Piero della Francesca
Il 'monarca della pittura' restituito al suo splendore
Il restauro de La Leggenda della Vera Croce
di Anna Maria Maetzke
7 aprile
Dopo un restauro durato quindici anni, torna visibile al pubblico, nella basilica di S. Francesco ad Arezzo, uno dei grandi capolavori del Rinascimento: il ciclo degli affreschi raffiguranti La Leggenda della Vera Croce, opera di Piero della Francesca. Il restauro, che ha rimosso i danni causati da un grave e progressivo degrado, è stato curato dalla Soprintendenza ai beni ambientali, architettonici, artistici e storici di Arezzo, diretta da Anna Maria Maetzke, con la collaborazione dell'Opificio delle pietre dure di Firenze.
La necessità dell'intervento di restauro
Il famoso ciclo pittorico raffigurante La Leggenda della Vera Croce, che Piero della Francesca dipinse in un periodo compreso tra il 1452 e, al più tardi, il 1466, rappresenta una delle più grandi espressioni artistiche di tutti i tempi, nota e amata in tutto il mondo. Se nel panorama dell'arte e della cultura del Rinascimento italiano la grande e complessa personalità di Piero della Francesca, che visse e operò negli anni centrali del Quattrocento, occupa un ruolo di assoluto protagonista, gli affreschi di Arezzo sono l'opera centrale di tutta la sua attività. Nel ciclo Piero esprime nella maniera più alta quelle caratteristiche della sua arte che ne fanno uno dei massimi maestri a livello universale.
Il restauro rende oggi possibile una nuova rilettura di tali caratteristiche che, nonostante l'ampio fiorire di studi in tutto il Novecento e fino ai giorni nostri, devono essere ancora molto approfondite, anche se forse non si riuscirà mai a cogliere al completo le innumerevoli implicazioni tra scienza, cultura e arte insite nella pittura dell'artista. Più si conosce e si ammira la sua capacità di fondere mirabilmente in una visione globale luce, colore e prospettiva spaziale, più se ne resta stupefatti, con la precisa consapevolezza della sua costante attualità. Non a caso Piero è uno dei grandi del passato che più ha interessato e continua a interessare gli artisti del nostro tempo: un fascino derivante dal fatto che egli non fu soltanto pittore, ma studioso e teorico insigne di scienze matematiche, di geometria, di ottica. Piero applicò queste conoscenze scientifiche nella sua rappresentazione della realtà naturale attraverso le regole della prospettiva, le cui possibilità di rendere sul piano la profondità e tridimensionalità dello spazio seppe dilatare al massimo.
Gli straordinari affreschi, patrimonio inestimabile dell'umanità intera, sono stati oggetto di uno dei restauri più impegnativi e complessi che si sono affrontati negli ultimi decenni del 20° secolo. Nessuno dei grandi capolavori recentemente restaurati, dagli affreschi di Masaccio alla basilica del Carmine di Firenze a quelli di Michelangelo nella Cappella Sistina, per citare i più famosi, presentava le complesse problematiche e una situazione di così drammatico degrado come il ciclo pittorico di Arezzo. I dipinti che coprono completamente le pareti della Cappella maggiore di S. Francesco erano infatti fortemente attaccati da una gravissima patologia - che peraltro è risultata solo la principale delle innumerevoli cause del loro progressivo deperimento -, cioè la 'solfatazione' che, nel tempo, avrebbe portato alla loro progressiva distruzione. È questo infatti il fenomeno più grave che possa mettere a repentaglio le pitture murali, in quanto provoca effetti di disgregazione delle superfici pittoriche, causati dalla cristallizzazione del gesso.
All'inizio degli anni Ottanta, trascorsi solo due decenni dall'ultimo restauro, eseguito da Leonetto Tintori, ancora con i metodi tipici dei suoi anni, artigianali ed empirici, il preoccupante offuscamento e in alcune zone la pulverulenza del colore, nonché le esfoliazioni della pellicola pittorica nelle zone dipinte a secco e i distacchi dell'intonaco, misero in allarme la Soprintendenza di Arezzo, responsabile della tutela e conservazione del patrimonio artistico di tutta la provincia, e quindi in particolare dei grandi capolavori di Piero, conservati oltre che nella città (affreschi di S. Francesco e la Maddalena nella Cattedrale), anche a Sansepolcro (Madonna della Misericordia e Resurrezione) e a Monterchi (Madonna del Parto).
Furono quindi effettuate indagini per conoscere a fondo le cause del deperimento degli affreschi, che aumentava progressivamente: ne risultò una diagnosi tale da rendere inevitabile e urgente la programmazione di un nuovo intervento. Fu subito inequivocabile la ricomparsa in forma virulenta della solfatazione. L'origine di questo fenomeno, accelerato in tempi recenti dall'inquinamento atmosferico, è antica per la plurisecolare incuria in cui è rimasta la cappella: abbondanti infiltrazioni di acque piovane penetravano sui dipinti dal tetto, dissestato, oltre che a causa della struttura muraria già precaria all'origine, dalla costruzione improvvida del campanile e da ripetuti terremoti.
Il primo restauro del Novecento - realizzato circa mezzo secolo dopo quello del 1856, eseguito dal pittore-restauratore Gaetano Bianchi e limitato a un veloce intervento di integrazione pittorica per le parti mancanti - fu curato intorno al 1911 da Umberto Tavanti per la struttura della basilica e dal restauratore Domenico Fiscali per gli affreschi. Esso fu caratterizzato da iniezioni di grandi quantità di cemento liquido non solo all'interno delle grandi lesioni per consolidare la muratura, ma anche direttamente dietro gli intonaci dipinti e distaccati. Il cemento utilizzato, però, immise nelle pareti grandi quantità di acque cariche di sali che innescarono ulteriormente il fenomeno della solfatazione. Successivamente, a causa dell'inquinamento, si determinò anche un accumulo su tutta la superficie di un notevole deposito di particellato di solfato formatosi nell'aria.
La gravità della situazione per la presenza della solfatazione era già ben chiara all'inizio degli anni Sessanta, quando si decise di intervenire nel tentativo di bloccarne l'azione distruttrice con i mezzi allora disponibili. Fu utilizzato un materiale da poco introdotto nelle tecniche di restauro, le resine sintetiche; purtroppo, però, tali polimeri non potevano risolvere il problema, perché non erano in grado di eliminare la causa del progressivo disfacimento degli intonaci dipinti, ma solo di tamponare il fenomeno.
Il rapporto costante tra scienza e restauro si instaurò pochi anni dopo, in occasione dell'alluvione di Firenze del 1966, che provocò gravissimi problemi di solfatazione sulle opere d'arte e in particolare sui dipinti murali. Per far fronte a tali danni si iniziò a sperimentare il metodo messo a punto da Enzo Ferroni dell'Università di Firenze, basato sull'uso dell'idrossido di bario come desolfatante, a integrazione dell'intervento con il carbonato di ammonio. Già nella prima fase di applicazione, questa metodologia consentì di salvare importantissimi affreschi fiorentini, come la grande Crocifissione
del Beato Angelico nella sala capitolare del convento di S. Marco a Firenze, affresco tuttora in perfetto stato di conservazione. Nel caso degli affreschi di Piero, le tipologie del degrado erano le più varie. Si può dire che tutti i mali che possono mettere in grave pericolo la conservazione degli affreschi erano presenti nel ciclo.
La fase dell'indagine preliminare
La situazione in cui versavano i dipinti di Arezzo rappresentava una grande sfida per i massimi esperti che si decise di coinvolgere per una prima, lunga fase, durata più di sei anni, di indagini preliminari a tutto campo, eseguite al fine di elaborare e predisporre un progetto di intervento con piena cognizione di causa, che fosse finalmente risolutivo. Tali ricerche a vastissimo raggio si sono indirizzate allo studio degli intonaci dipinti, individuandone le tecniche di esecuzione e le cause del degrado, all'analisi delle strutture murarie e dei loro problemi statici, dal momento della costruzione ai giorni nostri, e al rilevamento dei dati termoigrometrici, con sensori posti sulle pareti e nell'ambiente circostante.
È stata inoltre compiuta un'approfondita ricerca storica per conoscere tutto ciò che esiste di documentato sulle vicende della basilica e, in particolare, della Cappella maggiore e degli affreschi. È emerso che ripetuti terremoti nella prima metà del Quattrocento (Arezzo è zona sismica) dissestarono le pareti della Cappella ancora prima che Piero della Francesca vi dipingesse il suo capolavoro. L'artista, dunque, dovette stendere l'intonaco su pareti già lesionate: le stuccò, ma certamente queste rimasero zone a rischio. Nel Cinquecento, poi, la costruzione del campanile, eccessivamente pesante per murature così precarie, provocò ulteriori danni alla struttura muraria, causando abbondanti cadute di parti della scena raffigurante la morte di Adamo, nella lunetta superiore. Altri danni furono determinati da un fulmine e soprattutto dall'incuria di secoli, dovuta al totale disinteresse per il grande maestro di Borgo Sansepolcro; i documenti attestano che mancavano i fondi anche per l'ordinaria manutenzione. E ancora, nel periodo in cui la basilica fu sconsacrata e ridotta a usi profani, l'occupazione dei soldati napoleonici, intorno al 1800, fu la causa di ulteriori ferite inferte agli affreschi, già in condizioni precarie. Solo quando nacque un nuovo interesse per il sommo artista di Sansepolcro e fu riconosciuto il ruolo centrale della sua straordinaria personalità nell'arte del Rinascimento, ci si cominciò a interessare al risanamento del ciclo: ne derivarono i menzionati restauri del 1856 e del 1911.
La ricerca storica ha consentito l'acquisizione di notizie preziose, ma una completa e puntuale conoscenza del capolavoro, dal punto di vista della genesi, delle modalità di esecuzione, nonché delle tecniche usate dall'artista, si è potuta ottenere soltanto mediante le indagini eseguite con estremo scrupolo, centimetro per centimetro, su tutte le scene dipinte. Si sono potuti rilevare, a luce normale e radente, riportando poi i dati su una mappatura accurata, le 'giornate' di lavoro, le tecniche di trasferimento del disegno sull'intonaco (dallo 'spolvero' alla 'corda battuta' all''incisione'), le tecniche pittoriche e tanti altri dati relativi ai restauri passati. Inoltre, attraverso lo studio ai raggi infrarossi e ultravioletti delle superfici, documentato con opportune campagne fotografiche, e le conseguenti analisi stratigrafiche di campioni prelevati in aree mirate, si sono potute individuare, con assoluta certezza e precisione, le tecniche assai diverse usate da Piero per dipingere La Leggenda. A differenza di quanto si riteneva, cioè che il ciclo di Arezzo fosse stato dipinto tutto a 'buon fresco' o a tempera per i colori a base di rame, si è verificato che Piero è stato in grado di utilizzare sul muro anche le tecniche pittoriche normalmente in uso, al suo tempo, per la pittura su tavola. Le analisi chimiche stratigrafiche, che hanno garantito verifiche certe, sono state eseguite dal laboratorio scientifico dell'Opificio delle pietre dure di Firenze, che si è affiancato alla Soprintendenza di Arezzo con il suo apporto di grandissima esperienza e capacità operativa nel campo del restauro degli affreschi, sempre coniugando scienza e restauro: un rapporto fondamentale e imprescindibile per qualunque intervento di risanamento e di conservazione delle opere d'arte.
Le analisi eseguite hanno accertato dunque che Piero ha saputo usare con estrema disinvoltura e capacità tecnica materiali non compatibili con l'intonaco fresco, come la biacca, la tempera grassa, il verderame e le lacche. Tali tecniche, così straordinariamente diversificate, usate con la grande maestria di un artista capace di adattare al suo genio ogni possibilità offerta dai materiali pittorici più vari, si sono dovute individuare con la massima precisione, al fine di mettere a punto zona per zona le opportune metodologie di intervento.
Il restauro vero e proprio
Terminate dopo sei anni le indagini preliminari, i cui risultati vennero presentati in una mostra nel 1989 e in un convegno internazionale, e ottenuta l'approvazione al progetto da parte del Consiglio nazionale per i beni culturali, si è reso necessario ancora più di un anno (1990-91) per eseguire innumerevoli microtest nelle zone che risultavano differenziate per tecnica e degrado, di volta in volta seguiti da precisi riscontri analitici per mettere a punto un programma metodologico. Solo infatti dopo aver verificato la validità degli interventi previsti e aver individuato le soluzioni più adatte per ogni tipo di materia su cui si doveva operare, si è potuto procedere con il restauro vero e proprio, a pieno campo, cominciando dalla parete sinistra della cappella.
'Progetto per Piero della Francesca' è il nome dato all'intero complesso del restauro, durato quindici anni, compresi gli anni di indagini, dal 1985 al 7 aprile 2000, quando si è solennemente inaugurata la riapertura al pubblico della cappella, nuovamente godibile con le splendide cromie degli affreschi risanati. Una denominazione che ha voluto sottolineare lo straordinario impegno che ha richiesto questo complesso e difficilissimo restauro il quale, per l'altissima qualità dell'opera e la sua particolare situazione di pericolosissimo deperimento in atto, richiedeva un non comune concorso di forze scientifiche e tecniche.
Per realizzare nella maniera più ampia e completa tale Progetto occorreva un eccezionale impegno finanziario, che è stato assicurato, fin dal 1985, dalla Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, che ha la sua sede centrale in Arezzo. Lo Stato, come Ministero per i Beni culturali, rappresentato dall'attività della Soprintendenza di Arezzo, a sua volta impegnava il suo personale tecnico nell'operazione, e inoltre provvedeva a tutti quegli interventi di risanamento della chiesa che si sono ritenuti fondamentali per garantire la conservazione futura degli affreschi. Il 'Progetto' comprendeva anche lo studio e il monitoraggio del microclima all'interno della cappella al fine di verificarne il miglioramento con la massima riduzione degli sbalzi termoigrometrici. Essendo la chiesa di proprietà demaniale, il monitoraggio per la verifica della stabilità delle strutture e del microclima proseguirà a spese dello Stato.
Uno dei maggiori impegni di spesa ha riguardato la stazione informatica, strumento fondamentale fin dagli inizi del restauro per l'altrimenti impossibile gestione dei dati: è stato elaborato e perfezionato negli anni un programma specifico e si sono continuamente aggiornate e rinnovate le attrezzature. Ciò non solo ha dato la possibilità, sia ai restauratori sia alla direzione dei lavori, di usare in qualunque momento la documentazione raccolta, ma anche di immettere quotidianamente tutti i dati relativi agli interventi eseguiti, lasciando quindi a chi seguirà nella cura dei preziosi affreschi uno strumento fondamentale di cui nessuno ancora oggi dispone nei principali cantieri di restauro.
Tutte le operazioni sono state eseguite dai tecnici della Soprintendenza di Arezzo in piena collaborazione con quelli dell'Opificio delle pietre dure. Ciò ha consentito di portare avanti le varie fasi dell'intervento, sottoponendole di volta in volta alla verifica analitica del laboratorio scientifico dell'istituto fiorentino.
Il metodo dell'idrossido di bario, opportunamente adeguato e ottimizzato rispetto alla sua originaria e più tradizionale applicazione, usato in combinazione con le resine a scambio ionico soprattutto sulle zone dipinte a tempera grassa, è quello che ha permesso di salvare il capolavoro di Piero. I risultati, regolarmente avvalorati dalle verifiche analitiche positive, dimostrano che questo è il sistema meno invasivo, più risolutivo, con effetti più durevoli e privo di controindicazioni, o di quei margini di incertezza che inevitabilmente altri metodi contemplano. Tale metodologia conferisce compattezza e resistenza all'intonaco dipinto, rimuovendo alla radice la solfatazione e nello stesso tempo ricostruendo una tessitura cristallina nelle parti aggredite dal processo distruttivo del fenomeno. La superficie pittorica risanata mantiene tutte le tipiche proprietà originali di aspetto e permeabilità che caratterizzano la pittura murale, fondamentale differenza, rispetto a ogni altro fissativo che la tecnologia mette oggi a disposizione. Anche il risultato estetico è straordinario, come si potrebbe dire di una persona che ritrova luce e colore del volto dopo essere guarito da una malattia. Le superfici dipinte infatti, divenute più omogenee e compatte, essendo state anche liberate dai pesanti strati di vecchi fissativi alterati che le scurivano, sono ritornate chiare e luminose nella loro purezza originaria. A maggior prova della bontà del metodo va aggiunto che le indagini colorimetriche hanno dato conferma del rispetto dei valori cromatici che, per di più, hanno riacquistato la loro freschezza e la loro forza.
Al termine del restauro conservativo, consistito essenzialmente nel consolidamento e risanamento degli intonaci dipinti, il che comportava anche liberarli da tutte le sostanze estranee dannose che si sono ritrovate su di essi, è stato eseguito un rigoroso restauro pittorico a selezione cromatica con l'acquerello, la tecnica che è più immediatamente reversibile. Dove era possibile si sono risarcite le grandi ferite dovute alle lesioni del muro, restituendo così alle singole scene, nel pieno rispetto del testo di Piero, l'unità spaziale originaria: un'unità spaziale che è fondamentale per la lettura e la comprensione della concezione di Piero nel rappresentare la realtà naturale, e che era fortemente alterata dalle lacune lasciate in vista e anzi accentuate dal trattamento così detto 'a neutro' del precedente restauro. Così si è ritenuto essenziale integrare le cornici delle lunette, peraltro decorate con un motivo del tutto ripetitivo, poiché tale elemento costituiva il raccordo tra lo spazio interno della Cappella e l'illusoria apertura del muro sullo spazio esterno.
La vita e le opere
Biografia
Per un profilo biografico di Piero della Francesca (o de' Franceschi) si hanno a disposizione scarsi elementi e poche date certe, qualche notizia dai regesti comunali, alcune note di committenza con pagamenti e solleciti, la casa dove è vissuto, di solido censo.
Nacque a Borgo Sansepolcro nel secondo decennio del Quattrocento. La famiglia commerciava in pellami, poi con crescente successo in 'guado', un colorante per le stoffe. È probabile che da quel laboratorio Piero traesse esperienza, perché mostrerà di conoscere molto bene sia la natura dei pigmenti, arrivando al legante in olio, sia i tessuti, dal fustagno ai velluti, dal broccato alle trine più minute. Ed è probabile che da ragazzo ricevesse una buona educazione e fosse assecondato nell'attitudine alla matematica, disciplina che l'accompagnerà sempre, sottesa nella rappresentazione pittorica ed esplicitata in trattati.
Nel 1439 fu nella bottega di Domenico Veneziano a Firenze, anno in cui la città accolse il concilio e il corteo imperiale di Giovanni VIII Paleologo. Nel 1445 ricevette in patria la commissione del polittico della Misericordia. Negli anni seguenti si può presumere, attraverso indizi e deduzioni, la sua presenza a Bologna, Ferrara e in diverse località delle Marche. Di certo nel 1451 fu a Rimini, a contatto, in un importante sodalizio teorico, con Leon Battista Alberti, per un affresco dedicato a Sigismondo Malatesta nel Tempio malatestiano.
Nel 1452 subentrò a Bicci di Lorenzo nella decorazione del coro di S. Francesco in Arezzo. Il tema iconografico è tratto da un testo del 13° secolo, la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Ne deriverà un ciclo di murali tra i più straordinari del Rinascimento italiano. Piero vi s'impegnò per diversi anni ma non continuativamente. Da un documento del 1466 si deduce che in quella data gli affreschi erano terminati.
Nel 1454 assunse dagli agostiniani di Sansepolcro la commessa di un polittico, tra il 1458 e il 1459 fu a Roma per certe 'dipinture' nella camera del papa che andranno perdute in un incendio. Dal 1466 ai primi anni Ottanta fece la spola tra la sua città e Urbino, alla corte di Federico di Montefeltro.
Si ritirò poi nella sua città, colpito da cecità progressiva. Morì nel 1492, la sua sepoltura in Badia fu registrata il 12 ottobre, giorno della scoperta del Nuovo mondo.
Le opere principali
Critici e storici d'arte non concordano completamente sulla cronologia delle opere di Piero. La loro indagine, soggetta a confronto costante e sensibile ai minimi aggiornamenti, sopperisce talvolta alle lacune della documentazione con considerazioni puramente formali, e con indicazioni ante e post quem di ragionevole approssimazione.
Il Polittico della Misericordia (Sansepolcro, Museo Civico) è la prima commessa di cui ci sia memoria scritta (1445). Il contratto, dettagliato fino nel tipo di carpenteria e nella quantità dei colori da impiegare, impone il fondo in oro, un retaggio medievale che ostacola la prospettiva. Piero supera la difficoltà accentuando la plastica delle figure. La consegna dell'opera, avvenuta molti anni più tardi, aiuta a capire la maturazione stilistica intercorsa. L'influenza di Masaccio, evidente nei santi di sinistra, Sebastiano e Giovanni Battista, si attenua in quelli sulla destra, Andrea e Bernardino, mentre nell'impianto del pannello centrale, eseguito per ultimo, si assiste al cimento di rendere spazialmente plausibile l'arcaismo iconografico imposto nello scarto proporzionale tra la Vergine e i fedeli. L'orbita che questi descrivono sotto il manto salvifico della Madonna rappresenta il raggio stereometrico della Chiesa nel mondo.
Al 1450-60 risale la Flagellazione (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). Molto si è scritto su questa enigmatica tavola autografa. Si compone di due scene, divise da un forte contrasto di profondità e con luci di provenienza opposta, dalla destra quella del Cristo, nella fuga prospettica di un atrio classicheggiante, e da sinistra quella dei tre personaggi in primo piano, dietro i quali lo spazio monumentale si raccorda a quello di una casa borghese. Le scene appaiono dunque differite nel tempo o nello spazio, per un'associazione di significato simbolico aperta a molteplici interpretazioni, fra cui quella che il tema sia un riferimento alla crociata contro i turchi.
Due affreschi ascrivibili attorno al 1460, dunque alla piena maturità di Piero, la Resurrezione (Sansepolcro, Museo Civico), e la Madonna del Parto (Monterchi), mostrano come l'uso che Piero fa della prospettiva (per gli artisti del Quattrocento la nozione scientifica di prospettiva è di portata rivoluzionaria, che li separa nettamente dalla tradizione gotica, e Piero ne è uno dei massimi interpreti) non sempre riflette rispondenze matematiche univoche. Stante la sua competenza si devono supporre deroghe intenzionali. Raddoppio dei fuochi, o punti di vista virtuali talvolta vicini al paradosso, sono supplementi di maestria al servizio del dettato iconologico, che sconfinano nello studio della percezione visiva. Nella Resurrezione la relazione fra l'invisibilità del piano del sepolcro e il fondo alle spalle del Cristo sembra generare un conflitto, ma in realtà produce l'effetto di far risaltare il plesso piramidale delle figure: l'esedra dei soldati in primo piano 'folgorati' dall'assopimento, l'imponenza del Redentore che si staglia su un paesaggio allegorico, brullo a sinistra, rigoglioso sulla destra, come fra un prima e un dopo nel verso della lettura. Nella Madonna del Parto l'inganno prospettico porterebbe a ritenere che la Vergine sia all'interno del padiglione, mentre di fatto è appena oltre la linea di soglia: assimilata la tenda all'Arca veterotestamentaria, la Madonna incinta ne fuoriesce come custode del Tabernacolo, Arca ella stessa del Nuovo Testamento.
Nella Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), databile attorno al 1470, si assiste a un nuovo uso della luce e a una sensibilità naturalistica che riflettono la conoscenza della pittura fiamminga. La luce incidente dalla finestra fonde il fenomenico con il divino, elementi che appaiono invece separati nell'Annunciazione del ciclo aretino.
Il Dittico dei duchi di Urbino (Firenze, Galleria degli Uffizi), risalente al 1472 circa, è composto dai ritratti di Federico di Montefeltro e di sua moglie, Battista Sforza, e dai rispettivi trionfi sul verso. Su uno sfondo aereo, minuziosamente descritto, si stagliano i volti dei due personaggi e i simboli encomiastici delle loro virtù.
Fra il 1472 e il 1474 è datata la pala con Madonna, santi e angeli e Federico di Montefeltro in adorazione (Milano, Pinacoteca di Brera). Dal catino absidale a forma di conchiglia pende il perlaceo uovo di struzzo, emblema dei Montefeltro, e simbolo nella mistica medievale dell'Immacolata Concezione. L'opera è ritenuta la più originale e importante Sacra Conversazione del Quattrocento. L'evoluzione dell'architettura segna un definitivo trapasso nel nuovo, all'apogeo della maturità di Piero.
I trattati
La competenza matematica di Piero fu tale da poter scrivere in materia anche dei trattati. Il primo, dedicato all'abaco, era rivolto a tutti coloro che avessero esigenze pratiche di calcolo, per es. i mercanti. Compendiava aritmetica, radicali, algebra, equazioni di grado superiore al secondo e non riducibili, e anticipava in volgare quanto Piero avrebbe scritto sui solidi geometrici.
Poi, considerando che "molti dipintori biasimano la prospettiva, perché non intendono la forza de le linee e degli angoli, che da essa si producono", Piero dedicò al tema il De prospectiva pingendi, un manuale suddiviso in tre libri, corredato di settantanove disegni originali, ostico e strettamente specialistico, secondo il principio che la pittura "non è se non dimostrationi de superficie et de corpi degradati e accresciuti nel termine". La sua vocazione didattica è di carattere scientifico e prescinde da valutazioni estetiche anche se ne aggiorna il fondamento quantificabile.
Infine, in là negli anni, "ne ingenium inertia torpesceret", redasse in onore di Guidobaldo di Urbino, figlio del duca Federico, il Libellus de quinque corporibus regularibus, analisi di cubo, piramide, ottaedro, dodecaedro, icosaedro, fattori primi di una riducibilità delle cose del mondo, che atteneva agli aspetti più profondi della sua ricerca ideale. Luca Pacioli, giovane concittadino di Piero, se ne appropriò in lezioni, di cui verranno a conoscenza Leonardo e Dürer, e nei libri che gli daranno fama (Summa de Arithmetica…, De divina proportione), non si sa se per plagio, come accusa il Vasari, o se per ritrasmettere la filosofia platonica di un cosmo ben ordinato, lo stesso che immoto e perenne connota di sortilegio la pittura del suo Maestro.
La fortuna storica
Giorgio Vasari, nelle Vite de' più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani, da Cimabue a' tempi nostri (1550), definì Piero 'monarca della pittura'. Poi sul pittore calerà per secoli una cortina di silenzio, interrotto solo da qualche voce sporadica. Il misconoscimento autorizzerà ancora nell'Ottocento la dispersione delle sue opere, con la svendita a mercanti stranieri del Battesimo, della Natività, dell'Ercole, del Polittico Agostiniano smembrato.
Nel Novecento si assiste alla riscoperta, in gran parte dovuta alla fondamentale monografia di Roberto Longhi pubblicata nel 1927 (Piero della Francesca, Firenze, Sansoni), che riscatterà il borghigiano dall'oblio perdurante, con una documentata raccolta di notizie sul suo conto, il catalogo ragionato delle opere e un suggestivo profilo formale, che si conclude con l'indicazione di un'influenza di Piero sugli sviluppi della pittura veneta, trasmessa nell'accordo tra le forme e i colori sul fondamento della prospettiva.
Nel giro di pochi anni l'interesse della critica e il crescente consenso del grande pubblico restituiranno a Piero la perduta 'sovranità', e nel 1951 Kenneth Clark, autorevole studioso e già direttore della National Gallery, potrà dire: "Silenziosamente, inesorabilmente, quasi di nascosto, Piero della Francesca si è rivelato uno dei maggiori artisti del Quattrocento, quindi uno dei maggiori artisti mai vissuti" (Piero della Francesca, London, Phaidon Press).
La Leggenda della Vera Croce
Nel 1447 la facoltosa famiglia aretina dei Bacci finanzia la decorazione della Cappella maggiore di S. Francesco, della quale ha il patronato. L'incarico è affidato al fiorentino Bicci di Lorenzo, di sicuro mestiere ma avanti negli anni, che muore nel 1452, dopo aver affrescato parzialmente le vele della volta e l'intradosso dell'arco trionfale. Gli succederà Piero, portando una qualità pittorica totalmente nuova. Il programma iconografico da eseguire, suggerito dagli stessi francescani, è tratto dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, che narra la storia della Vera Croce.
Gli episodi scelti sono suddivisi in dieci riquadri: quattro maggiori e due lunette, che si fronteggiano simmetricamente nelle pareti laterali, e quattro minori sulla parete di fondo, al di sopra dei quali figurano due profeti.
La scena d'inizio è nella lunetta in alto a destra, con Adamo morente, circondato dai congiunti, che assistono per la prima volta alla conclusione naturale della parabola umana. Seth si rivolge all'Arcangelo, chiede l'olio santo, ne riceve un virgulto da piantare nel tumulo di Adamo, che diventa l'albero della salvezza, campeggiante al centro. Sulla sinistra un incrocio di giovani sguardi sembra preludere alla continuità della stirpe.
Nel riquadro sottostante la regina di Saba, in viaggio per incontrare Salomone, s'inginocchia a pregare sulla sponda del fiume Siloe. Una premonizione le fa riconoscere il sacro legno nel ponticello innanzi. Il corteo alle sue spalle è un paradigma del magistero tecnico di Piero, che riduce al minimo il numero dei personaggi potenziandoli spazialmente, in questo caso con il profilo ribassato dell'orizzonte. Le dame sono cinque, di cui una seminascosta e un'altra che offre solo il volto; fra loro un famiglio, a tergo una mascotte di nota etnica (dalla sabea discenderanno gli etiopi e il ramo della chiesa copta), e più a sinistra due staffieri affrontati, con un cavallo di quinta e il muso di altri tre. Nonostante la modestia dei mezzi in campo è difficile pensare a qualcosa di più regale. L'azione si sposta specularmente oltre la cesura del fiumicello, dove nella cornice di un pronao che il Vasari definirà "di colonne corinzie divinamente misurate" si assiste al fatidico incontro della regina di Saba e il suo seguito con Salomone e i suoi dignitari. La stretta di mano fra i due protagonisti suggella l'evento, che allude all'unione fra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente. Sullo stesso livello, nel riquadro minore del fondo, tre uomini scamiciati issano il sacro legno, che Salomone, messo in guardia dalla sabea, fa nascondere lontano. È un campionario di povera umanità ignara delle proprie azioni, in una scena che la critica concordemente attribuisce ad aiuti di Piero. Il capofila ha la testa inscritta nelle venature dell'asse, prefigurazione dell'aureola divina, e di un disegno ineluttabile.
La narrazione prosegue nella fascia inferiore dei murali, con il riquadro minore sulla sinistra. La scena, di qualità altissima e integralmente autografa di Piero, è estranea alla Legenda: un'Annunciazione. L'angelo, al confine di una linea d'ombra, non reca però il giglio del Concepimento bensì la palma dell'Assunzione, che imprime nella Vergine un'espressione di pensosa malinconia. La luce dell''al di qua', di sospensione meridiana, proviene dalla destra in alto del riguardante e permea la colonna in primo piano, lambendo Maria, colonna ella stessa dell'edificio cristiano, investita dalla luce invisibile dell''al di là', i sacri raggi della Chiamata.
A pendant, sul riquadro minore della destra, un'altra comunicazione soprannaturale, questa volta di luce improvvisa: lo scorcio subitaneo di un angelo, che appare in sogno a Costantino recandogli la croce e profetizzando "In hoc signo vinces".
Nel riquadro maggiore adiacente, l'ultimo in basso nella parete di destra, la parata a Saxa Rubra, di Costantino vincitore su Massenzio, che fugge sulla sponda opposta del Tevere. La scena, incompleta per le vistose lacune del suo epilogo recate dal tempo, presenta sulla sinistra una serrata congestione prospettica realizzata con quattro o cinque cavalli che emergono dal fondo e girano, l'animato trapestio dei loro zoccoli, l'armatura corrusca di un luogotenente, il piglio di pochi altri guerrieri, aste e stendardi, la croce mostrata da Costantino, il quale calza sorprendentemente il copricapo di un imperatore Paleologo. È un'altra anomalia iconografica che fa discutere. Giovanni VIII, che Piero può aver visto dal vivo a Firenze nel 1439, muore nel 1448. Il successore, Costantino XII, muore nel 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano turca, epoca in cui verosimilmente l'affresco in questione deve essere ancora abbozzato. Forse l'effigie postuma è d'auspicio per una crociata che riconquisti le posizioni perdute, in nome della cristianità.
Nell'ultimo dei riquadri minori, in alto a sinistra, sopra l'Annunciazione, l'ebreo Giuda, sprofondato in una botola perché riveli dove sia sepolta la croce di Cristo, cede al supplizio e fornisce informazioni. Scena concordemente ritenuta di aiuti, prepara la lettura del riquadro maggiore adiacente, sulla fascia intermedia della parete sinistra.
Devota pellegrina in Terrasanta, la regina Elena, madre di Costantino, fa eseguire a uomini di fatica gli scavi per la ricerca della Croce secondo le indicazioni ottenute. Di sfondo, una Gerusalemme ricalcata sull'immagine di Arezzo, dove a mezza costa del colle si può distinguere la stessa chiesa di S. Francesco in cui Piero sta lavorando. L'azione si sposta oltre un campo arato. Sottoposta a prova tra le altre rinvenute, la vera Croce fa risorgere un giovane. Ancelle e regina sono inscritte negli archi di un tempio tripartito, forse richiamo classicheggiante dell'Aelia Capitolina al trapasso d'una simbologia cristiana, allorché nel luogo del Santo Sepolcro verrà costruita per volere di Costantino la basilica dell'Anastasis. Lo scorcio sulla destra invece, dietro una terna di personaggi riccamente abbigliati che ratificano il prodigio, riconduce alle strade di casa, ai campanili di Borgo Sansepolcro.
Il riquadro maggiore sottostante, speculare alla vittoria di Costantino, descrive un altro turbinio di guerra. Cosroe, re dei Persiani, ha sottratto la Croce alla cristianità per associarla al suo pantheon blasfemo, ed Eraclio, imperatore bizantino, gli muove contro, sconfigge le sue truppe e lo fa prigioniero. Piero risolve la grande scena con la consueta economia di mezzi e l'artificio di rialzare il profilo prospettico sui ranghi delle seconde file come sfondo. In primo piano si delineano invece gli episodi singolari, resi in tarsie cromatiche, mentre il tempo delle azioni parallele è scandito dall'attimo che precede l'esecuzione di Cosroe. Attorno all'empio re, ritratti di contemporanei, fra cui con ogni probabilità esponenti della famiglia Bacci.
L'epilogo si ha nella lunetta in alto, con Eraclio a piedi nudi, in segno di estrema umiltà, che restituisce la Croce a Gerusalemme.
Così dunque viene 'squadernata' una storia illustrata a uso dei contemporanei, che nata a scopo edificante, assume strada facendo digressioni iconografiche dettate dai grandi temi politici dell'epoca: la caduta di Costantinopoli, l'incombenza della minaccia turca, la necessità di una risposta unitaria con una nuova crociata.
Cenni di storia del restauro
In senso generale può essere qualificato come restauro ogni intervento sui monumenti e sulle opere d'arte, operato anche in antico, successivo al completamento dell'opera. La logica e la finalità degli interventi sono variate durante i secoli, tendendo da un lato al semplice mantenimento dell'efficienza del manufatto, dall'altro all'adeguamento dello stesso al gusto contemporaneo, al suo ammodernamento. A partire dalla fine del Settecento l'affermarsi dell'ottica storicistica, cioè della tendenza a interpretare le testimonianze artistiche del passato nel contesto culturale che era loro proprio, ha dato avvio a un vivace dibattito teorico tuttora in corso.
Le fonti antiche attestano numerosi interventi sulle opere d'arte, in genere affidati ad artisti. Per es., nel 2° secolo a.C. Damofonte di Messene restaurò lo Zeus Olimpio di Fidia riapplicando gli incarnati eburnei al supporto in legno da cui si erano staccati, e rifece le lamine d'oro dell'Atena Parthènos di Fidia, rubate durante la guerra del Peloponneso. Plinio e Vitruvio ricordano numerosi trasporti di pitture murali dalla Grecia a Roma, effettuati con la tecnica del distacco a massello, ovvero resecando l'intera porzione di muro retrostante la pittura (per es., i dipinti portati nel 59 a.C. da Sparta a Roma, per le case di Varrone e Murena); ancora Plinio ricorda che a un ritratto di Alessandro fu asportata una doratura, che era stata fatta eseguire da Nerone, perché disturbava la 'grazia' della statua; inoltre, pratiche restaurative di bronzi, trattando la superficie con olio e pece diluita, e di opere lignee, con iniezioni di oli essenziali, erano ricorrenti e sono menzionate da molteplici fonti.
Nel Medioevo il valore religioso delle immagini sacre portò a un profondo mutamento dell'atteggiamento nei confronti delle opere d'arte, non più concepite, come nel mondo antico, quali oggetti di collezionismo e tesaurizzazione. Accanto al riuso di numerose vestigia classiche, fenomeno caratteristico dei primi secoli del Medioevo, sono testimoniati, dal 6° secolo, interventi diretti sulle opere d'arte d'età precedente, per aggiornarle a un gusto rinnovato, o a nuove esigenze liturgiche o politiche. Così, per es., i mosaici del tempo di Teodorico in S. Apollinare Nuovo a Ravenna, ispirati ai programmi politici del re goto o alla dottrina ariana, furono ampiamente rielaborati alla metà del 6° secolo, quando la città tornò sotto il dominio dell'imperatore bizantino; il Crocifisso di Guglielmo a Sarzana, del 1138, venne ridipinto, limitatamente alla figura del Cristo, nel secolo successivo, così come le Storie Bibliche dell'abbazia di S. Nilo a Grottaferrata, realizzate verso la metà del 13° secolo da un allievo del Terzo Maestro di Anagni, vennero rinnovate qualche decennio più tardi con ritocchi a secco da un seguace di Pietro Cavallini, dando così vita a un'opera dal singolare eclettismo stilistico.
Nel Rinascimento, con il diffondersi della passione antiquaria e della coscienza del valore autonomo delle opere d'arte, ebbe avvio la pratica di intervenire sulle sculture antiche, recuperate quasi sempre lacunose, per reintegrarle spesso con materiali diversi e in forme arbitrarie. Questi interventi seguivano l'andamento del gusto, senza interesse per l'integrità figurativa originaria: così Guglielmo della Porta restaurò su consiglio di Michelangelo i marmi della collezione Farnese, e le gambe che scolpì per l'Ercole furono preferite alle originali quando queste vennero scoperte. Nello stesso periodo s'iniziò a provvedere alla salvaguardia delle più considerevoli manifestazioni dell'arte contemporanea. Vasari ricorda che nel 1564 il Sant' Agostino di Botticelli venne staccato dall'abside della chiesa di Ognissanti, per impedirne la distruzione. La stessa procedura fu seguita per il San Girolamo del Ghirlandaio.
Nel Seicento lo scultore Alessandro Algardi, che fu il più importante e ricercato restauratore di marmi antichi del suo tempo (intervenne tra l'altro sui marmi della collezione Ludovisi), seguì negli interventi di restauro gli orientamenti dettati dal gusto barocco.
Nella seconda metà del 18° secolo si può ravvisare la svolta concettuale e di metodo che segna una cognizione più moderna del restauro, distinto dalle consuetudini di 'rinnovo', di 'riuso', o comunque di mantenimento a fini pratici o di maggiore apprezzamento economico, diffuse in precedenza. A quest'epoca dobbiamo la determinazione di alcuni principi-guida del restauro che sarà poi detto scientifico, identificato con qualcosa che è suscitato da un giudizio culturale e condotto con cautela da mani esperte, specializzate. Il canonico Luigi Crespi, in una lettera a Francesco Algarotti (1756), contrappone il concetto di conservazione a quello di restauro con l'invito a limitare i 'ritocchi' solo a piccoli interventi su zone figurativamente secondarie, 'avendosi cura' invece di rimuovere le 'cause' del danno; e delinea le nozioni di 'reversibilità' e di 'patina'. L'antiquario Francesco Bartoli, nelle sue riflessioni sul modo di 'riattare' la Rotonda a Roma, definiva con rigore teorico il programma delle operazioni basandosi su principi di minimo intervento, non invasività, reversibilità e rispetto per l'autenticità. Né si tratta di contributi episodici, ma del giungere a maturazione di molti fattori concomitanti, che determinano un profondo cambiamento nel volgere di un cinquantennio: il 'flagrante contatto' con l'antico, anche nelle testimonianze 'minori' e quotidiane, favorito dall'archeologia cristiana e ancor più dagli scavi di Ercolano e Pompei; gli sviluppi dell'estetica, da Baumgarten a Kant (con la fondamentale affermazione dell'autonomia del giudizio estetico); il pensiero illuminista, con la sua volontà d'introdurre metodo e scienza nella ricerca storica; il 'rimpianto del passato' in un mondo che si appresta a cambiare rapidamente, per l'incipiente industrializzazione; una diffusa aridità creativa, si è anche detto, conseguente all'esaurirsi della poetica barocca; i canoni stessi del neoclassicismo.
Accettato in seguito un concetto più ampio di storicità, proprio dell'Ottocento e dei primi del Novecento, e sviluppata quindi un'accezione di testimonianza materiale e di documento estesa con gli stessi criteri a tutto il costruito antico - non più soltanto statue, quadri o reperti archeologici di qualità, ma anche architettura e i suoi materiali - saranno acquisiti al restauro i concetti basilari già emersi, e si comincerà a discutere di manutenzione continua, di prevenzione, e per diversi aspetti di distinguibilità e compatibilità.
Nella riflessione contemporanea, sgombrato il campo da una serie di tentativi falliti e di pseudoteorie sugli interventi, si è più solidamente affermata la cosiddetta linea del 'restauro critico', segnata da forti convergenze con il pensiero di Cesare Brandi, storico dell'arte e fondatore dell'Istituto centrale del restauro (1939), che rappresenta oggi un riferimento scientifico, operativo e di scuola di rilevanza mondiale. In tale prospettiva il restauro si caratterizza per un duplice ruolo, 'conservativo' da un lato, 'rivelativo' dall'altro, al fine di "trasmettere integralmente al futuro" e al tempo stesso di "facilitare la lettura" delle testimonianze di storia e d'arte, come afferma la Carta del Restauro del 1972 (art. 4), scritta da Brandi sotto l'egida del Ministero della Pubblica istruzione, allora competente in materia (oggi l'autorità responsabile è il Ministero per i Beni e le attività culturali). Nel restauro entrano quindi da protagoniste le tecniche volte alla perpetuazione materiale del bene in questione come istanza della 'storicità' - pittura, scultura, architettura o espressione d'arte minore che sia - senza che restino escluse altre questioni più direttamente interessate alla qualità figurativa del bene stesso, in altre parole alla sua immagine, secondo un'istanza 'estetica'. Brandi osserva poi che le due istanze o 'domande', che il restauro pone spesso, divergono radicalmente, e vanno in qualche modo dialetticamente contemperate. Si pensi a un quadro in parte o del tutto ridipinto, per il quale l'ipotesi di rimozione delle aggiunte si configura come un recupero estetico auspicabile, ma al tempo stesso, essendo tale rimozione irreversibile, come un impoverimento della sua 'stratificazione' e complessità storica. La risposta è in ordine al 'giudizio' storico-critico, con tutte le incertezze che esso comporta.
Il restauro deve allora da un lato assicurare la sopravvivenza materiale dell'opera, dall'altro mirare alla ricostituzione il più possibile fedele della veste originaria, fermo restando il rispetto dei mutamenti intervenuti nel tempo sull'immagine, laddove rappresentino elementi qualificanti dal punto di vista estetico e funzionale.
Le tecniche
Ai problemi di natura concettuale che hanno accompagnato nel tempo la salvaguardia delle opere d'arte, dalla semplice manutenzione a interventi di natura più drastica, si devono associare quelli derivanti dalle tecniche a disposizione, anch'esse soggette a cambiamenti d'indirizzo e all'evoluzione delle procedure.
Sul finire del 17° secolo per es., Carlo Maratta, nominato 'custode' degli affreschi di Raffaello in Vaticano e della cappella Sistina, interveniva sugli affreschi carracceschi di palazzo Farnese, che presentavano gravi problemi dovuti a infiltrazioni d'acqua, consolidando l'intonaco staccato dal muro con iniezioni di gesso e chiodi, ravvivando a pastello i colori offuscati e rifacendo le figure maggiormente danneggiate.
All'inizio del 18° secolo la pratica del distacco dei dipinti murali fu effettuata non più con la resecazione del muro, ma asportando l'intonaco dipinto (stacco, con riapplicazione su un'armatura lignea e supporto in gesso), o la sola pellicola pittorica (strappo, con riapplicazione su tela), tecniche che trovarono ampia applicazione con il progredire degli scavi di Pompei ed Ercolano, e che si diffusero in Francia, dove si sviluppò la pratica di trasportare su tela anche la pellicola pittorica di importanti opere su tavola. Nello stesso secolo fu introdotta la foderatura dei dipinti su tela, consistente nel rinforzare sul retro il supporto degradato con applicazioni di tela nuova.
Nel 19° secolo l'attività di restauro ebbe crescente sviluppo e furono pubblicati in materia i primi manuali, benché sotto l'aspetto figurativo si continuasse a reintegrare le parti mancanti secondo il gusto corrente, con esiti spesso discutibili.
Di fatto bisognerà attendere l'attenzione critica del Novecento, perché il restauro assuma forma di disciplina filologica e adotti metodologie mirate, sperimentate in laboratorio, prerogative che troveranno sede nell'Istituto centrale del restauro e che avranno un banco di prova nelle rovine lasciate dalla guerra.
Oggi le tecniche si sono ulteriormente raffinate, ogni intervento è preceduto da una serie di analisi fisico-chimiche (parametri termoigrometrici, infrarossi, ultravioletti, microscopia, osservazioni mineralogiche ecc.) e ogni decisione è frutto di confronto interdisciplinare.