VAGLIENTI, Piero
– Nacque a Firenze nel 1438 da Giovanni e da Nanna di Taddeo di Ambrogio galigaio.
Della famiglia materna, attestata anche come Galigari, è nota una zia di Nanna, Francesca di Ambrogio, che sposò in quegli anni lo scultore e architetto Michelozzo. La famiglia paterna, invece, da almeno due generazioni lavorava nell’oreficeria, settore nel quale si distinse Antonio, fratello di Giovanni. Quest’ultimo, pur immatricolato tra gli orafi nel 1419, si dichiarò setaiolo nel catasto del 1427 e merciaio nel 1432. Nel 1442 si trasferì a Pisa con la famiglia e morì prima del 1447.
Per tradizione familiare, Piero si immatricolò tra gli orafi a Firenze nel novembre del 1458. Non risulta che egli abbia mai svolto tale mestiere: sulle orme del padre, si dedicò presto alla mercatura. Già nel 1457 era cambiatore al minuto a Pisa, in un banco ai piedi del ponte Vecchio. Il 3 aprile 1465, insieme al fratello Bernardo, di un anno più anziano, acquistò una casa nel quartiere Chinzica per 133 fiorini d’oro. Due anni dopo si imbarcò su una galea diretta verso il Mediterraneo occidentale e nel 1470 si stabilì a Palermo.
In Sicilia rimase per diversi anni: il 16 giugno 1474 Lorenzo de’ Medici lo raccomandava in una lettera rivolta al protonotario del regno Gherardo Alliata e ancora nel 1476 e nel 1478 la sua presenza è attestata in alcuni atti notarili palermitani. Intanto, alla fine del 1474, aveva sposato la fiorentina Margherita Falconieri. Dall’unione nacquero almeno dieci figli, il primo dei quali, Giovanni, fu battezzato a Pisa il 13 settembre 1475. Di lì a poco si sposò anche il fratello Bernardo con Francesca Marchionni, dalla quale ebbe almeno dodici figli.
Attraverso prestiti e acquisti di beni, i due fratelli Vaglienti, come altri concittadini, contribuirono in quegli anni all’imporsi del controllo fiorentino sull’economia pisana. Nel catasto del 1480 dichiararono di gestire in Pisa «una bottega a uso di merciai con uno poco di desco di cambio» (Storia dei suoi tempi, a cura di G. Berti - M. Luzzati - E. Tongiorgi, 1982, p. 15). La bottega si trovava nel palazzo del Diamante, in piè di Ponte, dalla parte di Tramontana, ed era affittata per 50 ducati all’anno dalla proprietaria Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo de’ Medici. Di questi, in una lettera del 1514 all’omonimo nipote di lui, Vaglienti vantava «l’amicizia e benivolenza» (ibid., p. 258), probabilmente grazie alla mediazione del cugino Niccolò Michelozzi, fedele segretario del Magnifico.
Nel 1494 si verificò l’evento fondamentale nella vita di Vaglienti: una svolta che, stando alla sua testimonianza, egli aveva tentato inutilmente di scongiurare. Nel settembre di quell’anno, infatti, prevedendo che in occasione del passaggio in Toscana del re di Francia Carlo VIII (diretto a Napoli) i pisani avrebbero colto l’occasione per liberarsi del dominio di Firenze, egli aveva proposto ai rappresentanti locali del governo fiorentino di prendere in ostaggio, come garanzia, «centocinquanta o dugento cittadini della città di Pisa e de’ migliori» (ibid., p. 11). Il consiglio non fu ascoltato e Pisa si ribellò nel novembre del 1494, provocando lo «scompiglio di tutta Italia» (p. 176). Alla vigilia del sollevamento, l’8 novembre, Vaglienti aveva scortato gli ambasciatori inviati dalla Repubblica per negoziare con Carlo VIII, assistendo in prima persona al crollo del dominio fiorentino, che egli imputò alla miopia degli ufficiali locali, nonché al tradimento di uno degli ambasciatori, frate Girolamo Savonarola. Nella Storia dei suoi tempi egli non mancò di ricordare più volte che si sarebbe potuta prevenire la ribellione ed evitare quindi la lunga e dispendiosa guerra di riconquista che tenne impegnata la Repubblica fiorentina per anni, fino al 1509.
Come altre famiglie fiorentine, i Vaglienti abbandonarono subito Pisa. Dolorosamente colpito dall’ostilità e dal risentimento dei pisani, in mezzo ai quali era vissuto per cinquantadue anni, Piero lasciò la città tra il gennaio e il febbraio del 1495: i suoi beni furono requisiti, la moglie derubata, i figli dispersi, il primogenito Giovanni venduto come rematore di una galea genovese. Rientrato nella sua città natale all’età di quasi sessant’anni e con a carico i numerosi figli – ai quali si sarebbero aggiunti di lì a poco, dopo la morte del fratello Bernardo, i nipoti – Vaglienti trovò un ambiente tutt’altro che accogliente. Nessun indennizzo fu riservato ai fiorentini rientrati da Pisa; e se, in un primo momento (marzo-aprile 1495), egli fu reso eleggibile e rivestì qualche incarico pubblico (tra i quali quello di commissario a Pontassieve), con il gonfalonierato di Francesco Valori, tra il gennaio e il febbraio del 1497, perse lo ‘stato’ e venne escluso dalle cariche pubbliche. Sdegnato, tra il marzo di quell’anno e l’inizio dell’anno successivo compose un’Apologia indirizzata al governo fiorentino (edita in Storia dei suoi tempi, cit., pp. 249-258 e in “Iddio ci dia buon viaggio e guadagno”..., a cura di L. Fornisano, 2006, pp. 218-227). Le sue rimostranze non ebbero seguito e Vaglienti ripiegò su incarichi più modesti, collaborando all’impresa commerciale dei Sernigi (con i quali forse era indebitato, dal momento che il 17 settembre 1496 vendette a Niccolò Sernigi la casa che la famiglia ancora possedeva a Firenze) e svolgendo l’ufficio di doganiere a Livorno tra il 1503 e il 1504.
Nel gennaio del 1504, durante un attacco dei pisani a Livorno, fu ucciso suo figlio Michele, mentre un altro figlio, Antonio, fu imprigionato e liberato solo dopo aver trascorso oltre quattro mesi nelle carceri pisane. Della guarnigione di guardia a Livorno faceva parte anche il primogenito Giovanni che, catturato nel 1508 dai pisani, fu rilasciato per intervento di Iacopo IV Appiani, signore di Piombino, e morì combattendo nella guerra della lega di Cambrai intorno al 1510.
Intanto l’8 giugno 1509 le truppe fiorentine ripresero il possesso di Pisa. Il 7 novembre, dopo quasi quindici anni, Vaglienti tornò in città con la famiglia. Ormai anziano, negli ultimi anni della sua vita egli poté contare sul sostegno del figlio Antonio, che sposò Sulpizia Rustichelli, erede di una famiglia mercantile pisana, e riuscì a costruire una discreta fortuna (proseguita dal figlio Giovanni, nato nel 1519), e del nipote Giuliano, che sposò la fiorentina Margherita di Niccolò de’ Medici e iniziò a Pisa una vivace attività di mercante e amministratore di beni fondiari.
Dopo il tanto agognato ritorno, si fanno più rare le annotazioni raccolte nella Storia, l’ultima delle quali risale al 15 luglio 1514. Probabilmente, morì a Pisa poco dopo tale data.
L’opera di Vaglienti è tradita da due manoscritti autografi che si trovano a Firenze: Biblioteca nazionale, II.IV.42, e Biblioteca Riccardiana, cod. 1910. Nel primo si legge la Storia dei suoi tempi, cominciata in seguito al dramma personale e collettivo della ribellione di Pisa; il secondo, cui si lega a partire dagli studi di Gustavo Uzielli e Alberto Magnaghi la fama di Vaglienti, raccoglie una serie di documenti eterogenei, ma in buona parte relativi alle scoperte geografiche di quegli anni.
La Storia rappresenta una fonte diretta e vivace su un ventennio particolarmente denso di rivolgimenti politici. Per ragioni personali, la guerra di Pisa torna ossessivamente nelle pagine di Vaglienti, che tuttavia, pur trascinato dalla passione di parte, non si limitò alla cronaca locale, ma tentò di comprendere gli eventi anche minimi alla luce di una più complessa considerazione dei rapporti politici fra le potenze italiane ed europee. La prospettiva, ormai concreta, di una prossima dominazione straniera sulla penisola, preoccupava Vaglienti soprattutto per i suoi effetti sulla politica interna di Firenze. Sul funzionamento di questa – pur con i limiti del suo intelletto, non «dotto né speculativo» (Storia dei suoi tempi, cit., p. 4) – egli si interrogò in modo pragmatico, facendo riferimento alla propria esperienza e alla morale schietta di proverbi e favole, piuttosto che ad auctoritates colte (cui pure attingeva talvolta, mostrando scarsa dimestichezza con il latino). Per rendere più stabile ed efficace il governo di Firenze, egli proproneva la creazione di un senato, sul modello di quelli di Roma antica e di Venezia; ma dietro la soluzione oligarchica emerge talvolta, come nel settembre del 1499, la proposta più radicale del governo di uno solo (perché «fia meglio sapere a chi l’uomo ha ’ ubbidire, che avere a servire a un mazzo di signori a un tratto e a un guazzabuglio d’anitre, come è al dì d’oggi questo governo di questa nostra città di Firenze», ibid., p. 84).
Il dilemma tra regime oligarchico e principesco (su cui, di lì a breve, si sarebbe concentrato anche il Dialogo del reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini) non impedisce a Vaglienti di prendere posizione, in modo netto, contro Savonarola. L’influenza di questi sulla vita pubblica fiorentina è considerata negativamente dal cronista non tanto per il programma politico del domenicano, che Vaglienti giudica di natura oligarchica (distinguendosi da altri osservatori coevi, come Piero Parenti e Bartolomeo Cerretani, secondo i quali Savonarola era invece promotore di un governo popolare: Guidi, 1984, pp. 35 s.); ma perché il frate stesso – simulatore e ingannatore del popolo sotto il mantello della religione – rappresentava ai suoi occhi un’arma, pericolosa per la collettività e di fatto incontrollabile, nelle mani di poche famiglie influenti.
Più che alla Storia, la fama di Vaglienti si deve, tuttavia, al codice 1910 della Biblioteca Riccardiana, una sorta di archivio dell’epopea mercantile dei fiorentini al servizio del Portogallo, assemblato nel corso del tempo in quaderni autonomi, copiati in bella, a partire forse dal settembre del 1499 e dalle cc. 61r-70v (nelle quali si legge del primo viaggio di Vasco da Gama, che Vaglienti annotò anche nella Storia; v. Storia dei suoi tempi, cit., pp. 89 s.). La prima e più ampia sezione del Codice Vaglienti – dopo una traduzione toscana del Milione di Marco Polo e un estratto dei viaggi di Jean de Mandeville – riporta una serie di relazioni dei maggiori protagonisti delle grandi scoperte geografiche di quegli anni, tra le quali le tre lettere di Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, il resoconto da parte di Bartolomeo Marchionni del viaggio di Pedro Álvares Cabral e una lettera sul primo viaggio di Giovanni da Empoli. La seconda parte della compilazione, di carattere prevalentemente storico, comprende, insieme ad alcuni documenti di argomento fiorentino, il più antico volgarizzamento del Corano in una lingua moderna, realizzato da Niccolò di Berto nel 1461, seguito dalla traduzione del Trattato dell’unione di Ibn Tūmart e dai resoconti dell’ambasceria degli etiopi al Concilio di Firenze (1441) e della caduta di Negroponte in mano ai turchi (1470).
Opere. Storia dei suoi tempi. 1492-1514, a cura di G. Berti - M. Luzzati - E. Tongiorgi, Pisa 1982; “Iddio ci dia buon viaggio e guadagno”. Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1910 (Codice Vaglienti), a cura di L. Formisano, Firenze 2006.
Fonti e Bibl.: G. Uzielli, Le lettere di Amerigo Vespucci e altri documenti geografici del secolo delle scoperte secondo il Codice Riccardiano 1910 di P. V. scrittore sincrono, Firenze 1900; A. Magnaghi, Amerigo Vespucci: studio critico, con speciale riguardo ad una nuova valutazione delle fonti e con documenti inediti tratti dal Codice Vaglienti (Riccardiano 1910), I-II, Roma 1924; M. Luzzati, Introduzione, in Storia dei suoi tempi, cit., pp. VII-XXXVIII; E. Fasano Guarini, P. V. tra “ricordanze” e storia, in Bollettino storico pisano, LII (1983), pp. 1-15; G. Guidi, La corrente savonaroliana e la petizione al Papa del 1497, in Archivio storico italiano, CXLII (1984), pp. 31-46; L. Formisano, La geografia dei mercanti nella compilazione di P. V., in Relazioni di viaggio e conoscenza del mondo fra Medioevo e Umanesimo, a cura di S. Pittaluga, in Columbeis, V (1993), pp. 241-256; C. Gadrat-Ouerfelli, La «version LA» du récit de Marco Polo: une traduction humaniste?, in Traduire de vernaculaire en latin au Moyen Âge et à la Renaissance, a cura di F. Fery-Hue, Paris 2013, pp. 131-147 (in partic. pp. 141 s.); L. D’Onghia, P.V., in Machiavelli. Enciclopedia machiavelliana, II, Roma 2014, pp. 641 s.