SANTI, Piero
– Nacque a Volterra, il 5 aprile 1912, figlio dello scultore Nello e della casalinga Maddalena Viti.
Nel 1918, al ritorno del padre dalla guerra, la sua famiglia si trasferì a Firenze, dove Piero visse fino alla morte. A Firenze Santi si diplomò e si laureò, dapprima in giurisprudenza, poi in lettere, discutendo una tesi sulla rivista La Ronda. Agli anni universitari risale l’entourage di amici (Paolo Cavallina, Alessandro Parronchi, Franco Fortini e altri) che si riuniva al caffè Tabby Cat in via Vigna Nuova e in cui Santi, di poco più anziano, cominciò a svolgere quel ruolo maieutico che lo caratterizzò per tutta la vita.
Il gruppo spesso si incrociava con altri sodalizi composti da intellettuali più maturi, da quello storico delle Giubbe Rosse (Alfonso Gatto, Eugenio Montale, Elio Vittorini) a quello meno noto che si riuniva presso la trattoria di Marino, guidato dall’italoamericano Dan Rotunno e comprendente lo stesso Gatto, Vasco Pratolini e il pittore Ottone Rosai.
Dopo la laurea in lettere Santi insegnò per sei anni italiano, latino e greco presso il liceo classico dei padri Scolopi, dove ebbe tra i suoi allievi Giorgio Luti, il quale lo ricorda (il riferimento è al 1938) come un modernissimo mediatore della letteratura europea (Herman Melville, James Joyce, l’amatissimo Fëdor M. Dostoevskij) in anni di stretta autarchia culturale (Luti, 1983, p. 389).
Tra il 1937 e il 1940 Santi collaborò alle più importanti riviste dell’epoca, dal Bargello a Frontespizio, da Incontro a Letteratura, fino a Rivoluzione (che contribuì a fondare e alla quale introdusse il cugino Carlo Cassola e Manlio Cancogni), tutte esprimenti un desiderio di rinnovamento culturale in conflitto con l’ortodossia del regime: emblematica, in tal senso, la querelle che Santi e Romano Bilenchi, uniti dallo pseudonimo Moscabianca, intesserono nel 1940, sulle colonne della Nazione, con Ardengo Soffici.
Negli anni che precedettero e seguirono l’inizio della guerra pubblicò anche le sue prime prove letterarie, Amici per le vie (Roma 1939) e Avventure nel parco (Firenze 1942): due raccolte di racconti in cui si trovano già espressi alcuni tra i caratteri peculiari della scrittura santiana, che probabilmente dà il meglio di sé proprio nella misura del racconto.
Nelle storie di Santi, ambientate in un microcosmo fiorentino che sovente si restringe ulteriormente al familiare paesaggio del parco delle Cascine, sembra non accadere nulla di rilevante, e la scrittura, secca, laconica, accentuatamente paratattica, veicola appieno questa sensazione; tuttavia, a un certo punto, affiora sempre un elemento di rottura, che turba le misere esistenze dei personaggi senza peraltro portarli a una maturazione, confinandoli in una condizione di perenne stallo e scacco.
Questo primo nucleo della narrativa di Santi presenta anche altri aspetti significativi e durevoli: l’esclusività del paesaggio fiorentino, asfittico e castrante, ma ineludibile; la centralità del tema dell’infrazione, che si declina anche come peccato, segno del dissidio tra un cristianesimo mai abiurato e un’omosessualità vissuta sì alla luce del sole, ma non senza lacerazioni; la centralità dell’amicizia, sola consolazione per l’uomo.
Un ripiegamento interiore, con l’arrovellarsi che ne deriva, caratterizzò le opere successive: Tre storie brevi (Firenze 1945) e, soprattutto, il Diario (1943-1946) (Venezia 1950; ripubblicato in edizione ampliata, La sfida dei giorni. Diario 1943-1946 / 1957-1968, Firenze 1968), in cui proprio la dimensione diaristica consentì a Santi una meditazione su sé stesso a trecentosessanta gradi, dall’autoanalisi all’esame dei rapporti d’amicizia, dalla riflessione sulla letteratura e sull’arte all’irruzione di una Storia che stenta in verità a farsi largo. Come ogni diario anche quello di Santi denuncia un carattere agonistico, di continua tensione, sospeso tra desiderio e frustrazione, e in questo l’autore rispecchia la psicologia di molti suoi personaggi, manifestando anche quella «compiacenza» del peccato che Parronchi additò come il difetto principale di un’opera caratterizzata da irresolutezza e scacco (Parronchi, 1950, p. 83).
Irresolutezza e scacco concernono anche il mestiere di scrivere, se è vero che all’interno del diario confluirono alcuni abbozzi di opere abortite, mentre altri, invece, trovarono spazio nella successiva pubblicazione santiana, ovvero Ombre rosse (Firenze 1954).
In questo libro la passione dell’autore per il grande schermo (Santi fu anche critico cinematografico, già su Frontespizio e poi, più assiduamente, sul Giornale del mattino, tra il 1958 e il 1965) funge in realtà da escamotage narrativo per una panoramica sulla varia umanità che affolla i più noti cinema fiorentini, un universo in cui, ancora una volta, a muovere le fila dei personaggi sono le pulsioni più elementari, in primis quelle sessuali, cosa che fa di essi delle ipostasi dell’autore stesso e del suo dramma, in cui la sessualità è vissuta più come «vizio» che non come «peccato» (cfr. Vigorelli, 1954, p. 1).
Durante gli anni Cinquanta, oltre a tentare, assieme a Mario Novi, l’effimera avventura della rivista Ca Balà (quattro soli numeri, nel 1950) e oltre a collaborare con giornali e riviste (Il Nuovo corriere e Il Giornale del mattino), Santi diede vita a quella che divenne l’esperienza più duratura della sua attività culturale, ovvero la galleria d’arte L’Indiano (sita in piazza dell’Olio), che fondò nel 1950 assieme all’amico Paolo Marini, il quale la diresse sino al 1985, mentre Santi fu a capo della sua propaggine milanese, tra il 1961 e il 1965.
Per L’Indiano lo scrittore curò decine di cataloghi; fu acuto critico d’arte, creando (nel 1963) la Mostra mercato nazionale d’arte contemporanea a palazzo Strozzi e sostenendo sempre l’interazione tra parola e segno, a partire dallo spazio affidato nei suoi libri ai disegni (di Ottone Rosai, Ernesto Treccani, Renato Guttuso), per finire, negli anni Settanta, con la collaborazione alla meritoria casa editrice L’Upupa (nome che riprese a metà degli anni Ottanta per il centro culturale gestito assieme al compagno Sergio Miranda), per la quale scrisse alcune ‘minimografie’ di artisti (Michel Tissot, Gabrio, Marcello Guasti, Andrea Papi) e curò la collana di poesie e immagini L’onda repentina.
Ma il suo più intenso innamoramento artistico Santi lo visse per Rosai, il quale tenne a battesimo, con una sua mostra, la galleria L’Indiano e per il quale il critico scrisse prima Gli autoritratti di Ottone Rosai (Firenze 1943), quindi Ritratto di Rosai: lineamenti di un’esistenza (Bari 1966), libro a metà strada tra critica, storia dell’arte, biografia, autobiografia e cronaca di un’amicizia fortissima nata nel 1932.
L’impegno di Santi nei campi dell’arte e della letteratura trovò coronamento nella docenza concessagli tra il 1970 e il 1976 dall’Accademia di belle arti di Ravenna, città che amò molto e per la quale scrisse la prosa Per Ravenna, contenuta nel postumo Il grido segreto degli anni (San Miniato 1998).
Per Firenze, devastata dall’alluvione, Santi aveva scritto invece Da un tetto e nelle strade (Bari 1967), in cui emerge un sentimento per la città che nello scrittore è sempre duplice, teso tra la magnificenza della storia e dei monumenti e il peccato che essa cela dietro ogni angolo. Nel libro Santi celebra anche la sua amicizia con Paolo Marini e manifesta a tratti, cosa piuttosto insolita per lui, un sentimento di viva indignazione politica.
Sempre negli anni Sessanta pubblicò anche i suoi due unici romanzi ‘tradizionali’, riusciti tentativi di vincere la tendenza al frammento che sempre caratterizzò la sua scrittura. Nel primo, Il sapore della menta (Firenze 1963), Santi costruisce sì un intreccio narrativo (le vicende, nella Firenze del dopoguerra, di alcuni giovani intellettuali), ma celando dietro di esso una realtà biografica sua (egli è identificabile con Marco) e di alcuni suoi sodali della prima ora, da Tommaso Landolfi (Alessandro, dominato dal demone del gioco) a Carlo Emilio Gadda (Stefano, omosessuale irresoluto), al punto che sull’Espresso l’attesa (e i timori) per il libro a Firenze furono paragonati a quelli che a Roma, in quegli stessi mesi, si vivevano per Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino (Swann, 1963, p. 21). Nel libro Santi sperimenta anche uno stile meno lineare rispetto alle precedenti prove (che lo accompagnò poi nei cimenti futuri), alternando la prima e la terza persona e interpolando al racconto pagine del diario di Marco.
Seguì Libertà condizionata (Firenze 1966), romanzo che narra le vicende di Folco, barista e poi mercante d’arte, e di alcuni suoi amici, accomunati dalla delusione delle speranze giovanili e da esperienze che rendono evidente quanto già suggerito dal titolo, ovvero l’impossibilità, per l’essere umano, di compiere scelte veramente libere.
Tra gli anni Settanta e Ottanta Santi visse, dopo il discreto successo dei due romanzi, un periodo di ripiegamento, in verità consono al suo carattere e a una visione della circolazione culturale come colloquio e scambio tra pochi affini. In questo periodo, oltre alle attività tra arte e letteratura di cui s’è detto, si dedicò a generi non frequentati in precedenza, quali la poesia (263 versi, Firenze 1972; Diario con gli amici, Siena 1980; Mi corazon, ohimé, no duerme, Siena 1981), il dramma (Où les coeurs s’éprennent, Firenze 1979), o il dialogo, a metà tra confessione e saggio (Non pace ma la spada, Milano 1970, in collaborazione con Pietro Bertoli; Due, Siena 1982, in collaborazione con Luca Graziani), in cui s’incrociano la tendenza riflessiva della scrittura di Santi e la centralità del sentimento amicale.
Per la narrativa gli anni Settanta segnarono un ritorno alle forme brevi, concentrate sul tema dell’amore omosessuale (Due di loro, Firenze 1971, Ancona 1997; Pietro, Bernardo, Firenze 1977; Trittico per Luca, Firenze 1979; tutti riuniti, poi, con un inedito, in Cronos Eros, Bologna 1990). L’ultima prova narrativa di Santi fu il romanzo Sic (Firenze 1985), singolarissima storia di reincarnazione di anime penitenti (tra le quali quella di Oscar Wilde) in corpi altrui, intessuta di riflessioni sulla scrittura e di ammiccamenti al lettore.
Morì a Firenze, nella sua casa in via dell’Erta canina 30/A, dove viveva in compagnia di Sergio Miranda, il 5 marzo 1990.
Fonti e Bibl.: A. Parronchi, Diario, in Letteratura arte contemporanea, I (1950), 6, pp. 83 s.; C. Torrigiani, Le ombre rosse di S., in La Fiera letteraria, 15 novembre 1953, p. 1; G. Vigorelli, Ombre nere su un abisso bianco, ibid., 26 settembre 1954, pp. 1 s.; Swann, Avvelenerà Firenze con la menta, in L’Espresso, 3 marzo 1963, p. 21; L. Baldacci, Due fiorentini e l’ombra del Manzoni, in Epoca, 26 gennaio 1969, pp. 78-80; C. Cassola, Piero, in Id., Mio padre, Milano 1983, pp. 39-44; G. Luti, Firenze corpo 8. Scrittori, riviste, editori nella Firenze del Novecento, Firenze 1983, p. 389; G. Dall’Orto, La pagina strappata. Interviste di cultura e omosessualità, Torino 1987, pp. 50-65; Intorno al cuore di P. S., a cura di A. Papi, Bologna 1989; Salvo imprevisti, XVII-XVIII (1989-1990), 48-50, monografico: Per P. S.; G. Dall’Orto, Amico e amante, in Babilonia, 1990, n. 79, pp. 46 s.; F. Gnerre, L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano, Milano 2000, pp. 189-212; P. S. e l’arte a Firenze dal 1950 al 1975, a cura di V. Bartoloni - A. Mennucci, San Gimignano 2001; S. de Nobile, Due di loro. Appunti su quattro lettere di P. S. a Carlo Cassola (1936-1937), in Studi medievali e moderni, XVI (2012), 1-2, pp. 189-211; http://moscheinbottiglia.blogspot.it/2012/04/ricordo-di-piero-santi. html; http:// www.labottegadelbarbieri.org/piero-santi-volterra-1912-firenze-1990/ (4 ottobre 2017).