MARTINETTI, Piero
– Nacque a Pont Canavese il 21 ag. 1872 da Francesco, avvocato, e Rosalia Bertogliatti, primo di quattro figli. Dopo avere frequentato il collegio civico di Ivrea, si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia di Torino nel 1889, dove ebbe come maestri G. Allievo, R. Bobba, P. D’Ercole, G. Flechia, A. Graf. Si laureò nel 1893 con una tesi su Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana (Torino 1896) che vinse il premio Gautieri. Perfezionò gli studi di filosofia e di psicologia a Lipsia, dove soggiornò nel 1894-95, quando era ancora forte la lezione di W. Wundt. Dopo un periodo di insegnamento nei licei (1899-1905), vinse il concorso universitario di filosofia teoretica nel 1905, risultando secondo nella terna con B. Varisco e G. Villa. Chiamato sulla cattedra di filosofia dell’Accademia scientifico-letteraria di Milano nel 1906, vi insegnò fino al 1931.
L’orientamento filosofico del M., nel periodo che precede la guerra 1914-18, è ben sintetizzato nel volume Introduzione alla metafisica, I, Teoria della conoscenza (Torino 1904), che ne riassume la filosofia teoretica. Pur partecipando al generale clima europeo di rinascita idealistica, egli non condivide la polemica contro la scienza positiva dei neohegeliani (filosofia e scienza non si distinguono per lui in base all’oggetto, ma al metodo) e si indirizza verso un «idealismo critico» affine a quello neokantiano, ma con una più netta accentuazione del motivo metafisico della «trascendenza». Il suo «idealismo trascendente» gli attirò le simpatie dei modernisti milanesi (T.A. Gallarati Scotti e S. Jacini, che fu suo allievo), raccolti attorno alla rivista Il Rinnovamento, in polemica con quello «immanente» di B. Croce e G. Gentile. Come avrebbe scritto in seguito il M.: «l’idealismo immanente è un adattamento della concezione idealistica alle tendenze naturalistiche, empiriche» (Saggi e discorsi, Torino 1926, p. 76). Ammiratore di L.N. Tolstoj e di A. Spir, attinse da queste due profonde personalità religiose, in cui si incontravano drammaticamente lo spirito dell’Oriente e quello dell’Occidente, una visione «gnostica» del cristianesimo, del tutto libera e scevra da preoccupazioni confessionali.
La guerra, con il suo carico immane di drammi umani e civili, segnò uno spartiacque ideale negli orientamenti della intellighenzia europea, di cui il M. fu interprete sensibile. In alcuni scritti inediti, testimonia la propria profonda avversione morale alla guerra e allo spirito militarista, in cui vede una degenerazione dell’autentico patriottismo liberale del filosofo da lui prediletto (insieme con A. Schopenhauer) nella sua prima giovinezza: J.G. Fichte. Con la fondazione a Milano, nel gennaio 1920, di una Società di studi filosofici e religiosi, egli si propose di affiancare al magistero universitario una attività più «popolare», di formazione delle coscienze, orientata verso una religiosità laica e aperta al contributo della riflessione filosofica.
Il breviario spirituale (Milano 1922) è la testimonianza più viva della forza di convinzione del suo idealismo etico: «di fronte alla politica empirica e tecnica i fattori morali appariscono come imponderabili, senza importanza; ma alla fine sono questi imponderabili che trionfano» (p. 166). Avverso ai principî della Machtpolitik tedesca, il M. si mostra ugualmente critico nei confronti della democrazia liberale, segnalando una vicinanza con le coeve teorie elitarie di G. Mosca e G. Rensi.
Ostile al socialismo marxista, mantenne un uguale atteggiamento di riserva morale di fronte al nascente fascismo, di cui temeva specialmente la componente demagogica e totalitaria. Dopo la trasformazione nel 1923 dell’Accademia scientifico-letteraria di Milano in R. Università degli studi, i rapporti del M. con le autorità accademiche si fecero più tesi, a causa della crescente «fascistizzazione» del clima sociale e delle istituzioni pubbliche. Difese con la parola e l’esempio della intransigenza morale la dignità della cattedra, affrontando a viso aperto le minacce degli squadristi. Nel febbraio 1926, in seguito a una denuncia per «vilipendio della eucaristia», indirizzata da tal C. Ricci al rettore L. Mangiagalli, il M. dovette tuttavia sottoscrivere un penoso memoriale, in difesa dei propri corsi sulla filosofia della religione. Nell’aprile successivo, dopo lo scioglimento, per ragioni di ordine pubblico, del VI Congresso nazionale di filosofia, tenutosi a Milano tra il 28 e il 30 marzo e da lui presieduto, venne sottoposto a un procedimento disciplinare, sollecitato dal ministro della Pubblica Istruzione P. Fedele, che rischiò di concludersi con la sospensione dal servizio, per manifesta «incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo». L’epilogo della vicenda si ebbe solo nel 1931, quando il M., per motivi di coscienza, rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e venne pensionato d’autorità.
L’opera centrale in questa seconda fase della produzione del M. è La libertà (Milano 1928), che ne riassume la filosofia pratica.
Il M. vi svolge una compiuta disamina storica e metafisica del problema della libertà del volere umano, sforzandosi di portare a soluzione l’antitesi tradizionale tra «indeterminismo» e «determinismo». Egli vi afferma una coincidenza di libertà e «necessità», qualora si intenda con essa non il cieco determinismo del naturalismo scientifico, ma il ritmo stesso dell’estrinsecazione spontanea della spiritualità dell’«io». La libertà umana si svolge in parallelo con la elevazione graduale dell’essere verso l’«unità» trascendente (il divino) che la fonda e sostiene: «l’essenza e il principio della libertà dell’uomo è nella sua personalità divina […] la negazione della libertà è negazione di Dio» (ibid., p. 492). L’opera attirò gli strali dei neoscolastici italiani, per la scoperta eterodossia della interpretazione di s. Agostino, approfondendo il solco di incomprensione tra il M. e A. Gemelli, che aveva già avuto modo di manifestarsi in occasione del congresso di filosofia del 1926, cui il M. aveva insistito nell’invitare E. Buonaiuti, benché «nominatim excommunicatus et expresse vitandus».
Dopo il ritiro dall’attività pubblica, il M. si immerse in una solitudine autenticamente filosofica, alternando la cura della sua piccola proprietà terriera, in Spineto di Castellamonte, con lo studio dei volumi raccolti nella sua sterminata biblioteca, particolarmente ricca di testi religiosi, oltre che filosofici, e con la redazione dei libri che riteneva essenziali: la seconda parte della Introduzione alla metafisica, uscita postuma a più di un trentennio dalla morte (Scritti di metafisica e di filosofia della religione, I-II, a cura di E. Agazzi, Milano 1976), in cui si evidenzia lo sfondo neoplatonico del suo idealismo critico-trascendente; l’opera di filosofia della religione Gesù Cristo e il cristianesimo (ibid. 1934), apprezzata anche da B. Croce e pubblicata dopo molte esitazioni e una vana trattativa economica con l’editore Laterza. Il libro fu sottoposto a sequestro dalla prefettura, perché messo all’Indice dei libri proibiti dall’autorità ecclesiastica; identica sorte toccò alla silloge dei Vangeli (Il Vangelo, Modena 1936), da lui curata per Guanda. Il M. reagì con parole ferme e dignitose al decreto del S. Uffizio, ma l’episodio ne accentuò il duro isolamento. Solo nei confronti dei pochi spiriti liberi, come il non violento A. Capitini o i giovani studiosi (tra cui gli antifascisti E. Colorni e N. Bobbio) che pubblicavano nella Rivista di filosofia (di cui egli era dal 1927 il direttore occulto), mantenne sempre rapporti amichevoli e generosi di stimoli e consigli. Coinvolto in una retata contro Giustizia e libertà, nel maggio 1935 subì l’arresto e una breve detenzione nel carcere di Torino, benché fosse del tutto estraneo alla congiura antifascista di A. Monti e degli altri intellettuali che facevano riferimento alla casa editrice Einaudi.
All’approssimarsi della seconda guerra mondiale si accentuarono nella sua meditazione gli accenti «pessimisti» e il «dualismo» metafisico-religioso, come testimoniano i saggi raccolti nel volume Ragione e fede (Torino 1942), che riprende i temi del Gesù Cristo.
Il M. si rifà alle tradizioni della scuola storica tedesca, svolgendo una esegesi razionalista delle Scritture, che ne mette in luce il significato filosofico e il valore universale. Superando la lettura moralistica della religione in I. Kant, egli afferma risolutamente il valore teoretico e non eminentemente pratico della fede cristiana, che vede tuttavia incarnato storicamente più dalle «eresie» che dalla ortodossia ecclesiastica. Anche la prospettiva di un futuro rinnovamento religioso è affidata dal M. più all’iniziativa delle piccole comunità di credenti (sul modello pacifista e antiautoritario dei «cristiani senza chiesa» della seconda riforma protestante) che non alle grandi istituzioni religiose (in specie la Chiesa cattolica), storicamente prigioniere del secolarismo e di una troppo mondana volontà di potenza.
Il M. affidò agli inediti l’ultima testimonianza della propria riflessione filosofica, intrisa di profonde conoscenze storiche ed erudite, non inferiori a quelle dei filosofi rivali neohegeliani, che spesso lo accusarono a torto di «antistoricismo». Oltre alla già citata Introduzione alla metafisica, va ricordato soprattutto il volume su Spinoza (a cura di F.P. Alessio, Milano 1987), che raccoglie e sistematizza lo studio prolungato del filosofo ebreo, di cui il M. fu tra gli interpreti più competenti e originali, non solo in ambito nazionale. Nel solco della «Spinoza Renaissance» europea, egli interpreta l’Ethica di Spinoza come un contributo essenziale a quella «mistica razionale» all’origine del rinnovamento moderno e idealistico della filosofia. Non va infine dimenticato (pur nelle difficili circostanze della sua redazione finale) il volume Kant (ibid. 1943), che raccoglie i corsi universitari del M. degli anni Venti.
In esso (come nella ormai classica edizione commentata dei Prolegomeni, Torino 1913 e successive edizioni) il M. svolge una originale rilettura metafisica del kantismo, che identifica il «noumeno» con la «legge morale», offrendo al proprio idealismo trascendente solide basi teoriche ed esegetiche.
Uno scritto singolare, L’amore (a cura di A. Di Chiara, Genova 1998), che si avvicina alla produzione «popolare» del filosofo, è dedicato al problema erotico, e risale al periodo delle leggi razziali e della intensificazione della politica demografica del fascismo.
Il M. vi espone punti di vista non conformistici sulla famiglia, proponendo l’istituzione del «matrimonio in prova» per le giovani coppie, come rimedio alla infedeltà e alla prostituzione, ipocritamente ammesse dal matrimonio borghese. Il manoscritto venne affidato dal M. a uno degli allievi più affezionati, E. Carando: partigiano non violento, giustiziato dai fascisti della Repubblica sociale italiana nel febbraio 1945, ma anche testimone dell’insegnamento «socratico» del M. e del suo amore per la libertà.
Il declino fisico del M. iniziò nel settembre 1941, in seguito a una trombosi insorta dopo una caduta accidentale nella tenuta di Spineto.
Affetto da arterite acuta, il M. morì nell’ospedale di Cuorgnè (Torino) il 22 marzo 1943.
La sorella Teresa vigilò fino all’ultimo, affinché non venissero offerti al morente i conforti religiosi, che ne avrebbero smentito la coerente condotta di vita, improntata a un convinto laicismo. Lasciò la ricchissima biblioteca e i manoscritti inediti a G. Solari, C. Goretti, N. Ruffini, in qualità di esecutori testamentari. Essi sono conservati a Torino, rispettivamente presso la Biblioteca della facoltà di lettere e filosofia e presso l’Archivio dell’Accademia delle scienze. Un ulteriore fondo documentario, raccolto da C.F. Scavini, si trova presso la Fondazione Casa e archivio Piero Martinetti (ONLUS) di Spineto.
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