Soderini, Piero di Tommaso
Nato a Firenze nel 1452 da una famiglia d’antico lignaggio che aveva dato ben 34 priori e 16 gonfalonieri di giustizia alla città, S. ricoprì il primo incarico politico nel 1481 come priore. L’amicizia con Piero de’ Medici gli procurò nel 1493 la prima missione diplomatica, come accompagnatore del vescovo di Arezzo Gentile Becchi, presso il re di Francia Carlo VIII, al fine di scongiurare la minaccia dell’incombente invasione francese. L’infruttuoso esito della missione concorse a provocare, quando Carlo scese in Italia, la cacciata dei Medici da Firenze e l’instaurazione della repubblica. Esaurita la stagione savonaroliana, S. divenne gonfaloniere di giustizia nel 1501; l’anno successivo fu eletto gonfaloniere perpetuo della Repubblica fiorentina: una riforma (ispirata al modello dell’aristocratica Venezia) fermamente voluta dagli ottimati che non solo pensavano così di bilanciare in senso oligarchico la Repubblica ‘popolare’ nata nel 1494, ma anche si ripromettevano di garantire quella continuità dell’esecutivo che i pericoli esterni, primo fra tutti quello rappresentato da Cesare Borgia, rendevano urgente. Nei dieci anni in cui restò in carica, S. governò con il costante aiuto e i consigli di M., riuscendo ad attuare diverse importanti riforme: quella dell’erario, con l’introduzione della decima; quella dell’ordinamento giudiziario, con l’istituzione della nuova corte d’appello detta Quarantìa e di un tribunale della Ruota; ma soprattutto quella militare, per cui, accogliendo una delle convinzioni più ferme di M., istituì una milizia stanziale di cittadini, l’Ordinanza, riconquistando con essa la ‘ribelle’ Pisa (1509). La riforma militare, in particolare, gli alienò il favore dei «grandi». Nell’autunno del 1511, per dimostrare tutta la sua fedeltà al re francese, accondiscese alla richiesta di convocare a Pisa un concilio che dichiarasse decaduto papa Giulio II per simonia. Questi reagì lanciando l’interdetto su Firenze. Dopo la battaglia di Ravenna (→) il papa mandò verso Firenze un esercito comandato dal viceré di Napoli Ramón de Cardona e da Giovanni de’ Medici, legato pontificio: a Prato, nell’agosto del 1512, l’Ordinanza fiorentina voluta da M. fu sbaragliata, la cittadina saccheggiata e Firenze dovette trattare la resa accettando il ritorno dei Medici.
S. fu costretto a fuggire: il 31 agosto, con un salvacondotto, si fece accompagnare da Francesco Vettori fino a Siena, dove trovò un primo rifugio; si recò poi a Ragusa, in Dalmazia, e infine a Roma, grazie al perdono di Giovanni, eletto papa con il nome di Leone X. Qui S. morì il 13 giugno 1522.
Quando il 22 settembre 1502 S. venne eletto gonfaloniere a vita della Repubblica fiorentina con il favore del popolo e l’appoggio degli ottimati più moderati, entrambe le fazioni riponevano le loro legittime aspettative sul nuovo «dictatore perpetuo». S., avendo già ricoperto molte cariche, si era guadagnato la fama di uomo imparziale. Come spiega Francesco Guicciardini nelle Storie fiorentine, il gonfalonierato a vita era stato voluto dal partito aristocratico-oligarchico per limitare il potere del Consiglio maggiore, e nella speranza che S. riuscisse a ottenere da questo l’istituzione di un senato a vita sul modello di quello veneziano, cui aspiravano i «cittadini savi e di qualità» (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 378). Altri invece, come M., dovettero rallegrarsi dell’elezione perché vedevano in S. colui che poteva estinguere il particolarismo delle sette e inaugurare un nuovo corso rispetto alla politica «grettamente municipale» cui le continue contese avevano dato vita (Bausi 2005b, p. 26). Negli anni immediatamente precedenti, inoltre, M. aveva intrattenuto frequenti rapporti di cancelleria con S. e, nel giugno dello stesso 1502, aveva accompagnato nella legazione in Romagna al Valentino il fratello di Piero, Francesco (→), con cui – come emerge dall’epistolario di M. (Pesman 2010, p. 55) – si era stabilita ben presto una notevole sintonia politica. Scrivendo ai commissari di Arezzo Antonio Giacomini e Alamanno Salviati, il 3 ottobre 1502, M. comunicava il piacere dei francesi – dietro il quale non si fatica a scorgere anche il suo – alla notizia dell’elezione di S.:
A Roano [il cardinale di Rouen, George d’Amboise] e ad el Re è sommamente piaciuta la elezione di Pier Soderini, facciendone segni evidentissimi d’allegrezza, dicendo che si è deputato uno uomo che teme Iddio, savio e amatore della sua patria (LCSG, 2° t., p. 326).
«Operoso e devoto servitore dello stato», M. «piacque subito al Soderini» (R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, 1978, p. 86), sì da diventarne il più fidato collaboratore.
In occasione di uno dei primi importanti interventi legislativi voluti da S., l’istituzione di un’imposta patrimoniale (decima) per finanziare le spese militari, M. scrive il discorso Parole da dirle sopra la provvisione del danaio (→), destinato probabilmente a essere pronunciato dal gonfaloniere davanti al Consiglio degli Ottanta o al Consiglio maggiore (Dotti 2003, p. 100), o forse, come vuole Francesco Bausi (2005b, p. 46), per la consulta del 28 marzo 1503. Scrivendo le Parole «Machiavelli non esitava a porsi come la “testa pensante” del nuovo corso soderiniano» (Sasso 1993, p. 118). Sempre al fine di far approvare dalla parte ottimatizia l’istituzione della «milizia propria» fiorentina, M. dedica ad Alamanno Salviati, leader della parte avversa, la prima redazione del primo Decennale, in cui viene celebrata l’elezione di S.:
Venuto, dunque, il giorno sì tranquillo / nel qual el popul vostro, fatto audace, / el portator creò del suo vessillo, / ne fur d’un Cerbio suo corna capace, / acciò che sopra la lor soda petra / potessi edificar la vostra pace; / e se alcun da tal ordine si arretra / per alcuna cagion, esser potrebbe / di questo mondo non buon geomètra (vv. 373-81; lo stemma dei Soderini recava tre teste di cervo con le corna in campo rosso).
Quasi in conclusione del Decennale, inoltre, S. viene esaltato come «nocchier accorto» (v. 547).
Il 1° aprile 1506 S. riesce finalmente a far approvare dal Consiglio degli Ottanta il progetto della nuova milizia cittadina. Il 1506 è anche l’anno dei Ghiribizzi al Soderino (→), in cui M. delinea per la prima volta con estrema lucidità la teoria della fortuna come ‘riscontro’, vale a dire come compatibilità fra il carattere degli uomini e le esigenze dei tempi (Inglese 2006, p. 107).
Nel dicembre del 1507, S. ottenne che M. partisse per la Germania ad affiancare come ambasciatore ufficioso l’ambasciatore ufficiale Francesco Vettori, già in carica presso l’imperatore da sei mesi. Da Bolzano, dove allora si trovava la corte imperiale, il 17 febbraio del 1508, M. scrive al gonfaloniere una lettera – importante perché è una delle pochissime superstiti dei loro contatti, che dovevano essere pressoché quotidiani – in cui si mostra insolitamente incerto nel prevedere gli esiti della progettata spedizione italiana di Massimiliano: «Dico solo questo: che molte cose mi fanno credere e molte non credere, tale che io sono al tutto in aria, pure pendo più dal sì che dal no, mosso più tosto dal iudizio de’ più che dal mio» (Lettere, p. 173).
La crescente fiducia accordata a M. da S. provoca talvolta reazioni stizzite negli avversari del gonfaloniere, dai quali M. è ormai considerato un «mannerino» (ossia ‘tirapiedi’) di S. (B. Cerretani, Storia fiorentina, a cura di G. Berti, 1994, p. 352). Quando M. viene mandato per la terza volta presso il re di Francia, una lettera di istruzioni, firmata da S. (20 giugno 1510), riepiloga i principi del mandato:
Dirai alla Maestà del re per parte mia come io non ho altro desiderio al mondo che tre cose: cioè l’onore di Dio, il bene della patria mia e il bene e l’onore della Maestà del re di Francia. E perché io non posso credere che la patria mia possa avere alcuno bene senza il bene della corona di Francia, io non stimo l’uno senza l’altro (LCSG, 6° t., p. 412).
E, dopo aver sostenuto che, per controllare l’Italia, bastava «tenere contento lo Imperadore» e «afflitti i Viniziani», dava al re di Francia, attraverso il suo fidato emissario, il terzo fondamentale consiglio, la cui mancata osservanza risulterà fatale proprio per S. e la sua repubblica:
Dira’li che io giudico bene che sua Maestà debba fare ogni cosa per non rompere col Papa: perché se un Papa amico non val molto, inimico nuoce assai, per la riputazione che si tira dreto la Chiesa e per non gli potere far guerra de diretto senza provocarsi inimico tutto il mondo (p. 413).
Paradossalmente, il consiglio così enunciato verrà disatteso da S. stesso, appena l’anno dopo, nella vicenda del concilio pisano (vedi supra).
Al di là di questo fatale errore strategico, la politica filofrancese seguita da S. era probabilmente inevitabile, anche a detta dell’antisoderiniano Guicciardini, che, molti anni dopo, nella sua Storia d’Italia (X viii), riconoscerà a S. il merito di aver capito che un piccolo Stato come Firenze non poteva permettersi di rimanere neutrale nella guerra tra la lega Santa e la Francia. Tuttavia, le continue raccomandazioni alla prudenza, al riserbo, alla discrezione, alle «solite “vie di mezzo” così care alla saggezza politica fiorentina», che in questa lettera per la terza legazione in Francia di M. emergono chiaramente, non potevano non incontrare la disapprovazione di M., che in tutte le sue lettere aveva costantemente incoraggiato una decisa politica di «scelte» risolute (Sasso 1993, p. 284).
Piero Soderini nella riflessione politica di Machiavelli post res perditas. «Sa ciascuno ancora come poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso» (Discorsi I lvi 5). Il fulmine che si abbatte su Palazzo Vecchio è l’infausto presagio della fine di una parabola politica e, per M., del passaggio sulle «cose del mondo». Per alcuni anni, dopo la catastrofe della Repubblica, M. si trattiene dall’esprimere giudizi su S.:
il silenzio aveva [...] espresso la serietà dell’uomo che, con quella scelta di non parlare, aveva almeno saputo tenere in equilibrio le ragioni dell’interesse personale con quelle del buon gusto e del dignitoso comportamento etico (Sasso 1993, p. 615).
Tranne una fugace citazione di S. nella misteriosa lettera a una gentildonna del settembre 1512 (dove si accenna a certe «vane oppenioni» in cui S. avrebbe creduto) e un più importante riferimento all’ex gonfaloniere nell’ammonimento Ai Palleschi (fine ott. 1512, ove si sostiene che «trovare e’ difetti di Piero non dà reputazione a lo stato de’ Medici, ma a particulari cittadini», § 7, in SPM, p. 583, e dunque che il vero nemico dei Medici non era «l’ombra di Pier Soderini, ma il corpo reale, vivo e presente degli “ottimati”», Sasso 1993, p. 321), M. evita di parlare di S. fino ai Discorsi, in cui a più riprese, invece, rileva i difetti e le manchevolezze del gonfaloniere, che non aveva saputo contrastare in maniera adeguata l’opposizione delle famiglie ottimatizie; più in generale, S. si era dimostrato incapace, per usare un’espressione cara al M. del Principe (dove peraltro non vi è alcun cenno esplicito al gonfaloniere), di «entrare nel male» nel momento del bisogno, assurgendo dunque a «eroe negativo della dottrina del “riscontro” espressa fin dai Ghiribizzi» (Inglese 2006, p. 107). Se nel primo libro le critiche a S. sono ancora moderate (in I vii 14 lo si accusa di non aver saputo trovare dei modi «ordinari» – indispensabili in una repubblica perché non si ricorra a quelli «straordinari» – per sfogare gli umori popolari contro l’ambizione dei nobili) e in I lii 9-10 M. sembra volerlo quasi scusare per non essere riuscito a sbarrare la strada ai nemici interni (in quanto per farlo avrebbe dovuto appoggiare i Medici, alienandosi inevitabilmente l’ala popolare dello scacchiere politico, che era il fondamentale supporto del suo governo), è nel terzo libro, con tre decisivi affondi, che M. chiude i conti con il gonfaloniere. Prima di tutto, S. sapeva di dover eliminare gli uomini più coinvolti nel passato «regime» politico ma, nonostante «che la sorte e l’ambizione di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli», fiducioso di «superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne’ figliuoli di Bruto», non si decise mai a eliminarli (III iii 6-7). Secca e impietosa, aliena da ogni coinvolgimento di carattere emotivo, l’analisi capace di riassumere i dieci anni soderiniani che si legge sei capitoli dopo:
procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua patria mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere suo; ma come e’ vennero dipoi tempi dove e’ bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con la sua patria rovinò (III ix 13-14).
Analogo atteggiamento S. mostra di fronte alla necessità, per chi è a capo di una repubblica, di «spegnere l’invidia», di cui M. tratta in Discorsi III xxx, dove il gonfaloniere viene tristemente accostato al «profeta disarmato» Girolamo Savonarola:
Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze [...] che credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto che l’uno e l’altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia (§§ 18 e 21).
Le parole probabilmente più note che M. scrisse su S. sono quelle di un epitaffio satirico tramandatoci in due redazioni: «La notte che morì Pier Soderini, / l’alma n’andò de l’Inferno a la bocca; / e Pluto le gridò: “Anima sciocca, / che Inferno? Va’ nel Limbo tra’ bambini”» (lezione tràdita dal codice Magl. VII 271 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze e oggi accolta nelle moderne edizioni); e quella trasmessa dal codice 2803 della Biblioteca Riccardiana, che presenta un diverso attacco e schema metrico (Bausi 2005a, p. 272): «Sabato sera d’inferno alla bocca / l’anima giunse di Pier Soderini; / Pluton gli disse: “Via, anima sciocca, / che inferno? Al limbo su tra quei bambini”».
Come ha convincentemente argomentato Stefano Carrai, non c’è bisogno di datare i versi dopo la morte di S.; l’epitaffio è probabilmente fittizio, scritto cioè in vita del soggetto «secondo una tradizione ben attestata in latino e soprattutto in volgare» (Carrai 1999, p. 166). Sull’interpretazione da dare all’epitaffio – se, cioè, il genere letterario consenta o meno di obliterare lo sferzante giudizio umano, oltreché politico, su S. – la critica si è in passato divisa: Oreste Tommasini e Roberto Ridolfi, per es., non ci videro più che uno scherzo, dal quale non sarebbe dunque lecito trarre valutazioni morali e politiche. Diversamente, già nel 1925 Federico Chabod parlava invece di un’«ironia beffarda, ma non priva di dolorosa risonanza» (Scritti su Machiavelli, 1964, p. 71); Carlo Dionisotti sostenne successivamente che «l’epigramma gli riuscì sproporzionato al bisogno, sagomato e affilato da un antico rancore, che era tutto e soltanto suo» (1980, p. 33); Bernard Guillemain (1977, p. 68) definì l’epigramma «vraiment atroce»; e Luigi Blasucci è colpito dalla sua «forma radicale e impietosa, nella quale precipita un giudizio politico espresso in maniera ancor cauta e riguardosa nei Discorsi» (in N. Machiavelli, Scritti letterari, a cura di L. Blasucci, 1989, p. 438). È da accogliere come plausibile l’ipotesi, ancora di Carrai (1999, p. 166), che la poesia avesse solo un valore privato, «destinata ad una circolazione ristretta entro la breve cerchia degli amici fidati», e che, dunque, a S. potesse non giungere sotto gli occhi; è certo, comunque, che, se pur lo lesse o ne venne a conoscenza, non se ne ebbe a male, dal momento che l’amicizia e la stima per M. appaiono immutate ancora nel 1521, quando gli propone nuovamente – dopo aver già ventilato la possibilità di un incarico da cancelliere nella Repubblica adriatica di Ragusa – un impiego come segretario a Roma presso Prospero Colonna («molto meglio che stare costì a scrivere storie a fiorini di suggello», lettera del 13 apr. 1521, Lettere, p. 370); proposta che però M., già impegnato, appunto, nella stesura delle Istorie fiorentine, lasciò cadere.
Sono infine interessanti, a testimonianza dell’importanza di S. nella vita di M., le presenze dell’ex leader politico che alcuni critici hanno voluto ravvisare nel M. comico, sotto fattezze animali o personaggi teatrali. Per Mario Martelli, nell’Asino il gonfaloniere sarebbe raffigurato nel misterioso animale di vii, vv. 44-51 («Vidi un altro animal, non come quelli, / ma da natura fatto con più arte / [...] non dimostrava suo cuor generoso, / gli ugnoni avendo incatenato e i denti; / però si stava sfuggiasco e sdegnoso», particolari, per Martelli, confacenti all’esule, cfr. introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’Asino, a cura di M. Tarantino, 1990, pp. 39-40); per Bausi (2005a, p. 151), invece, S. sarebbe piuttosto ravvisabile poco sotto (vii, vv. 88-90) nel «cervio [...] che temeva forte, / or qua or là variando il cammino, / tanto aveva paura de la morte» (si ricordi che, come già detto, lo stemma dei Soderini recava tre teste di cervo con le corna in campo rosso). Alessandro Parronchi, ricordandosi che Plutarco descrive il condottiero ateniese Nicia come pavido e irresoluto, volle invece vedere il gonfaloniere dietro il messer Nicia della Mandragola (La prima rappresentazione della Mandragola, «La bibliofilia», 1962, 64, pp. 37-86, p. 60), anche se la maggior parte della critica è oggi propensa a ravvisare come oggetto satirico del personaggio, non una singola persona, ma l’intero vecchio ceto ottimatizio.
Bibliografia: F. Gilbert, Le idee politiche a Firenze al tempo di Savonarola e Soderini, in Id., Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1964, pp. 59-106; R. Pesman Cooper, L’elezione di Pier Soderini a gonfaloniere a vita. Note storiche, «Archivio storico italiano», 1967, 2, pp. 145-85; S. Bertelli, Petrus Soderinus Patriae Parens, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1969, 31, pp. 93-114; S. Bertelli, Pier Soderini “Vexillifer perpetuus reipublicae Florentinae”, in Renaissance stud ies in honor of Hans Baron, ed. by A. Molho, J.A. Tedeschi, Firenze 1971, pp. 335-59; B. Guillemain, À la tête de la République. Machiavel et Soderini, in Id., Machiavel. L’anthropologie politique, Genève 1977, pp. 63-78; H.C. Butters, Piero Soderini and the gold en age, «Italian studies», 1978, 33, pp. 56-71; S. Bertelli, “Uno magistrato per a lungho tempo o dogie”, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, 2° vol., Firenze 1980, pp. 451-94; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993; P. Larivaille, “Amo la patria mia più dell’anima”. La passione per Firenze nella genesi del Principe e dei Discorsi, in Niccolò Machiavelli. Politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 97-120; S. Carrai, Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico, in Id., I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma 1999, pp. 155-66; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario: vita e opere, Roma 2003; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005a; F. Bausi, Niccolò Machiavelli e Bartolomeo Scala: due schede, «Interpres», 2005b, 24, pp. 272-79; G. Inglese, Per Machiavelli: l’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; R. Pesman, Machiavelli, Piero Soderini, and the Republic of 1494-1512, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 48-62.