pietà e crudeltà
Il binomio mette a confronto nozioni che hanno storie diversissime. La pietas era – accanto alla fides e alla virtus – uno dei pilastri nel sistema dei valori sociali nella tradizione romana: dapprima ancorata all’ambito della famiglia (rispetto dei doveri nei confronti degli antenati e dei parenti), venne nel tempo consolidando una sua rilevante componente religiosa (rispetto degli dei) e patriottica (doveri nei confronti della comunità civica). L’articolazione complessa tra pietas, religio e humanitas mirava d’altronde alla legittimazione della conquista romana. In seguito, la sua integrazione nella riflessione teologica portò a insistere sul suo collegamento con la giustizia e l’equità – specialmente nella tradizione giuridica medievale. La pietas viene quindi associata a una rosa di concetti astratti quali umanità, liberalità, giustizia, carità, castità, i quali più che sinonimi sono valori aggiunti e affini che concorrono a completare un complesso quadro etico-religioso. La crudeltà invece è una nozione che non acquista pari forza teoretica (a differenza, per es., dell’ira): rimanda innanzittutto a comportamenti più che a elaborazioni astratte e, non a caso, le parole che vengono associate a essa indicano azioni precise e sono legate al sangue (cruentus è chi ama vedere scorrere il sangue). Il campo semantico della crudelitas si oppone a quello della clementia: l’esercizio della crudeltà è abnorme, è proprio del tiranno e rende illegittimo il potere di chi vi ricorre. In linea con quanto viene detto nel discorso tradizionale sulla tirannide, tale fenomenologia del male porta M. a insistere sui «modi» della crudeltà: rapine, furti, ferocia, scelleratezze, violenza.
Tuttavia, oltre a tali distinzioni, vanno segnalate tre caratteristiche di queste nozioni nella prosa di M.: in primo luogo, esse sono chiaramente contrapposte (cfr. Discorsi I xli 1); in secondo luogo, sono di uso poco frequente ma importante; infine, senza che mai ciò venga esplicitato e teorizzato chiaramente, la pietra di paragone di tale opposizione risiede nella «umanità». Nei Discorsi l’«umanità» ricorre spesso e si associa alla clemenza, all’integrità, alla civiltà, all’affabilità, alla bontà, all’amore, al controllo delle proprie passioni – contrapposta all’eccesso, alla forza, alla violenza. La pietas si confonde addirittura a volte con l’umanità ed è comunque un suo attributo cruciale, mentre la crudeltà ne è radicalmente priva. A proposito di Agatocle, M. sottolinea, nel cap. viii del Principe – testo capitale per il presente ragionamento – «la sua efferata crudelità e inumanità» (Principe viii 11). Analogamente, M. evoca i «modi crudelissimi, e nimici d’ogni vivere, non solamente cristiano ma umano» di Filippo il Macedone (Discorsi I xxvi 4). Anche per tale motivo la crudeltà occupa un posto centrale nella storia del machiavellismo (e non risultano sufficienti, a questo proposito, le letture puramente retoriche della questione) nonché nella favola, tramandata fino ai nostri giorni, secondo la quale il Principe sarebbe una difesa e illustrazione dei modi tirannici.
Il primo dato che colpisce quando ci si sofferma sulla presenza di p. e c. nei testi di M. è la sproporzione tra la forza dei concetti, la produttività del loro urto nella riflessione (nonché nelle letture fatte di quei testi dopo la morte dell’autore – una situazione illustrata particolarmente dal caso del Principe) e, d’altra parte, il numero molto contenuto delle occorrenze delle due parole, nelle opere maggiori così come negli scritti di governo. Nelle migliaia di pagine del carteggio di cancelleria, il campo semantico della pietà compare solo una volta, quando M. critica «coloro che solo alla propria utilità tendono e che, accecati dal desiderio del dominare, da nessuna piatà e da nessuna fede sono laudabili» (M. a Ser Antonio da Colle, lettera non datata [ma 12 settembre 1498], LCSG, 1° t., p. 56). La notazione è unica, ma non poco significativa: vi è nettamente segnalato lo sparti acque tra «desiderio di dominare» (ben nota caratteristica dell’umore dei grandi, nel cap. ix del Principe, o dei tiranni, nella tradizione medievale) e «piatà», nonché l’associazione di essa con la «fede» (altra nozione chiave della tradizione dottrinale). Simmetricamente, il termine di crudeltà appare solo una volta nel carteggio di cancelleria (due occorrenze dell’aggettivo crudele sono senza rilievo), ma con una funzione che merita di essere segnalata: vi si ricorda la soddisfazione del nuovo papa per la cattura di Miguel de Corella, che gli forniva l’occasione «di scoprire tutte le crudeltà di ruberie, omicidi, sacrilegi e altri infiniti mali che da undici anni in qua [cioè dall’elezione di Alessandro VI] si sono fatti a Roma contro Iddio e li uomini» (M. ai Dieci, 1° dic. 1503, LCSG, 3° t., p. 431). La crudeltà viene inserita qui in una sfilza di mali che descrivono un comportamento tirannico, secondo i topoi diffusi sul papa Borgia, soprattutto dopo la sua morte.
È vero che, nei Decennali, M. qualifica già Alessandro VI attraverso le sue «ancelle [...] Lussuria, Simonia e Crudeltade»; e segnala che Cesare Borgia si illuse di trovare in altri «quella pietà che non connobbe mai» (Decennale I, v. 447, ed. Vivanti, 1° vol., p. 104, e v. 474, p. 105). È vero anche che nel capitolo “Dell’Ambizione” il furore della guerra della lega di Cambrai porta a usare ben quattro volte il lessico della crudeltà in una ventina di versi (Capitoli, ed. Vivanti, 3° vol., pp. 45-47; per es., «cotanta crudeltà mai vidde il sole», v. 132, p. 46). Ciononostante, il quadro d’insieme non cambia: p. e c. non sono colonne portanti della riflessione nelle prime pratiche di scrittura del Segretario, benché egli fosse certamente già consapevole della crisi del sistema di valori associato alla pietas e, insieme, della durezza inedita dei tempi di guerra. Il fatto suscita quindi una certa sorpresa: la pietas, in particolare, avrebbe potuto occupare un posto rilevante nella retorica funzionale del carteggio, nutrita dei codici di una professione regolata, e invece risulta evanescente.
Quanto alla crudeltà, la lettura delle opere scritte dopo il 1512 conferma la prima impressione. Nel Principe come nei Discorsi la questione della crudeltà struttura pochi nodi della riflessione, ma essi sono cruciali. La tematica viene trattata a blocchi singoli di capitoli determinati, piuttosto che in modo diffuso e permanente.
In un simile quadro le Istorie fiorentine (da qui in poi Ist. fior.) sono un caso a sé, specialmente per la presenza e la funzione delle concioni, spazio prediletto per il lessico della retorica più tradizionale. Vi troviamo quindi tracce significative di usi canonici delle categorie. Più volte, nella sua grande storia, M. mette in scena il tradizionale collegamento pietà-giustizia (Ist. fior. V viii 15: «e dove altra volta quello acquisto sarebbe stato giudicato ambizioso e violento, al presente sarà giusto e pietoso existimato») o, simmetricamente, il collegamento tra empietà e ingiustizia (Ist. fior. VIII xi 2: «poi che il Papa si era dimostro lupo e non pastore, per non essere come colpevoli devorati, con tutti quelli modi potevono la causa loro giustificavano, e tutta la Italia del tradimento fatto contro allo stato loro riempierono, mostrando la impietà del Pontefice e la ingiustizia sua, e come quello pontificato che gli aveva male occupato, male esercitava»). In un altro passo, M. può alludere a «una sì onesta e piatosa republica» (Ist. fior. IV xxi 10), alla quale viene contrapposta, nel confronto fra una pietas pubblica e la crudeltà del cattivo singolo individuo, «la disonestà e crudeltà d’uno suo malvagio cittadino». Nello stesso modo tale protagonista può essere qualificato di «piatoso, oficioso, liberale e amato da ciascuno», con elogio conseguente della sua «pietà», della «liberalità», dell’«amore» (Ist. fior. IV xxvii 16). In un altro passo (Ist. fior. V viii 8) tornano poi accenti liviani per sottolineare che «sono solamente quelle guerre giuste che sono necessarie», e che «quelle armi sono pietose dove non è alcuna speranza fuora di quelle», seguendo una libera traduzione di un passo di Livio ripreso in latino ben due volte, alla fine del Principe (xxvi 10) e nei Discorsi (III xii 17). In un’altra concione si ricorda che si oppongono «a’ tiranni gli uomini liberi» e «agli impii i pietosi» (Ist. fior. VII xix 11). In altre concioni ancora la crudeltà viene associata alla «superbia» (Ist. fior. VI xx 5), il che ricorda anche la frequente associazione di «crudele» e «superbo» nei Discorsi (per es. in I xli 1, I xlvii 17, III v 6). Non manca nemmeno il collegamento con il «sangue», secondo un dato classico ed etimologico (Ist. fior. V xi 21). Altre volte ancora ritroviamo la crudeltà nel topos dei vizi del tiranno:
Era Galeazzo libidinoso e crudele, delle quali due cose gli spessi esempli lo avevono fatto odiosissimo; perché non solo non gli bastava corrompere le donne nobili, che prendeva ancora piacere di publicarle; né era contento fare morire gli uomini, se con qualche modo crudele non gli ammazzava (Ist. fior. VII xxxiii 7).
Ma nelle Istorie fiorentine compare anche la traccia di un gesto teorico di natura diversa, quando M., rimettendo in forse il nesso parola/cosa, prende le distanze dal comune lessico morale e politico. Infatti scrive che
quello che è più pernizioso è vedere come i motori e prìncipi di esse [delle fazioni] la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo adonestano, perché sempre ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o di popolare difendendo, opprimano (Ist. fior. III v 9).
Lo sforzo di pensare a quale sostanza corrispondano i «piatosi vocaboli» presuppone che non ci si fidi più del lessico trasmesso e si voglia interrogare in modo nuovo i significati delle parole ricevute in lascito dai padri. Fu appunto quello il cantiere aperto a proposito di p. e c. nel Principe e nei Discorsi.
Il primo momento di ripensamento sistematico della questione delle «crudeltà» (al plurale) è il blocco – importante nell’economia globale dell’opuscolo – dei capp. vii, viii e ix del Principe, quando si passa in poche pagine dal decisivo racconto borgiano (vii) all’invenzione del principato civile (ix). In quelle pagine vengono indagate, come indicano i titoli dei capitoli, varie vie per accedere al principato nuovo: accanto a quelle che erano state preannunciate nel cap. i dell’opuscolo – con la virtù, con la fortuna, con le armi proprie o con le armi mercenarie – ne compare un’altra, non preventivata, quella che riguarda chi accede al principato «per qualche via scellerata e nefaria» (Principe viii 2). Il riferimento alle sceleratezze, che definiscono quanto risulta dalla crudeltà del singolo, rimanda a un campo semantico che è di uso non frequente, ma cruciale nel lessico machiavelliano. Assente nel carteggio di cancelleria e nell’Arte della guerra, ricorre poche volte nei Discorsi e nelle Istorie fiorentine. E nel Principe appare solo nei capitoli viii e ix. La questione dei crimini, delle crudeltà – parola centrale del cap. viii e del cap. xvii – non era stata preceduta da alcuna indicazione specifica, né, tanto meno, se ne era parlato come di un nodo discriminante: la questione si genera, piuttosto, dal testo stesso, a partire da quanto era stato enunciato nel cap. vii, riguardo all’articolazione della virtù e della violenza, specie grazie all’esempio del crudele Rimirro da Orco, pacificatore della Romagna ucciso da Cesare in nome dello stesso buon governo. Tornerà tale riflessione con il cap. xvii; ma, per giungere a esso, è necessario capire come M. costruisca il problema tra i capp. vii e ix. Nel cap. vii, M. si interroga soprattutto sulla natura dell’equilibrio tra virtù, fortuna e armi, nell’ambito dei tempi della necessità, ossia della guerra. Dopo il grande esempio borgiano che occupa quasi tutto il cap. vii, il capitolo successivo ne propone altri due, uno antico (Agatocle) e l’altro moderno (Oliverotto da Fermo), secondo un equilibrio apparentemente plutarchiano, ma – ed è lì che si complica l’analisi – composto da esempi parzialmente irricevibili. I due casi servono infatti a illustrare, da un canto, la specificità positiva e la compiutezza del precedente modello borgiano; dall’altro, a stabilire le distinzioni tra i vari «tempi» delle crudeltà. Oliverotto da Fermo scompare dalla galleria degli exempla oltre il cap. viii del Principe; e il ricorso ad Agatocle nei Discorsi è limitato a esemplificare l’importanza della «fraude» o il rischio di un golpe militare – mentre la sua origine umile e la sua parabola storica vincente, tutt’insieme virtuosa e fortunata, avrebbero ben potuto farne un esempio di principe civile. Cesare Borgia invece, come si sa, viene ripreso come esempio da seguire senza sfumatura nel cap. xvii, ossia nel passo del testo in cui appunto si tratta di distinguere la pietà dalla crudeltà e di tematizzare le due nozioni. Gli esempi di Agatocle e di Oliverotto sembrano subordinati all’esempio borgiano e sono trattati d’altronde con maggiore brevitas. Infatti, la via seguita da Agatocle e Oliverotto non è solo «scelerata» bensì «nefaria», abominevole: l’aggettivo latineggiante nefaria è un hapax nell’insieme dell’opera di M. e costituisce qui, con scelerata, più che una delle solite dittologie sinonimiche machiavelliane, una forma di climax che sottolinea l’eccesso (per questo M. preferisce la rapidità del medaglione alla narrazione complessiva delle crudeltà successive all’ascesa al potere di Agatocle – molto presenti invece nelle fonti greche e latine). Agatocle e Oliverotto sono sostanzialmente estranei allo spazio storico della virtù, come viene sottolineato, con un pizzico d’ironia, da M. a proposito del primo:
Non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza piatà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello intrare e nello uscire de’ periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché elli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano. Non di manco, la sua efferata crudelità e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra li eccellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito (Principe viii 9-12).
Eppure gli eccessi rimproverati ad Agatocle («ammazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza piatà, sanza religione») sono tutti condivisi dall’esemplare Cesare Borgia. È dunque fondamentale sapere in quale misura azioni identiche possano essere o no esemplari. Il cap. viii risponde a questo paradosso apparente distinguendo tra due tipi di scelleratezze, due tipi di crudeltà, e mettendo in rilievo un tema essenziale per la lettura di M.: il bene e il male nella politica. Anche per questo un ponte esiste tra il cap. viii e il blocco dello «specchio infranto» dei principi, costituito dai capp. xvii e xix. Non a caso in quel medesimo cap. xvii torna l’esempio di Borgia, e i capp. xvii e xix propongono la maggior parte delle altre occorrenze della parola crudeltà, nonché l’assioma che sembra fondare la concezione di M. sul bene e il male in politica: gli uomini «sono tristi» e «semplici» (Principe xvii 11 e xviii 9).
La fondamentale tipologia binaria delle crudeltà è enunciata alla fine del cap. viii:
Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che Agatocle e alcuno simile, dopo infiniti tradimenti e crudeltà, possé vivere lungamente sicuro nella sua patria e defendersi dalli inimici esterni, e da’ sua cittadini non li fu mai conspirato contro; con ciò sia che molti altri, mediante la crudeltà non abbino, etiam ne’ tempi pacifici, possuto mantenere lo stato, non che ne’ tempi dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle crudeltà male usate o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire bene) che si fanno ad uno tratto, per necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino (Principe viii 22-25).
Tutto sta quindi nell’uso delle crudeltà. Perché esse siano «bene usate», tre condizioni sono richieste: che non durino, che siano dettate dalla necessità e, infine, che si trasformino in utilità per i sudditi. Se sono rispettate queste condizioni il principe crudele può mantenersi al potere con buona pace degli uomini e di Dio (notazione questa nella quale non è escluso che traspaia una qualche ironia di M.). Da ciò deriva anche che Agatocle sia, in M., un personaggio meno negativo di Oliverotto. Esistono un tempo, una necessità e un ordine delle crudeltà. Esse non devono mai essere gratuite e personali: il confronto tradizionale tra una pietas strutturalmente ‘sociale’ e una crudeltà ancorata nel vizio del singolo viene in questo modo ripensato e trasformato. Il principe, o chi governa, deve scegliere con cura il momento dell’agire crudele: l’inizio del regime, la reazione a una congiura o a un tumulto. L’occasione opportuna per passare dalla pietà alla crudeltà va meditata accuratamente (Discorsi I xli). Quando la scelta è fatta, chi governa non deve esitare a compiere tutte le crudeltà in una sola volta; ma anche, e soprattutto, deve sapersi fermare appena possibile.
L’unico obiettivo che valga rimane infatti comunque, come per la Romagna di Borgia, quello di instaurare o restaurare un buon governo nello Stato. I tempi di crisi (quei «tempi dubbiosi» della guerra) non sono il momento più adatto a «entrare» nella crudeltà: «venendo per li tempi avversi le necessità, tu non se’ a tempo al male» (Principe viii 30).
La crudeltà «bene usata» è una componente del buon governo: non è giustificata dalla cattiveria degli uomini, ma dall’efficienza dell’azione di chi regge lo Stato e dalla sua situazione determinata (i principi nuovi, rispetto agli ereditari, hanno maggiore bisogno di ricorrere alle crudeltà, come insegnano i capp. xviii e xix del Principe). Per M. non esistono un bene o un male assoluti, ma solo situazioni storiche in cui comportarsi in un certo modo è cosa efficace, in questo senso «buona», o sbagliata. Conta solo l’adeguarsi alla «qualità dei tempi» grazie all’esercizio dei «modi» giusti. In tale logica, il principe saprà imboccare la via del male se è necessario (Principe xviii 15). Bene e male sono avverbi più che sostantivi: si agisce bene o male piuttosto che fare il bene o il male; e le «crudeltà» sono l’illustrazione migliore di tale concezione. L’argomentazione può spingersi, parlando di Ferdinando il Cattolico, fino a costruire l’ossimorica «pietosa crudeltà» (seppure non sia vietato riconoscere anche qui una forma di distanza ironica dell’autore): «Oltre a questo, per potere intraprendere maggiore imprese, servendosi sempre della religione, si volse ad una pietosa crudeltà, cacciando e spogliando e’ marrani del suo regno» (Principe xxi 5).
I Discorsi precisano la tipologia delle crudeltà edei loro usi, variando casi e punti di vista. È tanto più necessaria una tale casistica in quanto le leggi della «qualità dei tempi» e del «riscontro» possono cagionare effetti identici a partire da scelte antitetiche (cfr. Ghiribizzi al Soderino e, tra tanti altri esempi, Discorsi III xxii 7, dove M. si chiede «donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì rigidamente; [...] donde avvenne che Valerio potette procedere sì umanamente» e «quale cagione fe’ che questi diversi modi facessero il medesimo effetto»).
Uno dei nodi dell’impresa di M. risiede nel trovare uno spazio eticamente difendibile per i «remedi estraordinari» – i quali gli verranno rimproverati dall’amico Francesco Guicciardini:
Però bisogna che el principe abbia animo a usare questi remedi estraordinari quando sia necessario, e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta qualunque occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co’ benefici, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore [id est M.], al quale sempre piacquono sopra modo e’ remedi estraordinari e violenti (Considerazioni I xxvi).
La premessa di tale ricerca sta nell’ammettere che conviene evitare le «vie di mezzo». Al riguardo, per M., il problema non nasce tanto da una presunta cattiveria naturale degli uomini, quanto dalla loro eventuale incapacità di imboccare la via della «grande» malizia: così M. critica quelli che «non sanno essere né tutti cattivi, né tutti buoni» (Discorsi I xxvi 5), aggiungendo che «gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi o perfettamente buoni; e, come una malizia ha in sé grandezza o è in alcuna parte generosa, e’ non vi sanno entrare» (Discorsi I xxvii 6). Rimane però da chiarire quali siano le condizioni nelle quali la «malizia» diventa accettabile, addirittura raccomandabile.
In questa prospettiva, popolo e patria sono due banchi di prova per la legittimazione delle crudeltà. Soffermarsi su questi due casi porta d’altronde a passare dalla contrapposizione fra p. e c. a una potenziale articolazione di esse. Ridimensionando quella che chiamavamo, più sopra, «riduzione» del significato di pietà, si torna così a due delle componenti maggiori della pietas romana, ben presenti nei giuristi medievali (cfr. Kantorowicz 1957, trad. it. 1989, pp. 22845): quella dei doveri nei confronti della comunità civica e quella dei doveri nei confronti della patria – i quali possono poi confondersi in vari contesti. Cicerone integrava già una simile riflessione che, in nome della componente sociale della pietas, introduceva una gerarchia delle forme di pietà secondo la quale l’amore della patria prende il sopravvento sull’amore dei parenti. In una logica ferrea viene allora posto esplicitamente nel Digesto che i crimini più atroci, fino al parricidio o all’infanticidio, sono legittimi se vengono commessi in nome della caritas patriae, in quanto publica caritas, e quindi dissociata dalla virtù cristiana omonima. M. non riprende alla lettera queste posizioni dottrinali, ma, come spesso gli succede, le usa per una sintesi tutta sua, ancorata a due punti centrali nel suo pensiero: il popolo e la patria. Si capisce allora meglio perché, nel Principe, al cap. viii sulle crudeltà bene e male usate segue il cap. ix sul principato civile, che è anche lo spazio di teorizzazione della necessaria alleanza con il popolo e contro i grandi. Nella stessa prospettiva, M. nota che le crudeltà non sono efficaci contro il popolo di una Repubblica bene ordinata come quella romana: «e’ pare che e’ sia meglio, a governare una moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele» (Discorsi III xix 5). Alla fine dei Discorsi sorge pure una proposta decisiva sugli usi della crudeltà, una proposta che chiude il cerchio e torna paradossalmente al senso tradizionale della pietas, ossia qualsiasi crudeltà è buona se viene fatta in nome della salvaguardia della patria:
la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria [...] La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà (Discorsi III xli 3-5).
La razionalità pacata delle glosse liviane dei Discorsi raggiunge qui la retorica delle concioni delle Istorie fiorentine, una delle quali si chiedeva quale pietà «possa superare quella che tragga la patria sua di servitù» concludendo che «è certissimo per tanto la causa nostra essere piatosa e giusta» (Ist. fior. V viii 9).
Bibliografia: E.H Kantorowicz, The King’s two bodies. A study in mediaeval political theology, Princeton (N.J.) 1957, 19852 (trad. it. Torino 1989); H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963; H. Wagenvoort, Pietas. Selected studies in Roman religion, Leiden 1980; G. Sasso, Principato civile e tirannide (1982-1983), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 351-490; V. Kahn, Machiavellian rhetoric, Princeton (N.J.) 1994; J.-L. Fournel, De l’acquisition par le crime ou le temps des cruautés: lectures machiavéliennes, «Quaderni d’italianistica», 2000, 21, 2, pp. 127-40; V. Allard, La crudelitas d’Aurélien, in La “crise” de l’Empire romain de Marc Aurèle à Constantin, éd. M.-H. Quet, Paris 2006, pp. 173-84; V. Cox, Rhetoric and ethics in Machiavelli, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 173-89.