Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Seicento, il grande secolo del teatro, Corneille si pone come il primo dei giganti che lo illustrano, con una produzione vastissima che copre ed esprime momenti culturali diversi, dallo spirito barocco a quello classico.
Nato il 6 giugno 1606 in una famiglia di borghesia agiata di Rouen, dopo gli studi presso i gesuiti e quelli di Diritto che lo immettono in una modesta, ma onorevole, carriera di toga, dal 1628 circa, Corneille intraprende anche la strada del teatro. Nel 1629, propone una prima commedia, Melita (Mélite), successo parigino che gli assicura una rapida fama. La pièce è rappresentata dalla compagnia teatrale del più grande attore del momento, Montdory (1594-1653) che introduce e accoglierà spesso Corneille sulle scene di Parigi. Commedie sono anche La vedova (La veuve) (1632) e La Galleria del Palazzo di Giustizia (La Galerie du Palais) (1633). Con Clitandro (Clitandre) (1631), Corneille si confronta con la tragicommedia, genere molto in voga da alcuni anni. Nel 1635, attento alle nuove tendenze emergenti e testimoniando la volontà di non trascurare nessuna forma d’arte drammatica, è la volta della tragedia che, in questi anni, conosce nuovo vigore: la compagnia di Montdory, ormai diventata la celebre “troupe du Marais”, mette in scena Medea (Médée), ricca di situazioni forti e scene brutali e, per diversi tratti, lontana dalle grandi tragedie che Corneille scriverà a partire dal 1640, anno della messa in scena di Orazio (Horace).
È del 1636, però, la rappresentazione di una delle più affascinanti commedie di Corneille: L’illusione comica (L’illusion comique). La pièce, come suggerisce il titolo (in cui comique va inteso secondo il valore semantico dell’epoca e cioè “relativo alla commedia, ai commedianti, agli attori”) parla del teatro, dell’illusione che, in un certo senso, è la messa in scena. L’illusione comica è ciò a cui assiste Pridamant, rivoltosi al mago Alcandre, per avere notizie del figlio, Clindor, che da anni è fuggito da casa. Nella sua grotta, Alcandre, con un colpo di bacchetta magica, è in grado di rivelare il destino di Clindor e della sua amata Isabelle, mediante l’apparizione di “spettri parlanti”. Questi si muovono davanti ai due uomini e permettono loro di assistere alle peripezie che scandiscono la vita di Clindor. Nel quinto atto, l’ultimo, gli spettri parlanti mutano radicalmente: Isabelle è ora una principessa che si lamenta del comportamento di Clindor, divenuto gran signore e marito poco fedele. Sotto lo sguardo atterrito di Pridamant, Clindor è ucciso dal suo rivale in amore. Davanti alla disperazione di Pridamant, Alcandre mostra, allora, Clindor, Isabelle e la loro compagnia mentre si dividono gli incassi: sono attori e gli ultimi eventi cui ha assistito Pridamant sono quelli della tragedia che stavano interpretando.
Messa in scena nella messa in scena, illusione, appunto, dato che la rappresentazione può, per un istante, ingannare, confondendola con la realtà, L’illusione comica è un’apologia del teatro e delle sue virtù. Apologia necessaria, come suggerisce la reazione di Pridamant che, una volta scoperta la verità, è scandalizzato per quella che considera l’attività infamante che si è scelto Clindor. La retorica d’Alcandre, che elenca le virtù del “nobile mestiere” che è il teatro (fra cui quella di poter essere redditizio, oltre che d’utilità culturale e sociale) riesce a correggere questo punto di vista. Non deve stupire l’insistere sull’utilità e sulla nobiltà del teatro: se quest’ultima fatica a imporsi e le resistenze, ecclesiastiche e non solo, sono molte, il concetto secondo il quale l’arte deve essere utile e deve insegnare è idea generalmente diffusa e condivisa e tale resterà almeno fino all’Ottocento, con il Parnasse foriero dell’innovativo concetto dell’arte per l’arte. Magia, finzione, teatro nel teatro, inganno, sovrannaturale, meraviglia, peripezie straordinarie che tengono con il fiato sospeso: L’illusione comica, per molti tratti, offre anche uno dei migliori risultati dello spirito barocco in Francia.
Con Il Cid, tragicommedia del 1637, che ha come protagonista l’eroico condottiero che ha sconfitto, in Spagna, i Mori, Corneille offre un altro dei suoi capolavori. Intanto, Corneille è entrato nella “società dei Cinque Autori”: a mano a mano che il teatro occupa un rango più alto nello spirito delle persone, diversi grandi signori diventano protettori d’autori e d’attori. Spicca fra tutte, la figura del cardinale Richelieu (1585-1642), principale ministro di Luigi XIII (1601-1643) e grande appassionato di teatro, tanto da decidere di orientarne lo sviluppo, di proteggere, a sua volta, gli autori e le poche compagnie attive in quel tempo e di avere, inoltre, al suo servizio un gruppo d’autori. Oltre a Corneille, del gruppo fanno parte Rotrou (1609-1650), Boisrobert (1592-1662), L’Estoille (1602-1652) e Colletet (1598-1659).
Nel Cid, l’opposizione di sentimenti nobili (onore, amore, gloria, dovere, merito), le scelte volontaristiche che dettano l’azione, l’ostacolo interno all’amore e la soluzione politica esterna sono le linee che disegnano l’azione e la portata di un testo che gioca su tensioni straordinarie: Rodrigue deve battersi con il padre della sua amata, Chimène deve chiedere la morte di Rodrigue pur amandolo con passione e tutto ciò non può essere in nessun modo evitato. Corneille consegna al pubblico la tipologia dell’eroe indispensabile all’estetica dell’ammirazione che sosterrà anche le tragedie che immediatamente seguiranno. Rodrigue, Chimène, l’Infanta, tutti i personaggi nobili sono forieri di una nobiltà d’animo, oltre che di sangue, che poggia sul senso dell’onore e del dovere. Il tipo umano che si disegna, modello di comportamento proposto allo spettatore, è “l’homme généreux”: colui che non conosce moderazione nel compimento del suo dovere, che lo spinge all’estremo, fin’anche ai punti altissimi dell’eroismo. Il Cid suscita immediatamente grandi entusiasmi, soprattutto di pubblico, ma altrettante invidie, critiche e polemiche (alle quali anche Corneille contribuisce), tanto da far sì che all’Académie-Française – attribuendole un ruolo di critico che l’istituzione non aveva previsto e che, fino a quel momento, non aveva esercitato – sia chiesto di redimere la “Querelle du Cid”.
Solo nel 1640, Corneille torna al teatro, con un ciclo di tragedie storiche, in cui il protagonista — di nuovo conteso fra doveri e passioni, così da assicurare grande densità drammatica — è spesso un eroe trionfante, portatore d’alti valori, che si muove attraverso un conflitto fra opposti doveri e che tormenta, prima della risoluzione vittoriosa, l’animo dell’homme généreux: Orazio (Horace), Cinna (1641), Poliuto (Polyeucte) (1643). Le vicende affascinano il pubblico, mettono davanti ai suoi occhi vizi e virtù, difetti e pregi sempre ingigantiti in una dimensione titanica, necessaria alla tragedia, sollecitano l’identificarsi con l’eroe e, in questo modo, insegnano al pubblico, permettendogli soprattutto di avvalersi anche d’un effetto catartico.
In seguito, quasi con perfetta scadenza annuale, Corneille, senza tralasciare del tutto altri generi teatrali, presenta nuove tragedie (fra cui Rodogune, 1645, Nicomède, 1651; Pertharite, 1652; Sertorius, 1662; Othon, 1664; Attila, 1667), sempre con successo onorevole. Nel frattempo, però, la storia sociale e culturale di Francia cambia, i gusti del pubblico e degli esperti mutano e, soprattutto, il nuovo astro di Racine (1639-1699) sorge all’orizzonte con il grande successo di Andromaca (Andromaque) (1667) che inaugura una serie di trionfi nel campo della tragedia. Corneille cercherà con lui anche il confronto diretto, nel 1670, mettendo in scena Tito e Berenice (Tite et Bérénice) in concorrenza con Berenice (Bérénice) di Racine che, però, s’impone. Scrittore ormai anziano, almeno per i parametri dell’epoca, Corneille sceglie, a poco a poco, il ritiro, dopo quello che pare un ultimo guizzo, Suréna (1674), per spegnersi il 1° ottobre 1684.