CORNEILLE, Pierre
Nato a Rouen il 6 giugno 1606 e morto a Parigi il 30 settembre 1684. Studiò nel collegio dei gesuiti dal 1615 al 1622: furono studî sereni e serî da cui il C. derivò forse quella singolare predilezione per l'analisi morale e la casuistica. A diciassette anni iniziò lo studio del diritto, e il 18 giugno 1624 fu iscritto avvocato alla corte (parlement) di Rouen; ma, inceppato dalla balbuzie, non perorò mai, e nel 1628, seguendo l'esempio paterno, acquistò due uffici d'avvocato del re al tribunale delle acque e foreste e dell'ammiragliato, da cui si dimise il 18 marzo 1650. Capo della famiglia alla morte del padre (12 febbraio 1639), sposò, alla fine del 1640 o principio del 1641, Marie de Lampérière, e alternò la sua dimora fra Rouen e Parigi, dove lo chiamava il teatro, e dove si stabilì nel 1662. Ma la storia del C. uomo, che visse con austera semplicità, si può dir tutta compresa in quella dell'opera sua.
Il C. stesso, e poi suo nipote Fontenelle, con qualche maggiore particolare, ci dicono che gli esordî poetici del giovane avvocato, che non pensava per nulla alla letteratura, son dovuti a un'avventura d'amore, che prelude alla favola di Mélite, in cui Tirsi soppianta Erasto nel cuore di una bella fanciulla; nella realtà, la signorina si chiamava Catherine Hue, e C. le dedicò alcune liriche, pubblicate più tardi fra le rime (madrigali e mascherate) che accompagnano l'edizione del Clitandre; pensò a sposarla, ma s'oppose la madre della giovinetta, e questa passò ad altre nozze. Ma se il C. riconobbe nella sua innocente avventura la trama per una commedia, gli venne fatto, di certo, poiché già frequentava il teatro: e non solamente le recite del collegio gesuitico, ma quelle delle compagnie che giungevano da Parigi: i comici del re dell'Hôtel de Bourgogne, e i comici del principe d'Orange, diretti dal Mondory, attore famoso e non privo di cultura, che accolse e rappresentò a Parigi Mélite, sul principio del 1630. Mélite è una commedia intessuta con gli elementi di una favola pastorale e si conforma al gusto dominante nel teatro del tempo: C. dichiara, nel giudizio che diede della pièce, che non aveva dinnanzi a sé, nel comporla, se non gli esempî di Alexandre Hardy e degli autori moderni, irregolari quanto lui.
Il suo secondo lavoro, Clitandre ou l'Innocence délivrée (1630-31), recitato anch'esso dalla compagnia di Mondory, affonda in pieno nel genere della tragicommedia; deriva, come il Lysandre et Caliste di Du Ryer, che lo precedette di poco sulla scena, da una novella di Vital d'Audiguier, e rappresenta gli amori contrastati di due coppie, Clitandre e Dorise, Rosidor e Caliste, attraverso duelli, agguati, travestimenti, fra scene di gelosia furenti e crudeli, con un gusto dell'agitazione complicata che il C. saprà vincere col Cid per ricadervi poi di nuovo gravemente.
Clitandre apparve per le stampe nel 1632 prima di Mélite, pubblicata l'anno seguente. Fra il 1633 e il 1635 C. produsse un gruppo di commedie, La Veuve ou le Traître trahi, La Galerie du Palais, La Suivante e La Place Royale ou l'Amoureux extravagant, nelle quali la ricerca dell'intreccio curioso e brillante si unisce a un'intenzione realista di fingere sulla scena i luoghi e i ritrovi famigliari del pubblico parigino. Il giovane autore fu discusso e ammirato: la prima edizione di La Veuve (1635) s'adorna dell'omaggio di ventisei poeti; e il C., che aveva rivolto al Richelieu un elogio in versi latini, ne ottenne la protezione e fu compreso tra "i cinque poeti" (erano con lui, Rotrou, Boisrobert, Colletet e l'Estoile) ai quali il cardinale affidava lo sviluppo delle sue fantasie teatrali: un atto della Comédie des Tuileries, rappresentata dinanzi alla regina il 4 marzo 1635, deve attribuirsi al C.
La sua prima tragedia fu Médée (1635), ravvolta ancora, sulla trama orrenda e sanguinosa che procede da Seneca, d'un furore secentesco, commisto a una galanteria di malgusto; all'amore di Giasone e di Medea si frammette quello di Creusa, richiesta insieme da Giasone e da Egeo; le figure appariscono colorite ed accese, le passioni esasperate e criminali. In questa ripresa della tragedia classica, di un fasto che non esclude una certa volgarità di linguaggio, il C. seguiva le orme di Rotrou, ricalcando persino qualche episodio dell'Hercule mourant, rappresentato nel 1633.
L'Illusion comique (1636) rinnova un tema prediletto della Commedia dell'arte, che era stato trattato anche in Francia nella Comédie des comédiens del Gougenot e dello Scudéry, ed evoca sulla scena la vita dei comici, inserendovi una rappresentazione tragica, la quale appare, non come finzione, ma come verità agli occhi di Pridamant, il vecchio padre di Clindor, fuggito di casa e divenuto attor comico. L'azione a cui assiste, e che gli è rivelata dal mago Alcandro, è intessuta d'un amore romanzesco, fra conflitti cruenti in cui reca una nota di stravaganza il capitano Matamoro, il tipo comico per eccellenza della commedia italiana e spagnola. Il C. ha inteso di rappresentare una visione tragicomica della vita (quella appunto a cui facevano capo le sue prime prove teatrali), sottolineando la natura fantastica, l'illusione misteriosa, che trasfigura sulla scena i casi e le passioni dell'umana realtà. E poiché l'Illusion precede di poco la rappresentazione del Cid, essa giova a farci comprendere come si ponesse nell'animo del poeta il problema della finzione e della creazione scenica.
Da queste prove il genio di C. si sviluppò, come una fiamma a lungo oppressa, in un'opera che racchiude le sue qualità essenziali, che rivela e appaga le esigenze del suo spirito drammatico con una fiducia e un vigore ugualmente schietti e felici. Le prime rappresentazioni del Cid al teatro del Marais (dicembre 1636) ebbero un immenso successo, e per tre secoli la fortuna di quel dramma non s'è oscurata in Francia. Il C. s'è valso d'un esemplare spagnolo, Las Mocedades del Cid, di Guillén de Castro, apparso nel 1621: l'ha talora seguito assai da vicino, l'ha persino tradotto in qualche verso; eppure ha veramente creato la sua tragedia, animandola di uno spirito eroico e giovanile, che dalle prime alle ultime scene procede senza tregua, alacre e vittorioso, oltre ogni pericolo e ogni sventura. All'aprirsi del dramma, Rodrigo non ha dato ancor prova di sé, non è un gran capitano e nemmeno un guerriero, ma un giovine signore della corte, gentile e innamorato; basta che don Diego, suo padre, lo informi dell'oltraggio che ha ricevuto e per la sua vecchiezza ha dovuto subire dal conte di Gormas, perché egli si accenda, e sfidi a morte e uccida l'offensore, ch'è una delle prime spade del regno, ma ch'è a un tempo il padre di Chimene, cioè della sua promessa sposa. L'azione muove diritta e improvvisa, come una freccia; Rodrigo non poteva operare che così: e appena ha pagato il suo debito di figlio e di cavaliere, egli si trova, dinanzi alla sua donna, macchiato d'una colpa che non sembra espiabile. Tale situazione - onde la condotta di Rodrigo, giusta e doverosa di fronte al padre, diviene colpevole di fronte alla sposa, nobilmente amata - è il nodo del dramma; e non si limita al solo Rodrigo, ma involge il cuore di Chimene, non meno puro ed eroico del suo. In quanto Chimene sente e giudica come Rodrigo, e quasi con più fierezza, ella lo comprende, e l'ama ancora, eppure deve, come figlia anch'essa, punirlo; e qui si delinea la compiacenza del C. per il conflitto morale, squisito e raffinato: compiacenza che si farà poi insidiosa, che finirà con l'impoverire le persone drammatiche, strette nelle maglie dell'azione ideale, del "caso di coscienza" mirabile e difficile, ma che nel Cid è pienamente concorde con la tempra preziosa e cavalleresca dei due giovani amanti; sì che Chimene è, non solo il termine, ma l'interprete sincera e dolorosa dell'amore di Rodrigo: lo integra, lo illumina, lo approfondisce. Chimene richiede la giustizia del re contro il suo sposo, e Rodrigo vuole che la giustizia si compia; e Chimene sa che non potrà sopravvivergli. Poi, il loro dramma personale è come ricinto e sollevato in quello della patria e della fede, nella guerra contro i Mori, nel valore e nella vittoria di Rodrigo, che si trasforma nel Cid, nell'eroe nazionale della Spagna; e il quinto atto fa capo a un presagio del perdono, che il re stesso invoca da Chimene, e che sarà, oltre i confini della tragedia, l'ultima scintilla di quell'urto fra i due cuori adamantini.
Il Cid suscitò fra i critici dottrinarî del tempo una lunga discussione, attraverso la quale si costruì definitivamente la poetica della tragedia classica francese; ma sulla via aperta dal Cid, il C. proseguì con tre altri capolavori, Horace, Cinna ou la Clemence d'Auguste e Polyeucte martyr, in cui si esalta la concezione del conflitto morale tra sentimenti e passioni ugualmente nobili.
È legittimo, in Horace, l'amore di Camilla per il Curiazio suo sposo, ma esso contraddice al destino e alla salvezza di Roma, impersonati nel fratello e nel padre: l'amore della patria vince fatalmente, e duramente, gli affetti familiari; e il significato della tragedia si rivela intero nelle risonanze che la breve azione, dapprima sospesa fra le ansie del combattimento, e poi conchiusa violentemente col fratricidio, desta nell'animo fiero e appassionato del vecchio Orazio, in cui si raduna e si confonde lo spirito della famiglia e quello di Roma. È nobile l'amore della libertà, che, insieme col proposito di vendicare la morte del padre, fa di Emilia l'animatrice della congiura di Cinna contro l'imperatore: ma la coscienza più vasta e più generosa di Augusto riesce a dominare e a placare le passioni dei congiurati i quali si conciliano alla sua visione giusta e serena dell'Impero. Infine, in Polyeucte, il conflitto s'innalza tra un gruppo di figure nobilissime, Severo, Poliuto, Paolina, dal sacrificio umano al martirio religioso, e il poeta l'ha drammatizzato con un senso incomparabile di purità nella coscienza di una donna, che la fede eroica del marito attrae da una semplice fedeltà, doverosa e virtuosa, a un amore, a una dedizione piena e spontanea, a una concorde conversione. L'amore che le nozze non erano bastate a comandare si schiude, si accende al calore di una fiamma più pura, dinanzi al sacrificio di Poliuto: Paolina si volge a quella luce di fede, di martirio, che dapprima le appare solamente come il segno di una bellezza morale e che in seguito la circonda, la penetra, la trasfigura. Polyeucte, per chi lo consideri nella sua linea direttiva, nella sua azione ideale, sta al sommo della poesia corneliana; e anche le scene di semplice umanità, dalle quali si apprende come Paolina amasse da fanciulla Severo, e per volere del padre abbia dovuto invece sposare Poliuto, le scene in cui Severo si profila come il tipo del "gentiluomo paeano", esempio squisito di moralità mondana e sociale, chiusa ai raggi della fede, che pure rispetta e ammira, dimostrano in C. il signore del teatro. Se Polyeucte non si può dire che superi in valore artistico il Cid la ragione sta forse in una minore vivacità ed entusiasmo creativo; la trama, a volte, traspare da uno sviluppo meditato, e lievemente scolorito: soprattutto nella parte di Felice, il padre di Paolina, il quale, nei suoi timori e nei suoi calcoli ambiziosi ed errati, denuncia le minute necessità dell'intreccio scenico, e si prepara troppo male alla rivelazione della grazia, che alla fine dovrà toccare anche lui.
Fu osservato che nei caratteri corneliani si ravvisa, non già il seguace, ma il contemporaneo di Descartes, quando essi vogliono illuminare a sé stessi la loro passione, e poi che l'hanno chiarita cioè dominata con l'intelletto, la dissolvono e la vincono: e ciò può dirsi dei suoi eroi e delle sue donne, non meno ferme e virili. Il C. aspira di continuo a una liberazione dell'animo per la forza della volontà, prima e suprema dignità dell'uomo; e fu l'esempio che trasmise all'Alfieri. Assorto in questo fine ideale, gli accade in alcune, pur delle sue migliori tragedie, di disegnarne la costruzione in astratto, e poi di eseguirla sommariamente, mirando a due o tre scene centrali ed essenziali, robuste e veramente luminose, in cui il poeta risolve con una straordinaria felicità, non soltanto dell'arte sua, ma della sua coscienza, il dissidio, il conflitto, che lo aveva prima incuriosito e quindi via via appassionato.
Fra il Cid e Polyeucte, C. si è attenuto a una forma di tragedia severa, semplice, serrata; la sua candida compiacenza dell'intreccio difficile e segreto si è esercitata particolaimente sui casi psicologici dei suoi eroi: ha operato dall'interno, mentre più tardi - e sarà il germe della sua decadenza - si manifesterà alla superficie della favola, per mezzo di azioni complicate, di scambî di persona, di riconoscimenti inattesi.
Horace e Cinna furono rappresentati nel corso del 1640, e pubblicati' il primo nel 1641, il secondo nel 1643; Polyeucte era composto nel 1641 e C. ne dava lettura all'Hôtel de Rambouillet: fu probabilmente recitato nell'inverno 1641-42 e pubblicato nel 1643. Contemporanea del Polyeucte è La mort de Pompée.
Nel 1644, il C. tornò alla commedia per l'ultima volta con Le Menteur e la Suite du Menteur, derivate entrambe dal teatro spagnolo: la prima dalla Verdad sospechosa di Juan d'Alarcón la seconda da Amar sin haber á quien di Lope de Vega. Le Menteur è la commedia più gaia e spigliata del C.: sulla scena, che è posta fra le Tuileries e la Place royale, l'avventura e le bugie amorose di Dorante, sempre al bivio fra due giovani donne, Clarice e Lucrezia, si svolgono agilmente e piacevolmente. La Suite du Menteur ci presenta un Dorante, non solo pentito, ma che ha mutato il suo vizio in una dissimulazione generosa; in realtà si tratta ormai di un altro personaggio, in tutto diverso, al quale il C. ha voluto dare un nome già applaudito: e la Suite non ebbe fortuna.
Alla fine del 1644, il C. fece rappresentare una tragedia lungamente studiata, e che rimase poi la sua prediletta: Rodogune. Il C. vi scorgeva tutti i pregi a cui teneva di più (la bellezza dell'argomento, la novità delle finzioni, la solidità del discorso, il calore delle passioni) in un felice complesso e in una continua elevazione. E qui ci appare il suo giudizio critico, discorde dalle sue virtù native: se i posteri antepongono il Cid, Cinna, Polyeucte a Rodogune, stanno per un C. poeta contro un C. critico, il quale finì per prevalere, col suo arbitrio, sul primo.
La favola di Rodogune, sugli elementi storici derivati da Appiano Alessandrino e da Giuseppe Flavio, è un'invenzione ex novo di C.; la vera protagonista è la regina di Siria, Cleopatra (e solo perché questo nome poteva confondersi con quello più noto della regina d'Egitto, il C. chiamò la sua tragedia Rodogune), donna crudele, ambiziosa, la quale bilancia la successione al trono dei suoi due figli, Seleuco e Antioco - di cui non è definita, ed ella solo può rivelare, la precedenza di nascita - promettendola a quello fra di essi che le ucciderà Rodoguna, principessa dei Parti, ch'ella odia perché fu altra volta sul punto di usurparle lo sposo e il regno. Ma i due principi amano entrambi Rodoguna, la quale da parte sua si promette a chi vendicherà il padre e ucciderà Cleopatra; la malizia felina di costei per inimicare i fratelli s'infrange contro la loro affettuosa e reciproca lealtà, e Cleopatra giunge a far uccidere l'uno e prepara la morte dell'altro, mentr'egli muove a nozze con Rodoguna: ma l'agguato è scoperto, e Rodoguna costringe la nemica a bere nella coppa avvelenata da lei. Si noti che da questa favola di esasperata ferocia il C. non ha tratto una tragedia d'orrore: Rodoguna s'induce, sull'esempio di Cleopatra, a simulare, e poi a esercitare effettivamente la violenza e la crudeltà, come se al fondo di quelle anime eroiche stesse un'indistinta energia, che può attuarsi in nobili gesta, o in delitti, e come se, di fronte al vigore e alla fermezza dell'azione, ne divenisse quasi indifferente la natura, o piuttosto la grezza materia.
E Cleopatra è un'astrazione del male, e non un'anima che viva la sua penosa crudeltà: il C. è già pronto a sacrificare l'umanità delle sue creature all'idolo di una meravigliosa finzione.
La Théodore vierge et martyre (1645) è una tragedia cristiana, in cui l'ardimento del tema, d'una vergine condotta in un luogo infame da chi vuol costringerla all'abiura, impaccia e rende sgradevole la trattazione d'indole religiosa: ciò che riconobbe lo stesso poeta nel prendere atto di quello che fu il suo primo grave scacco in teatro. Seguirono l'Héraclius, empereur d'Orient (1647), di sviluppo complicatissimo e faticoso; l'Andromède (1650), vero libretto d'opera, e l'anno stesso Don Sanche d'Aragon, commedia eroica, romanzesca, piena di avventure e di sorprese; Nicomède (1651), l'ultimo fra i capolavori del C.: un dramma che rinnova, e in un certo senso riscatta alcune situazioni di Rodogune, perché un conflitto familiare simile a quello, ma non così inumano, è dominato e risolto dall'impeto fiducioso, irresistibile, del giovine eroe. Nicomède parve annunziare un ritorno al sogno e alla poesia del Cid; ma la tragedia composta nello stesso anno, e rappresentata nel 1652, Pertharite roi des Lombards, deluse amaramente il pubblico e lo sollevò, dimentico e ostile, contro il suo poeta, il quale si offese e dichiarò che abbandonava il testro.
Si chiude con Pertharite il primo e il più glorioso periodo della vita letteraria del C. Frattanto egli era stato accolto nell'Accademia francese (22 gennaio 1647). L'Accademia era in colpa, di fronte al C., perché al tempo del Cid, sobillata dal Boisrobert e dallo Scudéry (non per malanimo e per gelosia del Richelieu, come vuole una leggenda consacrata nell'Arte poetica del Boileau) aveva pubblicato una famosa Lezione redatta dallo Chapelain, in cui si riprendevano le pecche formali del capolavoro, chiamato a giudizio secondo le dottrine pseudo-aristoteliche. Il C., da parte sua, aveva meditato quei problemi critici: conosceva le opere del Castelvetro, dello Scaligero, del Vida, e accettava il fondo della poetica classica; ma l'esperienza del teatro gli era sempre in mente, e con il suo gusto sottile di casuista cercava di conciliare i precetti teorici con le necessità della scena. Concorse egli pure, col suo esempio, al trionfo della legge delle tre unità, che gli erano ignote quand'era venuto a Parigi la prima volta, e alle quali s'era venuto conformando gradualmente: ad es., nella Veuve e nella Galerie du Palais i cinque atti s'estendevano per cinque giorni: la Suivante si divide in due sezioni, ciascuna delle quali commisura il tempo dell'azione a quello della rappresentazione. Della tragedia regolare aveva dato il modello Jean Mairet con la Sophonisbe nel 1634; il Cid non osserva se non una speciosa apparenza delle unità di tempo e di luogo; in Cinna si avverte ancora la duplicità di luogo; Polyeucte, all'esame dei più arcigni, è irreprensibile. Più tardi, la pubblicazione de La Pratique du Théâtre dell'abate d'Aubignac (1657) offrì al C. l'occasione di riordinare le sue riflessioni sull'arte tragica in tre discorsi: De l'utilité et des parties du poëme dramatique; De la tragédie et des moyens de la traiter selon la vraisemblance ou le nécessaire; Des trois unités, d'action, de jour et de lieu, apparsi in guisa di prefazioni ai tre volumi dell'edizione collettiva delle sue opere (1660), per la quale il C. stese anche i giudizî, assai importanti, su ciascuna delle sue pièces. Per la composizione dei Discours, il C. si giova dei trattatisti italiani, e più d'una volta allude alle tragedie di autori nostri; cita con lode il padre Stefonio, autore del Crispus, e il Ghirardelli, autore a sua volta della Mort de Crispe, cioè del Costantino (1653); conobbe la Medea di Lodovico Dolce, probabilmente l'Orazia dell'Aretino, e non può essere soltanto un caso che le due sole sue tragedie sacre trovino l'una e l'altra un precedente nel Polietto e nella Teodora di Girolamo Bartolommei, edite per la prima volta a Roma nel 1632.
Dopo la caduta di Pertharite il C. si raccolse nella sua casa di provincia e riprese un lavoro già iniziato intorno al 1650 e più confacente al suo isolamento letterario: la traduzione in versi francesi dell'Imitazione di Gesù Cristo; ne pubblicò una serie di edizioni parziali, e la prima completa (1656) dedicò al pontefice Alessandro VII. La vena di eloquenza, spontanea nella sua poesia, contribuì alla fortuna dell'opera, che ammanta di sacra solennità il carattere pensoso e intimo dell'originale. Altre versioni poetiche di testi religiosi, dovute al C., sono le Louanges de la Sainte Vierge (pubblicate nel 1665) e l'Office de la Sainte Vierge, coi sette salmi penitenziali, i vespri e complete della domenica e gl'inni del breviario romano (1670). Versi profani, odi, sonetti, madrigali amorosi e leggieri, poesie encomiastiche per Luigi XIV, il C. pubblicò sparsamente nelle raccolte frequenti al suo tempo, a cominciare dalla Guirlande de Julie, intessuta dalla società "preziosa" in onore della figlia di Madame de Rambouillet. Di tale produzione fuggevole, rimasero celebri, per la loro grazia arguta e pungente, le Stances à la Marquise, breve poesia che il C., non più giovine, rivolse a Marquise-Thérèse de Gorla, cioè a Mademoiselle Du Parc, attrice della compagnia di Molière.
Nel 1658 C. frequentava di nuovo il teatro; e Fouquet, il munifico mecenate, l'invitava a scrivere una tragedia, proponendogli qualche argomento: C. scelse l'Ødipe, che, composta in due mesi, fu recitata il 24 gennaio 1659 a Parigi fra grandi applausi. Nell'azione della tragedia di Sofocle, il C. aveva frammesso, con intreccio immaginoso, gli amori di Teseo e Dirce (figlia di Laio e di Giocasta), e turbato la severità dell'antica tradizione: si può dire che il successo di Ødipe fu determinato specialmente dai suoi difetti, il preziosismo e il fasto scenico, che blandivano il gusto del pubblico. La Toison d'or (1660) si ricollega al genere di Andromède. Poi vennero, in lungo seguito, nuove tragedie, ciascuna delle quali offre un certo interesse e qualche bel tratto, ma nel complesso involute e un po' stanche. Sono: Sertorius (1662); Sophonisbe (1663), Othon (1664), Agésilas (1666), Attila roi des Huns (1667): in questa occasione il Boileau col suo epigramma proclamava la decadenza di C.
Boileau era l'amico di Racine, che l'anno stesso di Attila otteneva con l'Andromaque il suo grande trionfo. C. si mostrò accigliato di fronte al giovane rivale; quel nuovo teatro amoroso e passionale rappresentava agli occhi di C. uno scadimento morale della poesia. Nel 1670 i due rivali si trovarono a fronte nella trattazione dello stesso argomento: il Racine fece rappresentare Bérénice il 21 novembre; il 28 si recitava Tite et Bérénice di C.; ed è certo che Racine produsse sulla scena una delle sue opere più belle e armoniose mentre C. si smarrì negli avvolgimenti di una favola tormentata e artificiosa. La partita, per lui, era persa; nel 1671 verseggiò gran parte della Psyché, tragédie-ballet, in collaborazione con Molière, Quinault e Lulli (autore del primo intermezzo, in versi italiani); del 1672 è Pulchérie, commedia eroica non priva di grandezza, fondata ancora su di un carattere eminentemente saldo e volitivo; del 1674, Suréna général des Parthes, l'ultima sua tragedia. Ne tolse l'argomento da Plutarco e raffigurò un eroe inviso per le sue virtù, offeso e immolato; a noi è dato risentire in questo dramma d'una nobiltà dolorosa l'amarezza con la quale il vecchio maestro deponeva le armi per ritirarsi nell'ombra e nella povertà.
Edizioni: L'edizione fondamentale è quella curata da Ch. Marty-Laveaux, Øuevres de P. C., in Les grands écrivains de la France, voll. 12, di cui i due ultimi contengonoo il lessico corneliano, Parigi 1862-1868.
Bibl.: E. Picot, Bibliographie cornélienne, Parigi 1876; P. Le Verdier e E. Pelay, Additions à la bibliographie cornélienne, Rouen 1908; G. Lanson, C., Parigi 1898; id., Le héros cornélien et le "généreux" selon Descartes, in Revue d'hist. littér. de la France, I (1894), p. 397 segg., rist. in Hommes et livres, Parigi 1895; A. Dorchain, P. C., Parigi 1918; F. Brunetière, Les époques du Théâtre français, (1636-1650), Parigi 1892, 2ª ed. 1895; C. de Lollis, Il quadrilatero corneliano, in Saggi di letteratura francese, Bari 1920; B. Croce, Ariosto, Shakespeare e C., Bari 1920; R. Bray, La formation de la Doctrine Classique, Parigi 1927; A. Gasté, La querelle du Cid, Parigi 1899; L. M. Riddle, The Genesis and Sources of P. Corneille's Tragedies from Médée to Pertharite, Baltimora 1926; H. Carrington Lancaster, A History of French Dramatic Literature in the XVIIth Century, parte 1ª (sola pubblicata, in 2 voll.): The Pre-classical Period, Baltimora 1929 (cfr. per la giusta data di Mélite, che rettifica quella tradizionale).
Elementi spagnoli: E. Martinenche, La Comedia espagnole en France de Hardy à Racine, Parigi 1901; J. B. Segall, C. and the Spanish Drama, New York 1902; G. Huszár, P. C. et le Théâtre espagnol, Parigi 1903; J. Ruggeri, "Le Cid" di C. e "Las Mocedades del Cid" di Guillén de Castro, in Archivum romanicum, XIV (1930), pp. 1-79.
Elementi italiani: H. Hauvette, Un précurseur italien de C.: Girolamo Bartolommei, in Annales de l'Université de Grenoble, IX (1897), pp. 557-77; B. Stocchi, L'Orazia dell'Aretino e l'Horace del C., Napoli 1911; C. Scarles, C. and the Italian Doctrinaires, in Modern Philology, XIII (1915), pp. 169-79; F. Neri, in Mélanges Baldensperger, Parigi 1930, II, p. 137 segg.; W. A. Nitze, C.'s Conception of Character and the "Cortegiano" (analogie generiche), in Modern Philology, XV (1917), pp. 129-42 e 385-400.
Le opere del C. furono tradotte assai presto in Italia: fin dalla metà del Seicento il Cid (a cui vennero imposti nuovi titoli: Amore et Honore, Honore contra Amore, L'amante Linimica overo il Rodrigo gran Cidd delle Spagne) e Rodogune; seguirono Héraclius, Agésilas, Cinna, Don Sanche d'Aragon, Horace, Nicomède e Polyeucte. Numerose versioni in prosa, alterate e rimaneggiate ad uso del teatro, ne attestano il grande favore nel '700: G. Gigli tradusse Nicomède, col titolo La gara della virtù (Siena 1701) e Horace con L'amor della patria sopra tutti gli amori (Siena 1701) e Horace con L'amor della patria sopra tutti gli amori (Siena 1701); F. Merelli, A. Zaniboni ed altri, anonimi, allestirono Cinna, Poliuto, Eraclio, Rodoguna, ecc. per le recite del Collegio Clementino di Roma. Nei volumi 1 a 5 della raccolta di Opere varie, dell'editore Lelio dalla Volpe, Bologna 1724 segg., figurano varie traduzioni in prosa dal C. In verso, e con intenzioni d'arte più elevate, tradussero Cinna l'ab. D. G. Minghelli (Mantova 1724) e P. C. Larghi (Milano 1743), Poliuto e Nicomede A. Paradisi (in Scelta di alcune tragedie francesi, Liegi [Modena] 1764 segg.). Una traduzione completa del teatro di C. in verso sciolto è dovuta al Baretti: Tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani con l'originale a fronte, voll. 4, Venezia 1747-48; ma il Baretti stesso la disse "insipida e snervata". Nella Biblioteca teatrale della nazione francese edita da A. F. Stella a Venezia (1793-96) apparvero nuove trad. di Horace (P. Bordoni), del Cid (G. Greatti), Cinna (F. Casali: già stampato in Scelta di alcune eccellenti tragedie, III, Liegi [Modena] [1768], Nicomède (Anelli), Rodogune (A. Dalmistro), La mort de Pompée (L. Bramieri). Del C. trattarono a lungo i critici del sec. XVIII: il Muratori, il Metastasio, il Riccoboni, il Calepio; degne di nota le Osservazioni sopra la Rodoguna di Scipione Maffei in Rime e prose, Venezia 1719.
Fra le imitazioni settecentesche, ricordiamo il Procolo (1709) di Pier Iacopo Martelli, ispirato dal Polyeucte, e il Quinto Fabio, che procede dall'Horace; le due tragedie su Orazio di S. Pansuti (1719) e di G. Bravi (1742). Al Poliuto si collega la tragedia I Massimini di A. Marchese (Tragedie cristiane, Napoli 1729); al Cid, il Duca di Guisa di G. Gorini-Corio (1732) e il Rodrigo di A. Landi (1765); al Cinna, il Demetrio del Bettinelli. Dell'Alfieri, le tragedie di libertà sono temprate a un concetto morale della volontà, che lo addita, ancora più che discepolo, fratello del C. Il Metastasio muove da Cinna per la Clemenza di Tito, e nell'Olimpiade, nell'Artaserse, in varie situazioni del suo teatro, ha presente il conflitto corneliano, ma lo attenua e lo ingentilisce. Fra i libretti d'opera cavati dalle tragedie del C. il più fortunato fu quello del Poliuto, messo in musica dal Donizetti sui vesri di Salvatore Cammarano (1ª rappr., Napoli 1838: col titolo Les Martyrs, Parigi 1840). Ma forse il più bel ricordo corneliano del nostro teatro è da cercare fuori della tragedia, nel Bugiardo del Goldoni, che riprese con brio il tema del Menteur. Cfr. L. Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII, Parigi 1925; G. Meregazzi, Le tragedie di P. C. nelle traduzioni e imitazioni italiane del sec. XVIII, Bergamo, 1906; A. Galletti, Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel sec. XVIII, parte 1ª, Cremona 1901; A. Parducci, La tragedia classica italiana del sec. XVIII anteriore all'Alfieri, Rocca S. Casciano 1902; A. De Santis, Le imitazioni del Metastasio dal teatro di P. C., Gaeta 1914; J. Merz, Carlo Goldoni in seine Stellung zum französ. Lustspiel, Lipsia 1903; E. Maddalena, Nota storica al Bugiardo, nel vol. IV, p. 417 segg., delle Opere del Goldoni, Venezia 1909, e i n Miscellanea Hortis, trieste 1910, II, pp. 545-548; F. Neri, Gli studi franco-italiani (Guide bibliografiche), Roma 1928.