Parenti, Piero
È autore di una Storia fiorentina che copre i periodi dal 1476 al 1478 e dal 1492 al 1518, considerata una delle fonti più complete e attendibili per la storia della Repubblica di Firenze da Girolamo Savonarola a Piero Soderini, fino ai primi anni dopo il ritorno dei Medici nel 1512 (nell’ultima parte ci sono frequenti lacune nella linea narrativa). L’opera ci è stata tramandata da tre manoscritti autografi conservati presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze (II. IV. 169, 170, 171), che purtroppo non riportano l’intero testo; le parti mancanti possono comunque essere recuperate attraverso una copia del tardo Cinquecento, reperibile nella stessa Biblioteca (mss. II. II. 130, 133, 134). In anni recenti l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze ha intrapreso l’edizione critica integrale della Storia, per cui sono usciti nel 1994 il primo volume (anni dal 1476 al 1478 e dal 1492 al 1496) e nel 2005 il secondo (anni dal 1496 al 1502). Il terzo volume, che completerà l’intero progetto, è in fase di ultimazione.
Piero nacque a Firenze nel 1450 da una famiglia di mercanti dell’Arte della seta; il padre, Marco di Parente, aveva sposato nel 1448 Caterina Strozzi, figlia di Matteo e di Alessandra Macinghi, nobilitando il suo casato secondo il tradizionale percorso della ricca borghesia municipale, ma anche legandosi a una famiglia ostile ai Medici – i fratelli di Caterina erano in quegli anni in esilio – e quindi operando una decisa scelta di campo che si rifletterà sulle successive scelte politiche e culturali sue e del figlio Piero. Se infatti padre e figlio potranno esibire formali legami di amicizia con la famiglia dominante, nessuno dei due ricoprirà importanti cariche pubbliche durante il periodo mediceo quattrocentesco (altro discorso si farà per Piero relativamente agli anni 1494-1512); e soprattutto nessuno dei due – pur avendo accesso ai più elevati ambienti culturali, e potendo vantare come propri maestri i massimi esponenti dell’Umanesimo fiorentino del tempo, da Marsilio Ficino (→) a Demetrio Calcondila a Cristoforo Landino (→) – produrrà mai opere in latino o comunque appartenenti a quella tradizione: Marco e Piero scriveranno solo in volgare, coltivando il genere dei ricordi familiari e storici tipico della classe e della cultura mercantile. Marco ha lasciato, oltre all’immancabile libro di Ricordi familiari (Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, II serie, XVII bis), in cui si annotano tutte le vicende relative alla vita della famiglia e al commercio, e che si lascia in morte alla continuazione del figlio, una breve opera storica (Ricordi storici 1464-1467, a cura di M. Doni Garfagnini, 2001). Numerose sono le corrispondenze fra i due lavori storiografici, quello del padre e quello molto più esteso del figlio, a cominciare dal fatto che ambedue le opere non sono ricostruzioni storiche a posteriori – come saranno, per es., le ‘storie’ di Francesco Guicciardini e M. nei primi decenni del Cinquecento – ma sono una sorta di diario dei fatti pubblici, scritto via via che gli eventi si compiono o comunque a poca distanza da essi. Non sono cioè frutto di un progetto di analisi retrospettiva di un patrimonio di memoria personale o di fonti documentarie, ma della volontà di accompagnare e di comprendere passo dopo passo un periodo della vita cittadina che si ritiene essere particolarmente significativo. Ambedue le opere prendono le mosse da una congiura, e poco dopo averla narrata si interrompono: il padre Marco inizia dalla morte di Cosimo, pater patriae, e soprattutto dalle aspre lotte che seguirono tale morte, culminate nel tentativo di Luca Pitti e dei suoi alleati di scongiurare la continuità del potere mediceo; il figlio Piero usa la congiura milanese ai danni di Giangaleazzo Sforza del 1476 come premessa per quella fiorentina dei Pazzi di due anni dopo. Ma se l’interruzione dei Ricordi storici è definitiva, e Marco non riprenderà mai più in mano il suo ‘diario’, Piero tornerà a scrivere dopo un’interruzione di ben quattordici anni, alla morte di Lorenzo il Magnifico, e continuerà a registrare eventi storici fino all’agosto del 1518, a pochi mesi dalla sua scomparsa avvenuta a Firenze nel 1519.
La vera e importante corrispondenza fra le due scritture è dunque lo strettissimo rapporto fra il tipo di narrazione, condotta contemporaneamente o a poca distanza dagli eventi, e quello stesso quadro sociale che la narrazione descrive. Scrivere storia giorno per giorno significa infatti portare su un piano pubblico l’abitudine alla registrazione giornaliera dell’evento familiare o commerciale che da tempo i mercanti esercitano su un libro privato, e significa soprattutto, come per il libro privato, poter contare su una diretta partecipazione e una diretta conoscenza di ciò che si racconta: partecipazione e conoscenza che sono evidentemente possibili solo in un regime fattivamente repubblicano e democratico, dove non c’è una sola famiglia che si attribuisce pratiche di governo e ultime decisioni, e dove c’è invece la più larga e libera partecipazione agli organi consultivi e deliberativi. Ecco che ambedue, padre e figlio, iniziano a scrivere quando sperano che i sommovimenti relativi alla morte di Cosimo, prima, e alla congiura dei Pazzi, poi, siano l’apertura di un periodo nuovo, ed ecco che ambedue si interrompono quando il potere mediceo, nonostante tutto, ogni volta ribadisce e anzi inasprisce la propria continuità.
Il vero inizio della Storia fiorentina di P., che qui interessa, è dunque il 1492, quando la morte di Lorenzo il Magnifico fa di nuovo sperare, e questa volta a ragione, in un cambiamento. La discesa di Carlo VIII nel 1494, la fuga di Piero de’ Medici, la crescente influenza di Savonarola e infine la fondazione del Consiglio maggiore danno infatti inizio a diciotto anni di ordinamento repubblicano durante i quali P., come tanti altri mercanti suoi pari, può accedere non solo alle assemblee, ma anche alle più alte cariche di governo, dagli Otto di guardia alla Signoria (non arriverà mai al gonfalonierato), e durante i quali quindi lo storico P. può registrare con precisione e dovizia di particolari tutto ciò che accade nella sua città e sotto i suoi occhi.
È dunque proprio l’ottica interna e diretta del mercante, affinata sui libri di memoria privata, a fare di questa Storia uno dei documenti più attendibili e più completi su quell’importante periodo: il predominio e la caduta di Savonarola, le successive lotte interne fra ottimati e popolari, il compromesso che portò all’elezione di un gonfaloniere a vita nella persona di Piero Soderini, tutti i grandi movimenti di quegli anni e, al loro interno, tutte le discussioni e le scelte dei Consigli, tutte le alleanze, tutte le crisi e tutti i successi di un piccolo Stato repubblicano, stretto fra i movimenti di potenze spesso troppo più grandi, sono oggetto di una ricostruzione minuziosa e appassionata: ciò che si trasferisce dal libro privato a quello pubblico non è infatti solo la volontà di riferire dettagliatamente e giorno per giorno quanto è stato oggetto di diretta e recente esperienza, ma anche un profondo senso di partecipazione ai destini di un organismo politico, una città, in cui lo scrittore vive in prima persona quegli stessi eventi che racconta, e in cui il suo coinvolgimento, anche emotivo, è continuo e totale, esattamente come in un libro di «ricordi». Ne è segno più eclatante il fatto che i fiorentini, in quanto popolo, non sono mai nominati in tale modo nella Storia, così come i Parenti in quanto famiglia – e lo stesso altrove i Morelli, o i Guicciardini – non sono mai nominati nei Ricordi: in ambedue i libri lo stesso pronome noi definisce un soggetto collettivo, e sancisce un legame che è di sangue, di cultura, di tradizione.
Gli anni narrati nella parte più estesa e continuata della Storia fiorentina sono gli stessi in cui M. esercita il suo ufficio di Segretario della seconda cancelleria della Repubblica, e gli eventi descritti sono evidentemente gli stessi su cui anche M. tante volte riflette attraverso le sue prime opere, e le sue lettere ufficiali e private: basterebbe questo a stabilire un legame fra i due scrittori, e a indicare la lettura dell’opera parentiana come uno dei più esaurienti contributi alla comprensione dell’ambiente in cui l’altro ha costruito la sua «esperienza delle cose moderne». Si potrebbe anche aggiungere che la totalizzante immersione di P. nella vita politica della sua città, di cui si parlava sopra, può ricordare la stessa appassionata partecipazione («amo la patria mia più dell’anima») e l’assoluto coinvolgimento di M., in quegli anni e nei successivi, nella stessa politica fiorentina, anche se il quadro di riferimento in cui il secondo si muove è notevolmente più largo, e soprattutto analizzato con maggiore consapevolezza e capacità di distacco razionale. Ma non sono comunque solo questi i possibili elementi di vicinanza fra P. e Machiavelli.
L’assidua frequentazione dei Consigli deliberativi e degli organi di governo, e il costante aggiornamento delle carte della Storia, nella più assoluta mancanza, come si diceva, di un progetto a posteriori, volto al giudizio di un periodo concluso, fanno sì che questa scrittura non sia dedicata tanto a descrivere eventi oggettivi e puntuali, quali, ad es., alleanze o battaglie – conoscibili del resto solo attraverso resoconti – o feste cittadine, o esecuzioni, o nomine di magistrati o di comandanti, quanto a riportare più chiaramente possibile tutte le discussioni, tutti gli scontri e tutti i contrasti di opinione, tutti i movimenti e gli scambi di maggioranze e minoranze che a quegli eventi portarono. Lontanissimo per ovvi motivi dai canoni della storiografia umanistica, P. predilige dunque lo studio delle motivazioni e delle idee, e l’eterno opporsi delle diverse fazioni, piuttosto che il soffermarsi su particolari descrittivi, o il rendere avvincente o istruttiva la lettura offrendo memorabili esempi di vizi o virtù. Come in M., ciò che interessa sono i processi mentali e culturali che portano alle scelte politiche, e ciò che si può e si deve descrivere è lo scontro fra gli opposti interessi dei «Grandi» e del «popolo»: P. vive fin dai suoi inizi immerso in quello che si potrebbe chiamare il problema genetico della Repubblica savonaroliana, cioè l’improvviso rimescolamento della classe dirigente avvenuto nel Consiglio maggiore, da cui la difficoltà di fare operare fianco a fianco esponenti di antiche famiglie, spesso collaboratori dei Medici e quindi esperti nella gestione della cosa pubblica e delle relazioni ‘internazionali’, e giovani figli di ricchi mercanti, forse più facoltosi, ma del tutto nuovi nelle stanze del potere. Accompagnando giorno dopo giorno il mai facile rapporto fra le due classi, destinato del resto a non risolversi – basti a questo proposito ricordare il Discorso di Logrogno, scritto da Guicciardini negli ultimi mesi della Repubblica –, P. contribuisce come nessun altro prima di lui all’identificazione e definizione delle classi stesse, nei loro componenti, nella loro cultura, nei loro propositi e aspettative, e fa capire come chi abbia vissuto per anni immerso in quelle lotte non può mai prescinderne: Guicciardini appunto, ma anche il M. del cap. ix del Principe, là dove si occupa di ‘principato civile’, e dove la presenza e l’azione dei due campi opposti è quasi data per ovvia, «perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi» (ix 2).
Infine né P. né M. scrivono di fatti politici seguendo principi morali o idee della tradizione, oppure schierandosi con una delle parti di cui sopra – P. in questo è anche favorito dall’essere per nascita partecipe di ambedue –, ma sempre adottano una superiore ottica pragmatica, alla ricerca della pubblica utilità e comunque del massimo risultato possibile. Il modo in cui M., negli anni della segreteria, mette a nudo i difetti, le lentezze, le indecisioni e la rissosità dello Stato di cui è al servizio è molto simile all’atteggiamento critico con cui P. quasi sempre riporta le estenuanti discussioni nei Consigli: tutti guardano, in ogni questione, all’interesse della loro parte, siano popolari, ottimati o addirittura nostalgici dei Medici, e solo pochissimi, spesso definiti «più intendenti»
o «prudenti», ma ovviamente inascoltati, saprebbero indicare volta per volta la scelta più vantaggiosa, perché più adatta alle circostanze. Fare politica è dunque saper riconoscere e valutare l’occasione, e agire di conseguenza, ai fini del mantenimento e del rafforzamento di uno Stato: se per M. gli anni post res perditas porteranno questi principi alla loro più alta definizione teorica, quegli stessi anni sono comunque importanti anche per P. e per la sua attività di scrittore.
Attraversata infatti non senza difficoltà la fase del crollo della Repubblica soderiniana e del ritorno dei Medici, P. riprenderà a scrivere, dopo un’interruzione di molti mesi, solo sull’onda dell’elezione al pontificato di un papa fiorentino e mediceo, Leone X, nell’aprile del 1513. Piero continuerà a raccontare i fatti della sua città per altri cinque anni, superando il problema (che era stato del padre prima che suo proprio) di non potere – o non volere – scrivere ciò di cui non è totalmente consapevole e partecipe. Il suo testo si fa da qui in poi sempre più frammentario, le partizioni mensili tendono ad accorciarsi, e soprattutto più volte le precise e circostanziate annotazioni del mercante votato alla storia devono lasciare il posto alle ambiguità e alle oscurità di un potere gestito da una sola famiglia all’interno di un palazzo chiuso e non più pubblico. Si esporranno dunque più ipotesi che fatti, e certo più feste cittadine che riunioni politiche, e le voci che si riporteranno saranno quelle della piazza e non quelle del palazzo; ma in ogni caso chi si è votato per tanti anni alla storia e alla politica, appunto, non può non continuare a rimanere in quegli ambiti, se non vuole, come dirà M., «stare cheto». Sono gli anni in cui si scopre – e sia valido per P., oltre che per M. e Guicciardini – che fare storia nasce dalla necessità di intendere la complessità del mondo, e che la sfida di questa complessità non può in ogni modo essere lasciata cadere. P. appartiene a un’altra generazione, e non riuscirà a unire la «lezione delle cose antique» alla «esperienza delle cose moderne»; ma anche se le sue carte non usciranno dalla cerchia familiare, la sua Storia fiorentina rappresenta comunque l’humus su cui germoglieranno le più grandi opere del primo Cinquecento fiorentino.
Bibliografia: Storia fiorentina, 1° vol., 1476-78, 1492-96, a cura di A. Matucci, Firenze 1994; 2° vol., 1496-1502, a cura di A. Matucci, Firenze 2005.
Per gli studi critici si vedano: J. Schnitzer, Quellen und Forschungen zur Geschichte Savonarolas, 4° vol., Savonarola nach den Aufzeichnungen des Florentiners Piero Parenti, Leipzig 1910; A. Matucci, Piero Parenti nella storiografia fiorentina, in Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, 1° vol., Roma 1985, pp. 149-93; A. Matucci, Note per l’edizione della Storia fiorentina di Piero Parenti, «Rinascimento», 1990, 30, pp. 257-69; A. Matucci, L’elezione al gonfalonierato perpetuo di Piero Soderini nella Storia fiorentina di Piero Parenti, in I ceti dirigenti in Firenze dal gonfalonierato di giustizia a vita all’avvento del ducato, Atti del VII Convegno, Firenze 19-20 sett. 1997, a cura di E. Insabato, Lecce 1999, pp. 265-79; A. Matucci, Savonarola nella Storia fiorentina di Piero Parenti, in Girolamo Savonarola. L’uomo e il frate, Atti del XXXV Convegno storico internazionale, Todi 11-14 ott. 1998, Spoleto 1999, pp. 295-306; A. Matucci, Piero Parenti: la necessità della storia, in Nascita della storiografia e organizzazione dei saperi, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 20-22 maggio 2009, a cura di E. Mattioda, Firenze 2010.