Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’interno del programma di rinnovamento letterario della Pléiade, fondato sull’incontro tra lirica francese e tradizione classica, la voce di Ronsard domina tutte le altre per l’estensione e l’intensità del suo registro poetico, mostrando come all’interno del suo universo verbale, inteso come rappresentazione metamorfica della realtà, classicismo e barocco risultino alla fine due categorie complementari.
Fino circa a metà del XVI secolo la lingua dell’umanesimo, il latino di Erasmo da Rotterdam, cede lentamente il posto alla lingua nazionale. Diversamente dall’Italia, dove le proposte teoriche di Bembo e Speroni contribuiscono a risolvere la questione della lingua con alcuni anni di anticipo, in Francia le pretese dei neolatinisti sono molto forti, tanto che prima dell’affermazione di Ronsard e della Pléiade essi sembrano rappresentare da soli la poesia francese testimone della “renaissance des lettres”.
Nella battaglia per l’affermazione del volgare come espressione poetica “alta”, la storia della lirica francese appare affiancata e spesso preceduta dalle indicazioni teoriche che contribuiscono alla sua elaborazione. È ciò che avviene nel caso della scuola letteraria della Pléiade, i cui canoni formali ed espressivi si trovano illustrati, prima ancora che nelle opere poetiche, nella Déffence et illustration de la langue françéise (1549) di Joachim Du Bellay.
Rispondendo all’Art et science de rhétorique metriffié di Thomas Sebillet, che coniuga la venerazione dell’umanista per i modelli dell’antichità classica alla difesa di poeti moderni come Marot e Scève, Du Bellay esprime la volontà di tracciare una linea più netta tra gli esponenti dell’école lyonnaise e i nuovi poeti della Pléiade. Essi infatti rifiutano una concezione rigida e antistorica dell’umanesimo come periodo aureo e inimitabile della poesia, ma si rivolgono ai classici nell’intento manifesto di perfezionare la lirica volgare. La formulazione della nuova poetica interessa anche la metrica. Contro le forme della poesia precedente, la ballata o il rondeau, Du Bellay afferma l’importanza delle forme colte dell’ode e del sonetto, dell’elegia e della satira, sostituendo alla pratica della traduzione dei classici divulgata da Sebillet il concetto di imitazione, che avrà con Ronsard i suoi esiti poetici più alti. L’imitazione, intorno a cui ruota tutta la grande esperienza lirica cinquecentesca, consiste nel lavoro paziente e colto di assimilazione dei classici, per arricchire il tessuto linguistico e tematico di forme e ritmi sempre diversi e di combinazioni nuove.
In conclusione, l’importanza del trattato di Du Bellay, fortemente debitore alla retorica di Quintiliano e ricalcato in parte sul Dialogo delle lingue di Sperone Speroni, non sta tanto nella sua originalità, quanto nell’aver indicato i limiti e i pericoli di un umanesimo fatto di formule vuote e ripetitive, e segnalato l’importanza di una poesia fatta di innesti, di incroci e di scambi vitali, in cui gli elementi del presente facciano propria la lezione degli auctores assimilandone la forza e nello stesso tempo arricchendone le possibilità espressive di nuovi toni e sfumature.
A dispetto delle sue incoerenze, la Déffence merita di essere definita il manifesto della scuola letteraria della Pléiade, riunita intorno ai due poli opposti e complementari dell’antichità classica e della poesia francese, dell’umanesimo cosmopolita e del nazionalismo.
Oltre a Ronsard, unanimemente riconosciuto come “chef de file” del movimento, a Joachim Du Bellay, e al maestro riconosciuto di entrambi, Jean Dorat, la costellazione poetica della Pléiade comprende ancora i nomi di Pontus de Tyard, Jean Antoine de Baïf, Etienne Jodelle e Rémy Belleau. Il ruolo tradizionalmente attribuito dalla critica letteraria a Pontus de Tyard (1531-1603) è quello di mediatore tra il petrarchismo flamboyant italiano caro all’école lyonnaise, e la poetica della Pléiade. I rapporti con la scuola di Lione e la poesia di Scève in particolare vengono confermati da un esame più ravvicinato dei testi, improntati a un misticismo platonico che si muta in ansia di purificazione intellettuale e spirituale espressa in uno stile denso di metafore, antitesi, perifrasi e complicate allegorie. Sottile indagatore dell’essenza musicale dell’universo e dei segreti della natura, Pontus de Tyard si avvicina alle esigenze della Pléiade nella difesa appassionata della lingua francese e nella ricostruzione accurata e intensa delle favole pagane, nelle reminiscenze classiche rielaborate attraverso la lettura di Sannazaro e soprattutto di Della Casa, come dimostra il celebre sonetto dedicato al sonno.
Direttamente influenzata da Ronsard appare l’opera poetica di Jean-Antoine de Baïf (1532-1584), che tenta invano di eguagliarne l’intensa attività creatrice e la straordinaria abilità a cimentarsi con ogni tipo di genere, dalla lirica al teatro alla poesia scientifica, messa in atto nel Premier livre des meteores, ispirato al Meteororum liber del Pontano.
Più interessante è da considerare il tentativo di sostituire alla versificazione ritmica francese, basata sul numero delle sillabe e sugli accenti, una versificazione metrica basata sul valore della quantità, che Baïf cerca di attuare attraverso lo studio accurato delle leggi musicali. Come Baïf, anche Etienne Jodelle, la cui fama resta legata al poema tragico, si mostra raffinato studioso di combinazioni metriche e stilistiche, definite e organizzate secondo un ordine rigoroso e una passione formale che anticipa il gusto barocco di Jean de Sponde.
Profondamente diversa dall’esuberanza lirica di Baïf e dalla gravità copiosa di Jodelle risulta la poesia “oggettiva” di Rémy Belleau (1528-1577), tesa a cogliere l’incanto minuto e illusorio delle pietre, degli animali e delle cose, prigionieri del trascorrere del tempo e del ritmo incessante dell’universo, con risultati che ricordano da vicino l’Arcadia di Sannazaro. Nei quadri raffinati della Bergerie, composta di poesie e di prose, la vena didattica e scientifica e il peso delle fonti classiche come Lucrezio e Claudiano non inaridiscono la freschezza dell’ispirazione, ma anzi si combinano al sentimento immediato e spontaneo della meraviglia per gli spettacoli della natura.
La poesia di Joachim Du Bellay rappresenta in qualche modo il controcanto elegiaco e malinconico al vitalismo splendente di Ronsard. Il suo esordio avviene nel 1549 con la raccolta L’olive, composizione sul modello petrarchesco di 50 sonetti di argomento amoroso, che divengono 115 nell’edizione ampliata del 1550. Qui l’imitazione sapiente dei classici si unisce alla traduzione e all’emulazione dei testi italiani, da Petrarca ad Ariosto, da Castiglione a Bembo.
Nella ristampa del 1550 l’imitazione petrarchesca si allarga a comprendere, nei testi della Musagnaeomachie, il tono malinconico dei Trionfi. Dopo un silenzio di sei anni, Du Bellay torna alla poesia con la meditazione assorta dei Regrets (scritti in gran parte a Roma, dove si è recato al seguito di un suo parente, il cardinale Jean Du Bellay amico e protettore di Rabelais), composizioni poetiche il cui titolo evoca i Tristia di Ovidio, che testimoniano una volta di più la tendenza verso una lirica personale che esige uno stile più dimesso e una scrittura più libera. Nel 1558, il primo libro delle Antiquités de Rome svolge il tema classico e universale della grandezza e decadenza degli imperi che si accende di una nuova luce attraverso la meditazione personale del poeta dinanzi alle rovine di Roma, portando a compimento quella che è forse l’aspirazione più alta e completa della Pléiade: l’annullamento, nella poesia dell’esistenza, della distanza tra l’antico e il moderno.
La vocazione poetica del maggior protagonista della lirica francese del Cinquecento, Pierre Ronsard è tardiva: destinato alla carriera cortigiana e militare al seguito dell’umanista Lazare de Baïf, una sordità precoce lo obbliga a ripiegare sui benefici ecclesiastici. Il suo apprendistato letterario inizia al collegio di Coqueret, dove sotto la guida di Jean Dorat si dedica allo studio assiduo delle lingue e della cultura classica insieme a Du Bellay, Baïf e gli altri giovani poeti della Pléiade. Il suo interesse per la lirica lo porta naturalmente verso gli elegiaci latini (Virgilio, Ovidio, Orazio) e verso l’arte raffinata e difficile di Pindaro, degli Alessandrini e di Callimaco, che tanta parte avranno nella sua opera. L’esordio poetico, avvenuto nel 1550 con le Odes, esprime con estrema chiarezza i caratteri della nuova arte, colta e riservata agli spiriti eletti, e nello stesso tempo manifestazione di un’essenza ineffabile e segreta che il poeta può sfiorare o evocare, senza però mai giungere ad afferrare pienamente. Anche per questo la poesia di Ronsard è poesia del paragone, della similitudine che spesso non trova l’uguale, per cui d’improvviso alla pienezza rigogliosa della scrittura subentra il sospetto, appena accennato, di una mancanza, di una fessura che si apre tra la parola e la realtà, generando per antitesi una nuova esuberante esplosione poetica. Tale concezione della poesia intesa come metamorfosi, mutamento e riproduzione del significato, che comprende anche il grande lavoro di adattamento dei classici, costituisce la cifra interna della scrittura di Ronsard, la costante che unisce tutte le sue composizioni successive al di là delle differenze dei generi e degli stili: dal petrarchismo degli Amours (1552-56) all’erotismo colto delle Folastries (1553) alla poesia filosofica degli Hymnes (1555-1556), ispirati al modello di Callimaco.
Anche la teoria ronsardiana dell’imitazione risente della sua concezione poetica. Nel dibattito che oppone i partigiani del modello unico (Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia), a coloro che, sull’esempio di Erasmo da Rotterdam, raccomandano allo scrittore di scegliere i suoi modelli in funzione del suo temperamento e della sua sensibilità, Ronsard sceglie una terza via: come non si lega a nessun autore, non dà neppure spazio alla sua voce interiore, preferendo celarsi sotto quella altrui per assumere forme sempre diverse, secondo il mito rinascimentale di Proteo.
Più che al principio della varietà, declinato dalle teorie poetiche cinquecentesche, le metamorfosi poetiche di Ronsard si rifanno all’idea di copia, o abbondanza. Non un’abbondanza saggia, intesa nel senso tradizionale come arte fondata sui tesori della memoria, ma inesauribile ricchezza verbale che rimanda alle metamorfosi del mondo, al suo fluire incessante.
Così concepita, l’arte demiurgica di Ronsard trova la sua forma ideale nell’ode, che più di ogni altra consente cambiamenti di ritmo, di tono e di stile, ma la sua opera accoglie tutti gli altri generi, dall’epigramma al sonetto, dal discorso al poema.
Nella serie degli Amours, che comprende i sonetti dedicati a Cassandra Salviati, le canzoni e i madrigali campestri per Marie e i Sonnets pour Hélène, Ronsard riprende, innovandola, la tradizione del petrarchismo italiano e francese, riunendo in un’unica figura la celebrazione della donna e del divino. Il corpo della donna amata diviene allora, similmente agli altri elementi naturali, segno e rappresentazione della divinità, in una sorta di ammirabile microcosmo verbale che rinvia alla tradizione pagana del sincretismo umanistico e nello stesso tempo apre la via a nuove metamorfosi semantiche e allegoriche, dove il materialismo sensualistico del poeta si combina ad accenti neoplatonici. Nella dottrina poetica di Ronsard gli dèi hanno una doppia funzione, per cui alla loro manifestazione attraverso il potere delle figure e delle parole e alla lettura del prodigio segue di necessità la fuga o la sparizione dal mondo degli umani: la poesia diviene così allegoria di una verità che non può darsi se non per frammenti. In virtù di una grazia che coincide con la loro vocazione artistica, i poeti sono i soli capaci di fissare il loro sguardo sulla verità e mostrarla agli altri in veste di favola. Rappresentato a immagine della potenza creatrice, il macrocosmo si riempie così dei segni particolari che testimoniano la presenza del divino, e il mondo della natura, letto attraverso la rete delle reminiscenze classiche, appare come uno spazio denso di messaggi misteriosi, di demoni e di apparizioni che il poeta-demiurgo apprende a interrogare.
Negli anni che vedono l’acuirsi dei contrasti religiosi, la posizione del “Pindaro francese” crea una scissione nel fronte dei suoi ammiratori. Con il celebre Discours des misères de ce temps, come con la Remonstrance au peuple de France (1562), Ronsard abbandona la posizione iniziale di conciliazione, impegnandosi con fermezza nella battaglia antiprotestante e rivelando ancora una volta la sua straordinaria capacità di trasformazione poetica. A questa esigenza di rinnovamento unito alla vocazione civica e morale appartiene la Franciade, poema epico sulla storia di Francia al quale Ronsard lavora assiduamente fino al 1572, destinato tuttavia a rimanere interrotto al quarto canto. Con i tentativi della Franciade e del Discours, la frequentazione dei generi e degli stili appare completa: anche se la “nota grave” di Ronsard risuona pienamente soltanto nella spenta intonazione satirica dei Derniers vers, con i quali, al termine della sua esistenza, il poeta rivolge su di sé quella contemplazione della morte che aveva immaginato intessuta di sontuosi richiami letterari all’epoca delle stanze petrarchesche per Marie.