Marchi, A. Giannatiempo Lòpez, catalogo della mostra (Camerino), Milano 2002, pp. 192-197.
81 A. Venturi, Storia dell’arte italiana, I, La pittura del Quattrocento, Milano 1911, pp. 434-436.
82 P.G. Pasini, Piero e i Malatesti: l’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole, Cinisello Balsamo 1992, pp. 52-85.
83 La prima sacra conversazione che conosciamo era stata dipinta da Bicci di Lorenzo nel 1423 per San Niccolò Oltrarno: S. Padovani, Appunti su alcuni dipinti quattrocenteschi di San Niccolò Oltrarno, in Studi di storia dell’arte in onore di Mina Gregori, a cura di M. Boskovits, Milano 1994, pp. 39-46; C. Maisonneuve, Florence au XV e siècle. Un quartier et ses peintres, Paris 2012, pp. 25-26.
84 C. Frosinini, in Ripensando Piero della Francesca, cit.
85 Conferenza di R. Bellucci e C. Frosinini al Courtauld Institute of London, del 1997, citata da J.V. Field, Piero della Francesca’s perspective treatise, in The treatise on perspective, published and unpublished, a cura di L. Massey, New Haven 2003, p. 75, n. 21.
86 A.M. Maetzke, Introduzione ai capolavori di Piero della Francesca, Cinisello Balsamo, pp. 102-109.
87 Vedi nel cap. La vita.
88 Nel ciclo di Firenze, la composizione di Elena che porta la Croce è assai simile a quella di Eraclio nel ciclo di Arezzo, per cui non siamo sicuri se Bicci avesse dovuto dipingere qui Elena anziché Eraclio.
89 C. Ginzburg, Indagini, cit., pp.15-49, specialmente p. 34 e sgg.
90 C. Maisonneuve, Florence, cit., p. 236.
91 Il disegno del turbante è semplificato rispetto a quello che compare nella Flagellazione.
92 Pittura di luce, cit., p. 14. Su questo punto si è accesa una diatriba con Carlo Ginzburg. Vedasi A. Pinelli, In margine a «Indagini su Piero» di Carlo Ginzburg, in «Quaderni storici», XVII, 50, 1982, pp. 692-701 e la risposta di C. Ginzburg, Mostrare e dimostrare. Risposta a Pinelli e altri critici, in «Quaderni storici», XVII, 50, 1982 pp. 702-727.
93 M.A. Lavin, in Piero della Francesca. La leggenda della Vera Croce in San Fran- cesco ad Arezzo, a cura di A.M. Maetzke, C. Bertelli, Milano 2001, pp. 27-38.
94 R. Lightbown, Piero della Francesca, London 1992, p. 157.
95 Non saprei dare un nome a questo personaggio ammantato che certo non si confonde con i primi uomini. Nella celebre croce dei Cloisters (vedi il catalogo della mostra alla Biblioteca Marciana, Il re dei confessori: dalla croce dei Cloisters alle croci italiane, Milano 1984, p. 69) la frase di Paolo in Gal. 3, 13: «maledictus omnis qui pendet in ligno» è interpretata come un riferimento alla Crocifissione, ma deriva da Deut. 22, 23 e il nostro profeta non è certamente Mosè, autore del Deuteronomio.
96 O. Pächt, A. Campana, Giovanni da Fano’s illustrations for Basinio’s epos Hesperis, in «Studi romagnoli», II, 1951, pp. 91-101.
97 La data è stata interpretata come ricorrenza centenaria della battaglia di Ponte Milvio, che avvenne però il 28 ottobre 312.
98 In San Nicola a Lanciano, in un ciclo ispirato alla leggenda, è introdotto Co- stantino: C. Bertelli, Rileggendo Longhi a proposito d’Arezzo, in «Paragone», LX, 2009, 86 (713), pp. 3-14.
99 Per esempio, Petrus Christus, Sant’Eligio, New York, Metropolitan Museum, datato 1449.
100 A. Warburg, Piero della Francescas Constantinschlacht, cit., pp. 326-327 (poi in Id., Gesammelte Schriften, I, Leipzig 1932, pp. 251-254).
101 Il Rinascimento a Urbino: Fra’ Carnevale e gli artisti del Palazzo di Federico, a cura di A. Marchi e M.R. Palazzi, catalogo della mostra (Urbino), Milano 2005, con bibliografia; S. Ronchey, L’enigma di Piero: l’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Milano 2006, con bibliografia; B. Roeck, Mörder, Maler und Mäzene: Piero della Francescas «Geißelung»; eine kunsthistorische Kriminalgeschichte, München 2006 (trad. it. Piero della Francesca e l’assassino, Torino 2007), con bibliografia.
102 C. Martelli, in La città ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello, a cura di A. Marchi, M.R. Valazzi, catalogo della mostra (Urbino), Milano 2012, p. 218.
103 Il Rinascimento a Urbino, cit., n. 48, pp. 183-184.
104 Pietro completa così il Salmo: «adversus Dominum et adversus Christum eius. Convenerunt enim […] Herodes, et Pontius Pilatus, cum gentibus et populis Israel». L’iscrizione fu letta da J.D. Passavant nel 1823 che la vide «dabei», ovvero accanto, non dentro il dipinto.
105 C. Gilbert, Piero della Francesca’s Flagellation. The figures in foreground, in «The Art Bulletin», LIII, 1971, pp. 41-51.
106 Bonnefoy 2005, p. 32.
107 Tuttavia C. Gilbert, Piero della Francesca’s Flagellation, cit., p. 46: «the bare head signs his identity as a representative Jew».
108 Per il disegno del pavimento: R. Wittkower, B.A.R. Carter, The perspective of Piero della Francesca’s «Flagellation», in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1953, tav. 44.
109 K. Christiansen, For Fra Carnevale, in «Apollo», CIX, 1979, pp. 198-201; Piero, Urbino e le corti rinascimentali, a cura di P. Dal Poggetto, catalogo della mostra (Urbino), Venezia 1992; P. Dal Poggetto, Il punto sul «Maestro delle tavole Barberini», cit., pp. 747-765, basandosi su di una possibile identifica- zione con una tavola indicata nell’inventario Barberini del 1644 (M.A. Lavin, Seventeenth-century Barberini documents and inventories of art, New York 1975, p. 158) ritiene che le due tavole fossero nella collezione Barberini, negando così il rapporto con Santa Maria la Bella.
110 Bibliografia nella scheda di V. Garibaldi nel catalogo della mostra La città ideale, cit., pp. 156-161.
111 S. Ronchey, L’enigma, cit., pp. 79-81.
112 Per la bibliografia si veda la scheda di A. Marchi in Il Rinascimento a Urbino, cit.
113 J.V. Field, Piero Della Francesca: a mathematician, cit.
114 G. Pozzi, Maria tabernacolo, in «Italia medievale e umanistica», XXXII, 1989, pp. 263-326 (poi in Id., Sull’orlo del visibile parlare, Milano 1993, pp. 17-87).
115 Ch. de Tolnay, La Résurrection du Christ par Piero della Francesca, in «Gazette des Beaux-Arts», XCVI, 1954, pp. 35-40.
116 Ph. Pray Bober, R. Rubinstein, Renaissance artists and antique sculpture: a handbook of sources, London 1986, pp. 166-168.
117 G. Manieri Elia, scheda in Piero della Francesca e le corti italiane, catalogo della mostra, a cura di C. Bertelli e A. Paolucci, Arezzo 2007, pp. 196-199 (con ampia bibliografia e attento resoconto delle indagini).
118 Si vedano ora gli scritti in proposito raccolti in R. Longhi, Opere complete, II, Firenze 1961, sotto il titolo Piero e la pittura veneziana.
119 C. Gilbert, Change in Piero della Francesca, New York 1968, pp. 114-115.
120 S. Marinelli, Piero della Francesca e la pittura veneta, in Piero della Francesca tra arte e scienza, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Arezzo e Sansepolcro, 8-11 ottobre 1992), a cura di M. Dalai Emiliani, V. Curzi, Venezia 1996, pp. 437-453.
121 G. Manieri Elia, cit.
122 O. Pächt, La pittura veneziana del Quattrocento, Torino 2005, pp. 207-208, 221, è stato il più risoluto critico dell’accostamento di Piero alla pittura veneziana.
123 Nel 1991, in C. Bertelli, Piero della Francesca: la forza, cit., a p. 228, avevo manifestato molte perplessità a proposito di una tavola che non avevo visto che in fotografia e su cui avevano espresso dubbi Berenson, Meiss, Gilbert. Vederla alla mostra di Fra Carnevale nel 2004, bravamente esposta accanto alla pala di Brera, ha rimosso le mie incertezze.
124 M. Mazzalupi, in A. Di Lorenzo et al., La Badia, cit., pp. 39-40.
125 Fra Carnevale: un artista, cit., n. 47, pp. 272-277.
126 M. Ceriana, Fra Carnevale e la pratica dell’architettura, ibid., pp. 97-137, a pp.124-125.
127 A. Cinquini, Piero della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, in «L’Arte», XI, 1906, p. 56.
128 J. Shearman, The logic and realism of Piero della Francesca, in Festschrift Ulrich Middeldorf, Berlin 1968, pp. 181-182.
129 Dopo J. Shearman, The logic, cit., C. Bertelli, Piero della Francesca: la forza, cit., ed E. Daffra, F. Trevisani, La pala di San Bernardino di Piero della Francesca. Nuovi studi oltre il restauro, Firenze 1997.
130 A. Bruschi, Osservazioni sulle architetture, cit., pp. 102-125.
131 J. Shearman, The logic, cit., p. 182.
132 O. Pächt, Van Eyck, die Begründer der altniederländischen Malerei, a cura di M. Schmidt-Dengler, München 1989, pp.107-108.
133 C. Bertelli, Piero della Francesca: la forza, cit., p. 135.
134 M. Meiss, A documented altarpiece by Piero della Francesca, in «The Art Bulletin», XXIII, 1941, pp. 53-68; Id., Ovum struthionis, symbol and allusion in Piero della Francesca’s Montefeltro altarpiece, in Studies in art and literature for Belle da Costa Greene, Princeton 1954.
135 F.F. Mancini, «Depingi ac fabricari fecerunt quandam tabulam...»: un punto fermo per la cronologia del polittico di Perugia, in Piero della Francesca: il polittico di Sant’Antonio, a cura di V. Garibaldi, catalogo della mostra, Perugia 1993, pp. 23, 31.
136 P. Toesca, Piero della Francesca, cit.
137 E. Battisti, Piero della Francesca, ed. Milano 1992, I, pp. 325-335, II, pp. 530-536.
138 P. Toesca, Piero della Francesca, cit.
139 A. Bussi Dillon, Il «Dittico degli incontri» e altre opere urbinati, in «Paragone», LIX, 2008, s. 3, 80, pp. 20-39.
140 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura di P. d’Ancona, E. Aeschlimann, Milano 1951, p. 209.
141 G. Mulazzani, Observations on the Sforza triptych in the Brussels Museum, in «The Burlington Magazine», CXIII, 1971, pp. 252-253.
142 Domenico Ghirlandaio, Ritratto femminile, 1490, Williamstown, The Sterling and Francine Clark Art Institute.
143 R. Bellucci, C. Frosinini, in E. Daffra, F. Trevisani, La pala di San Bernardino, cit., pp. 167-183.
144 La luce e il mistero. La Madonna di Senigallia nella sua città, a cura di G. Barucca, Ancona 2011, pp. 33-34.
145 M. Meiss, Jan van Eyck and the Italian Renaissance, in Venezia e l’Europa, Atti del XVIII Congresso Internazionale di Storia dell’Arte (Venezia 1955), Venezia 1956, pp. 58-69.
146 C. Bertelli, «È un mattino d’estate», in La luce, cit., pp. 97-100.
147 J. Russo, La restituzione prospettica, ibid., pp. 145-148.
148 C. Mora, A. Soavi, F. Fumelli, Il restauro e la tecnica di esecuzione, ibid., pp. 107, 111.
149 Secondo la ricostruzione di A. Di Lorenzo (Il polittico agostiniano di Piero della Francesca, a cura di A. Di Lorenzo, Torino 1996). La ricostruzione di Salmi (M. Salmi, La pittura di Piero, cit., p. 117) non suppone un secondo ordine di grandi pannelli e colloca i santi a mezza figura in un secondo gradino.
150 C. Bertelli, Piero della Francesca: la forza, cit.; M.A. Lavin, Piero’s meditation on the Nativity, in The Cambridge companion to Piero della Francesca, ed. J. Wood, Cambridge 2002.
151 J.V. Field (Piero della Francesca: a mathematician’s, cit., p. 252) osserva che, se il dipinto avesse avuto un committente, Piero non avrebbe avuto difficoltà a trovare un aiuto che lo completasse per poterlo consegnare a chi l’aveva ordinato, invece il quadro rimase proprietà della famiglia. C. Bertelli, Una candela per Piero della Francesca, in «Paragone», XLII, 1991, pp. 62-69.
152 D. De Vos, Rogier van der Weyden, L’oeuvre complète, Paris 1999, n. 15; Le siècle de van Eyck. Le monde méditerranéen et les primitifs flamands 1430-1530, a cura di T.-H. Borchert, catalogo della mostra, Bruges 2002, n. 60, p. 247.
153 Fra Carnevale: un artista, cit., p. 274.
154 Antiquarie prospettiche romane, a cura di G. Agosti, D. Isella, Parma 2004, p. 85.
155 A. Uguccioni, Ritratti e autoritratti, cit.