Piero Gobetti
Nella storia italiana il pensiero di Piero Gobetti, ispiratore dell’antifascismo di matrice liberale, segna uno snodo politico, culturale e civile fondamentale per comprendere problemi e insufficienze della vita nazionale; soprattutto per capire quanto la mancanza del senso concreto della libertà abbia impedito all’Italia di maturare una coscienza e una mentalità improntate alla modernità. La profonda intenzione etica che informa la breve vita di Gobetti rappresenta il filo conduttore lungo il quale si dipana l’esperienza unica, straordinaria e tragica di questo giovane, che costruisce il proprio percorso facendosi modello di quell’Italia moderna il cui vuoto civile e politico, riconducibile al «fallimento della rivoluzione italiana dell’’800», egli ritiene causa di un’aspra crisi, risolvibile solo con un passaggio rivoluzionario, ossia con una doppia palingenesi, morale e politica.
Piero Gobetti nasce a Torino il 19 giugno 1901, da una famiglia di origine contadina. Studente di notevole intelligenza, già durante gli studi al liceo Gioberti progetta con alcuni amici la sua prima rivista, «Energie nove», che inizia a uscire il 1° novembre 1918. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza nel 1922, si laurea con Gioele Solari con una tesi su La filosofia politica di Vittorio Alfieri. Vicino alle posizioni dell’«Unità» di Gaetano Salvemini e al movimento raccolto attorno alla sua rivista, impone all’attenzione della cultura italiana «Energie nove» per la qualità dei collaboratori e dei temi trattati. Dopo averne sospeso le pubblicazioni nel febbraio 1920, prendendo le distanze dal ‘problemismo’ di Salvemini – il quale, contro ogni astrattezza del pensiero, proponeva un metodo di riduzione a problemi concreti, da analizzare in ogni loro parte –, Gobetti segue da vicino l’occupazione delle fabbriche (settembre 1920); si dedica nel frattempo a un impegnativo programma di studi e di riflessione critica ad ampio spettro su temi storici, letterari e filosofici.
Nel gennaio 1921 diviene critico teatrale del quotidiano «L’Ordine nuovo», su invito di Antonio Gramsci che ne è il direttore. Nel gennaio 1922 annuncia l’uscita di una nuova rivista, «La Rivoluzione liberale», il cui primo numero vede la luce il 12 febbraio; il fine che si propone è quello di creare una nuova classe dirigente cosciente delle proprie tradizioni storiche e delle esigenze di partecipazione del popolo alla vita dello Stato. Già nel maggio dedica un numero al fascismo e, dall’autunno, la lotta al fascismo diviene il motore della rivista.
Nel gennaio 1923 sposa Ada Prospero e il 6 febbraio subisce il primo arresto; nell’aprile fonda la casa editrice Piero Gobetti e il 29 maggio viene nuovamente arrestato.
Nel marzo 1924 pubblica il volume La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. Strenuo e coraggioso oppositore del regime, all’impegno antifascista dedica ogni sua energia; gli viene perquisita l’abitazione e, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno), prende l’iniziativa di chiedere le dimissioni di Benito Mussolini. A Matteotti dedica il fascicolo del 1° luglio, e da lì all’autunno lavora alla costituzione di una nuova formazione politica. Il 5 settembre viene aggredito dai fascisti mentre esce di casa, a seguito di un attacco da lui mosso al deputato Carlo Delcroix che aveva provocato una violenta reazione da parte della stampa fascista. Nel dicembre nascono i primi gruppi di amici della rivista in diverse città italiane e, nello stesso mese, Gobetti fa uscire il primo numero della rivista letteraria «Il Baretti», che s’impone all’attenzione generale per la qualità della formula e dei collaboratori.
Dal gennaio 1925 si susseguono i sequestri di «La Rivoluzione liberale», e nel giugno comincia a maturare in Gobetti l’idea di andare in esilio per continuare il proprio lavoro; nel novembre le autorità gli impongono la rinuncia a qualsiasi attività giornalistica ed editoriale, la rivista cessa le pubblicazioni e l’esilio diviene una necessità. Il 28 dicembre gli nasce l’unico figlio, Paolo, e il 6 febbraio 1926 prende la via di Parigi, ove si ammala gravemente, accudito dagli amici Giuseppe Prezzolini, Luigi Emery e Francesco Saverio Nitti. Muore in clinica il 15 febbraio 1926. Viene sepolto al cimitero del Père Lachaise, ove ancora oggi riposa.
Gobetti concepisce la propria esistenza in quanto pensiero compiuto, e l’idea della compiutezza sovrintende coerentemente (in una sorta di persistenza psicologica irrinunciabile) tutto l’arco della sua breve vita, che lo vede impegnato in una costante riduzione a unità di ogni aspetto del proprio lavoro.
Per tali motivi non si coglie il significato del gobettismo (come scelta di vita che intreccia l’impegno pubblico con la costruzione della propria interiorità) se non si specifica come sia Gobetti stesso a delineare il ‘modello Gobetti’: l’avvio di un siffatto processo risiede nella decisione di ‘riscattarsi’ eticamente dal contesto familiare, vale a dire di autoformarsi consapevolmente. Per Gobetti, infatti, impegnarsi seriamente in un processo educativo significa riscattarsi intellettualmente dall’anonimato morale che caratterizza la propria famiglia, proiettando la propria vita in un ideale per il quale non è il denaro a conferire dignità agli esseri umani e la conquista dell’istruzione non rappresenta semplicemente il modo di uscire dalla condizione di inferiorità sociale che quotidianamente assillava i suoi genitori. In ogni scritto nel quale fa riferimento al suo percorso di formazione e alle origini da cui trae la sua motivazione, troviamo il richiamo al tema dell’aridità, talora chiamata aridezza, concetto che si coniuga, molto spesso, a quelli di volontà e di solitudine.
L’aridezza è la chiave per comprendere e riassumere il nucleo alla base della sua formazione e per interpretare il suo percorso; essa costituisce la cifra etica che connota tale nucleo in quanto pilastro edificativo di un progetto di vita morale inteso come pratica operosità. Una «fondamentale aridezza» e una «inesauribile volontà» sono le qualità che egli si riconosce, quelle che ne segnano il percorso esistenziale nella consapevolezza che la vita non dev’essere ridotta solo a una serie di esami e che si ha «bisogno di esami perché si è qualcosa» socialmente (L’editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, 1966, p. 42). Egli scrive ancora di sé:
Ho l’anima e l’inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l’ambiente in cui son vissuto non mi ha offerto comunicazioni; non ha alimentato i miei problemi; non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la sono dovuta creare io; se ho voluto capire ho dovuto vivere; il mio gusto si è formato per un duro proposito. Ho peccato per amore quasi infantile per la cultura, per la filosofia, bisognava bene che amassi qualcosa con tutta l’oscura violenza nascosta della mia originaria volontà di vivere […]. Cinico perché arido, forte perché solo e spregiudicato (p. 42).
L’aridità consente di costruire la realtà alla luce di un progetto spirituale; di realizzare quel «mondo ideale» che anche Ada condivide nella ricerca espressiva della propria personale compiutezza. L’esplicitazione del rapporto tra intenzione e progetto chiarisce la ragione per la quale tornano spesso nei suoi scritti i temi della solitudine, della forza e del sacrificio. Per Gobetti, infatti, al dovere della coscienza corrisponde la volontà di stare nella lotta, combattendo con audacia, intolleranza, sacrificio e dedizione.
Il riscatto dall’aridità si snoda per Gobetti in un contesto storico e territoriale ben preciso: vale a dire, la guerra e il Piemonte. La guerra, cui non ha partecipato per ragioni anagrafiche, gli appare come una chiamata alla maturità nazionale cui nessuno può sottrarsi, e Torino e il Piemonte rappresentano dei veri e propri luoghi morali. È nel Piemonte, infatti, che i risvolti tipici dell’aridità hanno un riscontro positivo, essendo una terra capace di coniugare «morale» e «pratica», come dimostrano le figure di Luigi Einaudi (1874-1961) e di Edoardo Giretti (1864-1940).
La figura e l’opera di Gobetti si configurano e si chiariscono, nel loro complesso, nella formula della «rivoluzione liberale»; essa, tuttavia, non è solo il punto di approdo di un intenso percorso intellettuale e politico, ma il costante riferimento di un’intenzione etica cui egli ispira la sua vita.
Il processo formativo che Gobetti persegue, innestandolo sul «riscatto dell’aridità», costituisce il paradigma stesso del modello costruttivo della rivoluzione liberale, cui è affidato il compito di portare l’Italia nell’ambito della «modernità». Con tale espressione va intesa la razionale acquisizione di una coscienza storica laicamente consapevole e basata su un liberalismo attivo, realizzazione compiuta di una libertà fondata su valori e opere concrete. Gobetti fa di se stesso il paradigma dell’Italia moderna, ossia dell’Italia della rivoluzione liberale.
La coscienza morale e culturale dello scarto storico nazionale rappresenta l’impulso fondamentale che induce a sentirsi attori del processo storico: il Paese nuovo si forma formando in primo luogo se stessi. Tale constatazione consente di capire come questo impegno per la continua ricerca di un’oggettiva superiorità etica, perseguito da Gobetti con chiarezza e senza ambiguità, si caratterizzi quale elemento di forte originalità rispetto ai percorsi, pure animati da nobili ragioni, di tanti giovani intellettuali che si propongono di essere dentro la storia italiana per cambiarla in profondità. Quello di Gobetti è un percorso di formazione di tale purezza etica da acquisire un valore pedagogico oggettivo e paradigmatico, configurandosi come valido per la ‘rigenerazione’ dell’uomo italiano. In ciò Gobetti è da subito un rivoluzionario per naturale inclinazione della sua intelligenza e della sua sensibilità alle questioni civili, che caratterizzano come umanesimo integrale il fattore fondante la modernità da conquistare.
Alla base di tale umanesimo vi sono la concretezza etica, in grado di generare comportamenti esemplari, il valore della libertà e l’idea di storia che deve informare la politica. Etica, libertà e storia rappresentano le qualità ‘espressive’ dell’uomo che si affida alla ragione e, attraverso la ragione dell’uomo, sorveglia l’azione della politica mediante l’operare della critica. Per Gobetti il giornalismo è la forma principale dell’esercizio critico. Infatti, mentre il giornalista è di solito inteso come colui che pratica una scrittura soggettivamente influenzata dai fattori psicologici personali, il critico esprime oggettività morale. Il giornalismo generico è un prodotto descrittivo, quello critico «un atto di volontà» (lettera a Lionello Fiumi del 1° gennaio 1919, in Carteggio 1918-1922, 2003, p. 18) che si propone, nell’essenza del suo farsi, di cogliere i contrasti.
La costruzione del proprio profilo di critico e la funzione che in quanto tale è chiamato a svolgere costituiscono il filo connettivo che lega la prima fase dell’impegno gobettiano, riconducibile, dal punto di vista temporale, alla prima serie della rivista «Energie nove» (novembre 1918-marzo 1919). In questo periodo, Gobetti getta le basi del proprio pensiero e della propria azione, mentre i percorsi privati e quelli pubblici s’intrecciano. Con la fine di «Energie nove» (febbraio 1920) inizia una nuova fase, in cui egli svilupperà la missione del critico per sopperire a quell’«assenza di organizzazione» che costituisce il cuore della crisi postbellica (Intermezzo, «Energie nove», 12 febbraio 1920, ora in Scritti politici, cit., p. 181) e per dominare i fatti della storia e conferire loro senso.
È un dato acquisito dalla storiografia gobettiana che l’occupazione delle fabbriche costituì un passaggio importante per la maturazione del suo pensiero; non tanto perché lo portò alla scoperta del movimento operaio nella sua concretezza di soggetto politico, quanto perché quegli avvenimenti gli consentirono di mettere a fuoco il problema della rivoluzione in Italia.
Nell’occupazione delle fabbriche, Gobetti intravede in prospettiva «la più grande battaglia ideale del secolo» (lettera ad Ada del 7 settembre 1920, in P. Gobetti, A. Gobetti, Nella tua breve esistenza, 1991, p. 376); se così realmente sarà, egli non potrà che collocarsi «necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio» (p. 376), appunto le qualità che devono saper dimostrare di possedere gli operai in quanto soggetto autonomo. Il raggiungimento di tale autonomia segnerà anche un cambiamento all’interno del movimento di Ordine nuovo, ossia nella componente politica cui gli operai fanno riferimento, in quanto espressione di una consapevole soggettività rivoluzionaria. L’osservazione non è di poco conto, sia in relazione all’interpretazione che Gobetti dà degli eventi, sia perché chiarisce la distinzione tra soggetto sociale – gli operai – e soggetto politico – Ordine nuovo –, e rappresenta un significativo indizio del tipo di rapporto che Gobetti sin dagli inizi instaura con il comunismo torinese, di cui è attento osservatore dall’interno in quanto collaboratore del giornale diretto da Gramsci.
Ricordando i suoi rapporti con Gobetti, Lelio Basso ha corretto un’immagine che lo vuole attratto quasi fatalmente dai comunisti, osservando:
Noi discutemmo profondamente la possibilità che si iscrivesse lui stesso al PSI a quell’epoca, siccome si pensa sempre a un Gobetti attorno al partito comunista, lui forse pensava viceversa (Amici di Gobetti, interviste a Lelio Basso e a Pietro Nenni, «Mezzosecolo», 2001-2002, p. 295).
L’auspicio che la classe operaia maturi una funzione di classe dirigente, dimostrando di essere in grado di guidare grandi e complesse realtà industriali e non lasciandosi attrarre da tentazioni collettivistiche, indica come Gobetti non persegua l’idea che la rivoluzione debba sradicare l’Italia dal contesto occidentale nel quale si trova, ma anzi auspichi che essa ve la radichi ben più profondamente, nel segno di quella modernità di cui la stessa cultura industriale è espressione. Tale convincimento si espliciterà, nel febbraio 1922, nel ritenere che
il tramonto del capitalismo, previsto e predicato dal Marx è un mito utilissimo, una delle più forti molle della storia moderna ma sarebbe ingenuo discuterne come di una verità scientifica o di un fatto serio. […] L’Italia non può aderire al blocco delle nazioni proletarie, perché le nazioni proletarie non esistono e la politica si fa con ben altro realismo. L’Italia deve aderire, non politicamente, ma economicamente […] all’Europa (e all’America) operosa (Crisi morale e crisi politica, «La Rivoluzione liberale», 19 febbraio 1922, ora in Scritti politici, cit., pp. 245 e 248).
Per Gobetti la rivoluzione italiana sarà possibile solo quando ci sarà una nazione italiana rinnovata moralmente e spiritualmente. Ed egli si interessa al movimento operaio nella sua funzione di critico della politica. Indicativo è quanto scrive a Santino Caramella l’8 agosto 1920:
Io ho per la politica interesse di studioso. Non ho mirato mai all’azione come tale, ma sempre ad una educazione politica. Credo che avvicinando il mondo de-
gli studi e la realtà pratica […] ne verrà vantaggio all’uno e all’altra. […] Tu sai che sono antimarxista e mi pare che il movimento operaio debba andare (e va infatti) per una via che si crea ogni giorno – il socialismo è il punto di partenza (non il marxismo che non è sentito) ma il punto di arrivo è sempre liberalismo, storia; contingenza dolorosa di problemi e di soluzioni che non sono mai in un sistema preconcetto, perché nascono dalla conciliazione pratica di quel sistema e di tutti gli altri secondo cui pensano gli uomini (Carteggio, cit., pp. 140-41).
Il socialismo, a suo avviso, è mancato all’appuntamento della storia. Gobetti contesta la tesi secondo la quale il fallimento del Partito socialista italiano sarebbe dovuto al fatto che esso perseguiva la rivoluzione; al contrario, tale fallimento si deve alle insufficienze rivoluzionarie del partito e alla sua mancata comprensione della propria funzione. Gobetti critica la pratica riformista di Filippo Turati: di fronte al problema italiano ci si doveva porre come ha fatto Matteotti, «l’oppositore più intelligente e più irriducibile tra i socialisti unitari» (Ho conosciuto Matteotti, «La Rivoluzione liberale», 17 giugno 1924, ora in Scritti politici, cit., p. 707), a cui il 1° luglio 1924, come già accennato, dedica un numero intero di «La Rivoluzione liberale». E due settimane dopo, a testimonianza del suo interesse per il mondo socialista al di là delle critiche, ospita un articolo di Carlo Rosselli intitolato Liberalismo socialista, che accompagna con una Nota in cui, tra l’altro, scrive che «anche il nostro liberalismo è socialista se si accetta il bilancio del marxismo e del socialismo da noi offerto più volte» («La Rivoluzione liberale», 15 luglio 1924, ora in Scritti politici, cit., p. 761).
Nell’estate del 1921 Gobetti ha ormai elaborato l’idea di liberalismo e ne ha individuato le radici storiche. In tale riflessione, centrale è l’esame critico che compie del moto risorgimentale, snodo fondamentale per «rifare la nostra cultura» (lettera ad Ada dell’8 settembre 1921, in Nella tua breve esistenza, cit., p. 495). La questione risorgimentale è essenziale per comprendere le questioni italiane e la riflessione su di esse che è alla base dell’elaborazione politica di Gobetti e della sua idea di Italia. Nel fallimento del moto risorgimentale affonda le sue radici l’esigenza rivoluzionaria provocata dalla crisi dell’Italia giolittiana – Gobetti, come Salvemini, è un acerrimo nemico della politica di Giovanni Giolitti – e della sua matrice liberale.
Egli è convinto del «fallimento della rivoluzione italiana dell’’800» (lettera a Giannotto Perelli del 12 dicembre 1920, in Carteggio, cit., p. 183) ed è interessato alle figure di Giovanni Maria Bertini, Luigi Ornato, Domenico Berti e, soprattutto, Vittorio Alfieri. Il suo lavoro di critica al Risorgimento presuppone un intento di ordine generale espresso, nel congedare la sua prima rivista, quando richiama «il fallimento ideale dell’Italia» (La rivoluzione italiana. Discorso ai collaboratori di «Energie Nove», «L’educazione nazionale», 30 novembre 1920, ora in Scritti politici, cit., p. 187). Ecco perché la questione del Risorgimento costituisce il corpo centrale dell’elaborazione di Gobetti, poiché
soltanto se ci sarà chiaro il problema dell’unità nel nostro Risorgimento, il problema dello Stato e dei suoi fondamenti ideali e pratici, potremo nella realtà imporre la nuova idea (p. 188).
Il Risorgimento, malgrado la conquista dell’indipendenza, non ha generato un processo autonomo e ha lasciato irrisolta la questione della nazione. Gobetti ritiene che l’essenza «dello Stato moderno come Stato-libertà dei cittadini» coincida «col concetto di rivoluzione», che è già liberale poiché «perenne in se stessi il principio della loro attività e autorità morale: la rivoluzione coincide dunque col concetto stesso di funzione del popolo» (La crisi rivoluzionaria dell’Ottocento in Italia, «L’Arduo», 31 maggio 1921, ora in Scritti storici, letterari e filosofici, 1969, p. 165). Ne consegue che le ragioni della rivoluzione liberale risiedono in ciò che il Risorgimento non è stato, e non tanto come moto politico quanto come processo morale e culturale da parte di cittadini coscienti. Questi, vivificando l’essere della Nazione – ossia il dato unitario che presuppone e invera la nazione medesima – determinano la forma stessa dello Stato quale sintesi di un’iniziativa continua che si concretizza nella libertà, principio ispiratore fondamentale dell’individuo e dei cittadini, del singolo come della società. Al Risorgimento è mancata una «classe di governo» adeguata, ossia un’élite, ed è questo uno dei temi che caratterizza il pensiero politico di Gobetti. Più in generale, poi, all’Italia è mancata una riforma religiosa, questione che attiene alla libertà e alla necessità di una coscienza civile.
Il tema della libertà costituisce la linea guida di tutto il pensiero gobettiano. Come egli evidenzia nel Manifesto con cui apre, nel 1922, «La Rivoluzione liberale», tre sono i punti sui quali deve agire la sua iniziativa:
1) la mancanza di una classe dirigente come classe politica; 2) la mancanza di una vita economica moderna, ossia di una classe tecnica progredita […]; 3) la mancanza di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà (Manifesto, «La Rivoluzione liberale», 12 febbraio 1922, ora in Scritti politici, cit., p. 229).
Questi tre punti si riconducono alla questione della libertà e del suo pratico estrinsecarsi, ossia di una «lotta politica aperta» la quale, per esistere, presuppone classi dirigenti liberamente scelte.
Gobetti non definisce il suo liberalismo proprio perché è un liberale: pur associando l’aggettivo liberale al sostantivo rivoluzione, qualifica il suo liberalismo come «potenziale», vale a dire come una concezione politico-dottrinaria che aderisce alle iniziative autonomistiche di tipo nuovo, quelle che evidenziano momenti di rottura sociale e politica facendo emergere soggettività che animano dialetticamente il quadro nazionale. Il liberalismo gobettiano resta, dunque, dottrinariamente indefinito, benché si precisi implicitamente nella coincidenza con «le forze rivoluzionarie creative» poiché è, per sua intima natura, rivoluzionario. Per Gobetti, infatti,
il liberalismo soddisfa l’esigenza conservatrice creando un governo, ma per arricchire la spiritualità della vita sociale non può agire che come forza rivoluzionaria, come opposizione ai falsi realismi, alle idolatrie dei fatti compiuti. La funzione del liberalismo è mancata il giorno in cui ha dovuto assumere una responsabilità di governo. Il liberalismo può estrinsecare la sua capacità creativa di uno Stato soltanto attraverso un autonomo processo di disciplina libertaria (Liberali e conservatori, «La Rivoluzione liberale», 26 marzo 1922, ora in Scritti politici, cit., p. 277).
In un articolo del maggio 1922, Gobetti definisce il fascismo, nelle sue manifestazioni squadristiche, come espressione di un’«insufficienza ideale», testimonianza di «riscossa padronale» e soggetto che «arma gli esasperati della guerra e gli avventurieri della borghesia intellettuale»; esso è «il termometro della nostra crisi, la misura dell’impotenza del popolo a crearsi uno Stato» (Esperienza liberale, «La Rivoluzione liberale», 28 maggio 1922, ora in Scritti politici, cit., p. 356). Il fascismo rappresenta quindi un epifenomeno dell’equivoco del liberalismo italiano, caratterizzato dall’assenza di ogni preoccupazione ricostruttiva nei confronti dello Stato e chiara espressione della «malattia nazionale», vale a dire di quelle insufficienze morali e ideali che si vanno aggravando sempre più, in un rapporto perverso tra causa ed effetto. In questo testo Gobetti storicizza il fascismo per quello che è, contro ogni illusione riguardante il suo possibile riassorbimento nei canoni dello Stato liberale e il suo possibile evolversi in canoni di ordine democratico. Scrive infatti:
La guerra ha generato una crisi di orgoglio e una negazione di tutte le misure negli spiriti. Piccoli individui hanno avuto l’illusione, attraverso un’esperienza eccezionale, di difendere e incarnare l’originalità di un popolo o di un mondo. In realtà nessun partito può sostituire lo Stato, a nessun movimento sociale può spettare la funzione del coordinamento della volontà e del rafforzamento della coesione degli spiriti, perché queste sono funzioni che non hanno organo, e si realizzano per impulsi di lotta e di consenso in un processo tutto immanente (p. 357).
Il fascismo appare a Gobetti come la risultante politica dello stato morale del Paese, il frutto della sua crisi spirituale e sociale, un fenomeno intrinsecamente antipolitico, motivato da miti dogmatici e anacronistico; e Mussolini, «torbido condottiero di compagnie di ventura», per quanto «rozzo, povero d’idee è riuscito talvolta, per la robustezza e disinvoltura, l’ostetrico della storia» (Uomini e idee, «La Rivoluzione liberale», 28 maggio 1922, ora in Scritti politici, cit., p. 360).
Il fascismo, quindi, gli conferma la necessità che la cultura politica subisca un processo di educazione e di rivoluzione e che si attui una prassi in grado di riscattare il Paese da una «immaturità politica» tale da richiedere «il duro sforzo di una precisa responsabilità ideale» (Note di politica interna, «La Rivoluzione liberale», 30 luglio 1922, ora in Scritti politici, cit., p. 397).
Anche in questa netta posizione sul fascismo appare evidente come per Gobetti, liberale non schierato in un campo politico-partitico, solo l’assunzione integrale della libertà (e della dialettica connessa) conferisce moralità e rinnovamento alla lotta politica democratica. In una nozione ampia di libertà egli comprende idee, fatti storici e uomini molto diversi ideologicamente tra loro. Tale posizione continua a essere oggi motivo di discussione, così come la questione se egli possa realmente essere definito un liberale per i giudizi positivi espressi sulla Rivoluzione d’ottobre, pur essendo – e più volte lo dichiara – né comunista, né attratto dal comunismo. Il suo pensiero politico, tra i più originali del Novecento italiano, ha inoltre pervaso la disputa e le polemiche che si sono via via accese sull’esperienza del Partito d’azione e sul significato della ‘cultura azionista’. Il fatto che, a tanti anni dalla morte, la figura e le idee di Gobetti accendano ancora vivaci dibattiti conferma quanto forte sia il suo radicamento nella storia politico-culturale italiana.
La filosofia politica di Vittorio Alfieri, Torino 1923.
La frustra teatrale, Milano 1923.
La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna 1924 (poi Torino 1948; poi con un saggio introduttivo di G. De Caro, Torino 1965; poi a cura di E. Alessandrone Perona, Torino 1983; poi con un saggio di P. Flores d’Arcais, Torino 1995; poi a cura di E. Sbardella, Roma 1988; poi con prefazione di A. Carioti, Milano 2011).
Paradosso dello spirito russo, e altri scritti sulla rivoluzione russa, Torino 1926.
Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero piemontese nel Risorgimento, Torino 1926.
Opera critica, 2 voll., Torino 1927.
Scritti attuali, prefazione di U. Calosso, Roma 1945.
Antologia della «Rivoluzione liberale», a cura di N. Valeri, Torino 1948.
Coscienza liberale e classe operaia, a cura di P. Spriano, Torino 1951.
Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso, L. Anderlini, Milano 1961.
L’editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, a cura e con prefazione di F. Antonicelli, Milano 1966.
Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1969.
Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, con due note di V. Strada e F. Venturi, Torino 1969.
Gobetti e «La Voce», a cura di G. Prezzolini, Firenze 1971.
Scritti di critica teatrale, a cura e con introduzione di G. Guazzotti, C. Gobetti, Torino 1974.
P. Gobetti, A. Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1908-1926, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino 1991.
Al nostro posto. Scritti politici da «La Rivoluzione liberale», con un saggio di L. Einaudi, a cura di P. Costa, A. Riscassi, Arezzo 1996.
Con animo di liberale. Piero Gobetti e i popolari. Carteggi 1918-1926, a cura di B. Gariglio, presentazione di G. De Rosa, Milano 1997.
Dizionario delle idee, a cura di S. Bucchi, Roma 1997.
Scritti sull’arte, a cura di M. De Benedictis, prefazione di R. Crovi, Torino 2000.
Carteggio 1918-1922, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino 2003.
Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali, a cura di G. Davico Bonino, con uno scritto di C. Dionisotti, Nardò 2010.
G. Carocci, Piero Gobetti nella storia del pensiero politico, «Belfagor», 1951, 2, pp. 130-48.
P. Bagnoli, Piero Gobetti: cultura e politica in un liberale del Novecento, prefazione di N. Bobbio, Firenze 1984.
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L’Archivio di Piero Gobetti. Tracce di una prodigiosa giovinezza, a cura di S. Barbalato, con contributi di C. Gobetti, E. Alessandrone Perona, M. Scavino, Milano 2010.