MARONCELLI, Piero
– Terzo di cinque figli, nacque a Forlì il 21 sett. 1795 da Antonio, un sensale di modeste condizioni, e da Maria Iraldi Bonnet. Compiuti gli studi classici in città, probabilmente sul finire del 1809 lasciò Forlì per recarsi a Napoli e lì studiare, grazie al sussidio di un’opera pia forlivese, musica e lettere nel real collegio S. Sebastiano. Fu condiscepolo, fra gli altri, di S. Mercadante e V. Bellini, ed ebbe tra i suoi maestri G. Paisiello.
Trascorse in collegio «tre anni, i quali – avrebbe ricostruito a beneficio della polizia asburgica nell’interrogatorio del 7 ott. 1820 – io credetti sufficienti ad istruirmi nel contrapunto. In questo momento, che fu dal 1810 fino al 1813 la camera dei grandi, alla quale io pure appartenni, soleva per costume essere ricevuta nella Società Massonica con intelligenza de’ superiori del Collegio, e del Ministro Zurlo, ad oggetto di formare la musica che poteva occorrere nelle feste massoniche» (Luzio, pp. 355 s.). Il M., quindi, fu iniziato alla massoneria – e in particolare all’«unione» detta «Colonna Armonica» – in epoca murattiana, quando essa costituiva una delle forme di sociabilità predilette dal notabilato d’impronta napoleonica.
Uscito dal collegio nel 1813, rimase a Napoli ancora un biennio per continuare lo studio della musica. Fu nell’aprile del 1815, alla conclusione dell’avventura murattiana, che il M., arruolato fra le «guardie di sicurezza interna» in seguito alla campagna del re di Napoli nell’Italia settentrionale, si trovò, tramite un capitano, a contatto con la carboneria, alla quale fu iniziato con il fratello Francesco, studente di medicina, pure lui presente in città e guardia per un breve periodo. Si trattò di un apprendistato molto rapido: dopo neppure un mese, il ritorno dei Borbone dalla Sicilia costrinse i settari a un’immediata immersione nella clandestinità. L’esperienza napoletana, tanto sotto il profilo artistico quanto sotto il profilo politico, si rivelò dunque decisiva per il M.: da un lato consolidò la sua formazione musicale, dall’altro riuscì ad avere diretta esperienza di ciò che l’universo massonico e quello carbonaro significavano all’interno di un contesto politico non ostile come il Regno murattiano. Non solo: conobbe, sia pure superficialmente, tanto la funzione sociale dell’organizzazione massonica, quanto il ruolo rivestito dalla carboneria all’interno delle forze armate quale elemento di solidarietà e di fratellanza. Una peculiarità, quest’ultima, particolarmente importante nel caso meridionale, molto meno in quello padano, nel quale si trovò poi a operare.
Rientrò a Forlì sul finire del 1815, quando anche la sua città, fra le più filonapoleoniche della Romagna, era ormai stata normalizzata e restituita al legato pontificio. I legami intessuti tra la fugace amministrazione murattiana e gli ambienti liberali urbani sono testimoniati dalle molte centinaia di uomini che avevano abbandonato la città per seguire re Gioacchino nella sua ultima avventura; ed è probabile che proprio in tale milieu il giovane M. non tardasse a identificare un gruppo d’individui simile, per attitudini, esperienze e idee, a quello che aveva lasciato a Napoli.
Il padre, tuttavia, incoraggiò la sua vocazione musicale e, per sdebitarsi con l’opera pia che aveva mantenuto il figlio agli studi, lo indusse a produrre una composizione per onorare i suoi benefattori. Per assecondare la volontà del padre, il M. si trasferì a Bologna nel gennaio 1816 fondandovi una Società filedonica che, sotto l’apparenza di accademia letteraria, nascondeva una chiara matrice carbonara, visibile fin nel giuramento d’iniziazione, con il quale si prometteva «implacabile inimicizia ai tiranni».
Tornato a Forlì verso la metà del 1817, il M. entrò in contatto con la vendita carbonica detta dell’«Amaranto», che si riuniva nella villa del conte P. Saffi a San Varano. Ne erano capi gli avvocati G.B. Masotti e L. Petrucci, oltre al conte G. Orselli e al tipografo S. Casali. La vendita costituiva il vertice di una struttura alquanto ramificata, che prevedeva l’organizzazione dei ceti artigiani all’interno di una più numerosa «turba liberale», sorta di organizzazione a metà fra la società di mutuo soccorso e il circolo politico.
In quegli anni Forlì costituiva, con Faenza, il centro propulsore dell’opposizione liberale carbonara: eredità diretta del successo che le idee rivoluzionarie e napoleoniche avevano riscosso presso il notabilato urbano, fra l’altro precocemente convertitosi alla modernizzazione amministrativa importata dai Francesi anche in virtù dell’elevazione della città a capoluogo del Dipartimento del Rubicone (1798). Esistevano, quindi, robuste continuità – sul terreno culturale e sociale – tali da rendere l’attività carbonara tutt’altro che effimera e anzi pericolosa per il governo pontificio assai più per la sopravvivenza di un centro di potere «ombra», laico e ramificato nelle botteghe e negli esercizi commerciali, che per la potenzialità eversiva del disegno politico, peraltro alquanto confuso anche presso l’élite, in tutto alcune decine di persone, raccolta nella vendita dell’«Amaranto».
Stimolato dal successo incontrato dalle idee carbonare, il M. non tardò molto a mettersi in luce, scrivendo il 25 luglio 1817, in occasione della festa di S. Giacomo, una cantica in terzine dantesche dall’impianto involuto e criptico, il cui contenuto sovversivo, inizialmente sfuggito alle autorità di censura (che ne permisero la diffusione in 200 copie), fu ben presto causa del suo arresto, il 30 luglio 1817, e di un processo che lo vide inquisito a Roma per oltre un anno, fino all’agosto 1818. Tornato in libertà, riprese l’attività cospirativa, insieme con Masotti, che aveva sposato sua sorella Eurosia. Il ruolo del M., autentico rivoluzionario a tempo pieno, fu quello di collegamento tra i diversi contesti locali del movimento carbonaro.
Egli avrebbe più tardi ammesso di aver tenuto i contatti con l’altro ambiente favorevole alla causa, quello faentino, e di essere stato fra i protagonisti dell’avventura editoriale del Quadragesimale italiano che, uscito per la prima volta il 24 febbr. 1819, può essere considerato fra i primi esempi di pubblicazioni a sfondo politico-patriottico-costituzionale apparse in Italia. Si collocava infatti su una linea costituzionale d’ispirazione monarchico-federalista: si sarebbe trattato di costruire un’Italia federata, garantendo le libertà fondamentali e i diritti civili, e insieme assicurando larga autonomia amministrativa ai preesistenti stati regionali.
In realtà, il circuito cui erano destinate queste proposte appariva, in Romagna, alquanto limitato; ragion per cui al M. non dovette affatto dispiacere il trasferimento a Milano, alla ricerca di un lavoro più stabile, propiziato dall’invito del fratello Francesco, che a Pavia esercitava la professione medica, nell’agosto 1819, in seguito alla morte del padre (30 aprile). A Milano il M. lavorò dapprima presso Ricordi, quindi presso gli editori Bettoni e poi Battelli. Diede lezioni di musica, ma ciò che lo attrasse maggiormente fu l’assidua frequentazione di quello che era stato il cenacolo del Conciliatore: un’esperienza che lo avrebbe segnato per sempre e alla quale sarebbe tornato più volte nei suoi ricordi come alla stagione più ricca di speranze della sua giovinezza. Nel 1820, quando la compagnia Marchionni era a Milano per una serie di spettacoli protratti fino a tutto agosto in virtù del grande successo riscosso, il M. fu scritturato per mettere in scena le farse in musica. In giugno in casa Marchionni conobbe Silvio Pellico, al quale si sentì subito affine per gusti e formazione; inoltre entrambi s’erano invaghiti delle due attrici Marchionni, il M. di Carlotta e Silvio di Teresa. Alla politica non pensarono fino all’estate, quando il M. lasciò Milano: fu allora che recuperò la passione patriottica manifestatasi per l’ultima volta nell’agosto precedente a Pavia, durante una riunione di studenti romagnoli. Affiliò alla carboneria l’amico Pellico, poi il conte L. Porro Lambertenghi; quindi riprese i contatti con i suoi ambienti d’origine per importare materiali e impiantare la cospirazione su una base più solida.
Fu tutto molto rapido: poche settimane al più. Coltivava l’idea di un possibile movimento in favore dell’unità di alcune regioni anche sotto la monarchia asburgica, se questa avesse assunto il volto di un’illuminata monarchia amministrativa: sempre meglio del governo del papa o dei regimi dispotici degli altri principi italiani. Le idee erano confuse ma i contatti, gli incontri, gli sguardi furtivi insospettirono la polizia austriaca che certo non mancava di informatori. Il M. fu il primo a essere arrestato, il 6 ott. 1820. Interrogato a Milano, con il suo «costituto» del 7 ottobre spianò la via all’inquisitore A. Salvotti, che fece catturare, tra gli altri, Pellico, F. Confalonieri, Porro. Detenuto a Venezia durante il processo, il M. si comportò come un perfetto bohémien dal temperamento irriflessivo e dall’idealismo ingenuo e retorico: leggeva con assiduità e teneva un comportamento sprezzante al limite della temerarietà. Condannato a morte con sentenza del 21 febbr. 1822, ebbe la pena commutata in venti anni di carcere e fu rinchiuso nella fortezza morava dello Spielberg, dove entrò il 10 apr. 1822 insieme con Pellico. Vi rimase fino all’estate del 1830, quando, per effetto della grazia imperiale concessa il 26 luglio, fu scarcerato.
I lunghi anni trascorsi allo Spielberg, raccontati da Pellico ne Le mie prigioni, lo resero celeberrimo, anche in virtù della sua penosa vicenda personale: l’amputazione della gamba sinistra sopra al ginocchio a causa di una cancrena, sopportata con straordinario coraggio.
Il M. uscì dunque mutilato dallo Spielberg e, fra il 1830 e il 1831, in un clima di relativa libertà alimentato dalle speranze della Rivoluzione di luglio anche in Italia, si portò a Bologna e quindi a Firenze. Ma l’ambiente italiano non faceva più per lui, che nella segregazione del carcere aveva progressivamente abbandonato la linea riformatrice della carboneria per attingere a idee più radicali. Decise così, all’inizio del 1831, di trasferirsi in Francia, dove restò fino al 1833. A Parigi – il 5 marzo 1831 incontrò il re Luigi Filippo – sperò di poter dare alle stampe le sue memorie, ma fu battuto sul tempo da Pellico, il cui capolavoro apparve nel novembre 1832. Pur riconoscendo che non avrebbe potuto competere con il «libro ammirevole» dell’amico, il M. ritenne che potesse esservi spazio per precisazioni e commenti ulteriori. Si dedicò, quindi, alla redazione delle Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico che, annunciate dall’Esule di A. Frignani e F. Pescantini (periodico italiano pubblicato a Parigi), videro la luce – sempre a Parigi – nella seconda metà del 1833.
Le Addizioni non sono un’opera infelice sotto il profilo letterario e costituiscono una utile fonte per comprendere il percorso politico-culturale del M., in particolare la stagione del Conciliatore. Il M. sosteneva che, per superare il dualismo classicismo-romanticismo, rivelatosi nocivo al «foglio azzurro», occorreva ricostruire l’estetica su nuove basi, che indicava nel «cormentalismo», sintesi di «mente» e di «core» e quindi espressione di un’ispirazione solida e di una base etica altrettanto inossidabile. Seguiva la classificazione degli autori della tradizione italiana secondo schemi ingenuamente rigidi. L’accoglienza del testo, fra gli esuli e la cerchia del Conciliatore, non fu in genere favorevole: si perdonò al M., in ragione del suo sacrificio, una prova decisamente modesta. Per tutti valga il giudizio di Pellico, contenuto in una lettera al M. del luglio 1838: «t’amo assai, non ostante quel tuo ingegnoso, ma disarmonico libro delle Addizioni, ove più cose ti furono dettate dalla fretta, dalla passione e da erronee ipotesi» (Fabretti, Briciole, p. 653).
Fu a Parigi che il M., fautore di un cristianesimo evangelico-umanitario e di una cultura non violenta, si avvicinò al pensiero di Cl.-H. de Saint-Simon e di Ch. Fourier, senza dubbio grazie alla frequentazione del salotto di Cristina Trivulzio Barbiano di Belgioioso. La lettura del giornale Le Phalanstère (uscito dal giugno 1832), in particolare, lo indusse ad abbracciare con entusiasmo la nuova fede nell’associazione fourierista e nel mondo «armonico», che non sarebbe più uscita dalla sua mente e dal suo cuore.
Tuttavia la Francia, culla delle grandi speranze culminate nelle giornate del luglio 1830, non era più – sotto Luigi Filippo – il luogo adatto per rifondare l’umanità. Il M., che per tutta la vita era stato in fondo un déraciné, s’illuse di poter trovare in una società del tutto «nuova» il contesto ideale per progettare il suo futuro. Tanto più che, sposatosi a Parigi, il 1° ag. 1833 con Amalia Schneider, contralto di origine tedesca, gli si offerse l’opportunità di lavorare in una compagnia che l’impresario V. de Rivafinoli stava formando per l’apertura del primo teatro dedicato all’opera italiana a New York, fortemente voluto da Lorenzo Da Ponte. Il M. e la moglie s’imbarcarono sul piroscafo «Erie» a Le Havre il 24 ag. 1833 e già alla fine di settembre un giornale newyorkese parlava di loro. Il teatro (l’Italian Opera House), dove il M. dirigeva il coro, fu inaugurato il 18 nov. 1833 con La gazza ladra di G. Rossini che mieté un grande successo. La stagione proseguì fino al 5 apr. 1834 ma, a causa della gestione avventurosa del Rivafinoli, non produsse i risultati sperati. Di conseguenza, il M. dovette cercare allievi cui insegnare musica o lingua italiana, mentre la moglie si esibiva in concerti ovunque fosse possibile. Nel frattempo, l’eco delle avventure contenute nelle Mie prigioni (rimbalzata nell’Edinburgh Review fin dal luglio 1833), disponibili in traduzione – fra cui quella, considerata scadente, pubblicata da Th. Roscoe a Londra nel 1833 – oltre a rendere l’illustre esule forlivese un personaggio della comunità newyorkese (al punto che E.A. Poe gli avrebbe dedicato un profilo), indusse il M. a mettersi in contatto con intellettuali e tipografi per tentare una nuova edizione in inglese che unisse al testo principale le sue Addizioni. L’amicizia con un professore dell’università di Harvard, A. Norton, permise il conseguimento dell’obiettivo solo nel 1836, quando il M. cominciava a soffrire dei primi sintomi della cecità. Nel settembre 1835 il M. e Amalia avevano avuto una bambina, battezzata Silvia in onore del grande amico, padrino per procura.
Nonostante le difficoltà, il M. trovò a New York un luogo compatibile con la sua mentalità. Entrato nella Fourier Society, fondata nel 1837, ancora nel giugno del 1840 scriveva a Confalonieri: «non andrà guari che un Falansterio Tipo sarà il segnale onde cessino nel mondo la miseria, i delitti, lo spirito rivoluzionario, e persino i morbi contagiosi»; esortava, quindi, l’amico a farsi apostolo presso la «gioventù italiana, onde ritrarla dalle illusioni politiche alle vie organatrici e pacifiche della fondazione di una Falange» (Fabretti, Briciole, p. 654). Nell’ottobre 1841, in un’altra lettera, indirizzata a Zoé Gatti de Gamond (moglie del pittore ravennate G.B. Gatti, esule in Belgio dopo la Rivoluzione del 1831), accentuò ulteriormente la sua distanza dal «prétendu Liberalisme» della Giovine Italia, che a suo parere equivocava il termine associazione declinandolo secondo una modalità prevalentemente politica e dottrinaria (ibid., p. 656). A New York egli divenne componente del comitato esecutivo del giornale fourierista The Phalanx, ma soprattutto poté professare liberamente le sue idee eterodosse in fatto di religione, così come la sua fede umanitaria, che lo rendevano prossimo a una frazione dell’élite intellettuale composta tanto da straordinarie figure del «vecchio mondo», come il leggendario Da Ponte, quanto da scrittori e pensatori tentati dalle pratiche esoteriche e dall’occultismo, sulla scia dei nuovi cristiani che seguivano le tesi di E. Swedenborg. E se alla fine non trovò il desiderato falansterio (descrisse, anzi, con ironia, in una lettera alla moglie, un «Pik Nik Falansteriano» tenuto il 4 ag. 1842: cit., in Cetti, 1993, pp. 390 s.), tuttavia finì per adattarsi a una società assai più libera, benché altrettanto egoista e materialista di quella nella quale aveva vissuto in Europa con tanta difficoltà.
Gli anni successivi furono segnati da condizioni di salute via via sempre più precarie fino alla morte, che colse il M. a New York il 1° ag. 1846.
La moglie, che nel 1842 era tornata in Europa «per salute e per raffinamento d’arte», dopo averlo assistito con continuità restò a New York con la figlia ma, probabilmente dopo il 1860, fece ritorno in Germania. Silvia, nel frattempo, aveva sposato il dottor Emil Müller. Amalia morì nel 1895, la figlia nel 1914 a Berlino.
Sepolti nel cimitero di Greenwood a Brooklyn, i resti del M. furono solennemente riportati in patria il 12 ag. 1886 per essere tumulati nel famedio del cimitero monumentale di Forlì, appena inaugurato. L’ultimo saluto al patriota, di cui si celebrava il contributo reso alla causa «nazionale» attraverso l’adesione alla carboneria e la cospirazione, fu tributato in primo luogo dal mondo radical-repubblicano e massonico, impersonato a Forlì dalla figura di A. Saffi. Si tacquero, e non poteva essere altrimenti, le idee eterodosse predicate e praticate dopo il 1830: il M. doveva restare un’icona incontaminata del Risorgimento, la quintessenza dell’eroismo e del sacrificio celebrati da Pellico nelle Mie prigioni.
Opere: In ricorrenza della festa di S. Giacomo Maggiore nella chiesa parrocchiale di tal nome al parroco sig. don Giovanni Ricci un ammiratore della divota, e solenne pompa in segno di stima sincerissima offre, Forlì 1817 (foglio volante); Vita di Arcangelo Corelli, in Vite e ritratti di italiani illustri, II, Milano 1820; Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico, seguite dalle due tragedie Francesca da Rimini ed Eufemio da Messina, Parigi 1833 (rist., subito dopo, Italia 1833; London 1833; Lugano 1834). Fra le edizioni moderne: S. Pellico, Le mie prigioni con le Addizioni di P. Maroncelli, a cura di S. Spellanzon, Milano 1984.
Fonti e Bibl.: Il principale nucleo di documenti relativi al M., in parte editi, è conservato a Forlì presso la Biblioteca comunale A. Saffi; sulle origini del fondo si veda O. Fabretti, Le ultime carte di P. M., in Rass. stor. del Risorgimento, V (1918), pp. 717-722. Fra le più significative edizioni delle lettere e delle memorie: O. Fabretti, Frammenti inediti delle «Memorie autobiografiche» di P. M., in Il Risorgimento italiano, VII (1914), pp. 567-571; Id., Briciole maroncelliane. (Da documenti inediti), in Rass. stor. del Risorgimento, II (1915), pp. 637-657; A.H. Lograsso, P. M. in America, ibid., XV (1928), pp. 894-941; L. Cetti, P. M.: lettere dall’America, 1834-1844, in Il Risorgimento, XLV (1993), pp. 336-421. Per gli studi sul M., oltre alle indicazioni fornite in Bibliografia dell’età del Risorgimento, in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 296 s., si veda: A. Luzio, Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903; A.H. Lograsso, P. M., Roma 1958 (che rimane la biografia di riferimento). Da segnalare anche la rivista forlivese La Piè, XV (1946), 8 (fascicolo dedicato interamente al M. nel centenario della morte). Cfr., inoltre, per un approccio più divulgativo, A.M. Mambelli, P. M.: una vita per la libertà e la giustizia, Ravenna 1991. Per i contributi più recenti: P. M.: materiali per un itinerario attraverso il Museo del Risorgimento, la Biblioteca A. Saffi e la città, a cura di F. Bugani, Forlì 1995; P. M. L’itinerario di un romantico dalla carboneria al fourierismo, nell’Età della Restaurazione. Atti del Convegno… 1995, a cura di F. Bugani, Forlì 1997; F. Della Peruta, P. M. dalla carboneria al fourierismo, in Id., L’Italia del Risorgimento. Problemi, momenti, figure, Milano 1997, pp. 30-37; L. Cetti, P. M.: un fourierista tra nuovo e vecchio mondo, in Le radici del socialismo italiano. Atti del Convegno… 1994, a cura di L. Romaniello, Milano 1997, pp. 45-56; R. Balzani, I carbonari romagnoli: élite politica o organizzazione di notabili?, in La nascita della nazione. La carboneria. Intrecci veneti, nazionali, internazionali, a cura di G. Berti - F. Della Peruta, Rovigo 2004, pp. 221-233.