SANSEVERINO, Pietrantonio
– Nacque nel 1500 circa da Berardino e da Eleonora Todeschini Piccolomini, figlia del duca d’Amalfi.
Berardino aveva istituito sui suoi beni una primogenitura maschile grazie al privilegio rilasciato alla famiglia dei Sanseverino nel 1473. Dopo la morte dei fratelli maggiori, nel 1516 Pietrantonio ereditò uno dei maggiori complessi feudali del Regno di Napoli in Calabria Citra. L’insieme si stendeva dalla costa tirrenica alla costa ionica su oltre sessanta terre, alle quali si aggiungeva un gruppo di feudi in Basilicata, più qualche terra sparsa in altre province. Questi centri abitati erano sotto la sua giurisdizione feudale per i primi e i secondi appelli. Inoltre, altre notevoli fonti non feudali di reddito gli provenivano dalla giurisdizione sulla famosa fiera di Senise (presso Potenza), dalla gabella della seta calabrese, da vari privilegi di esportazione e di immunità fiscali per il ferro e le armi, per il prodotto dei suoi zuccherifici e per le saline di Altomonte. L’allevamento di pregiate razze di cavalli aggiungeva prestigio e ricchezza all’insieme. Il suo patrimonio immobiliare calabrese era notevole. A Napoli, dove possedeva già un palazzo vicino a quello del principe di Salerno, fece costruire nel 1548 una bella villa a Chiaia.
Alcuni possessi erano in realtà subinfeudati, ma la maggior parte dei cespiti di reddito erano gestiti in affitto. Tuttavia, Sanseverino curava l’amministrazione dell’insieme. Fece regolari e frequenti soggiorni nelle sue terre (con una preferenza per Cassano), non mancando di vigilare sui suoi numerosi ufficiali e di curare i suoi interessi con una certa asprezza. Tra il 1523 e il 1524, ratificò dei capitoli con gli abitanti delle sue numerose terre relativi all’esercizio dei diritti signorili e all’uso delle terre demaniali; nel 1530, fece lo stesso con la popolazione albanese immigrata nel XV secolo per iniziativa del suo avo Girolamo Sanseverino. Fu attento a promulgare gli editti regi, come la proibizione di portare armi nel 1547 e nel 1548, ma nei suoi tribunali ricorreva largamente alla composizione e alla remissione di pena.
Mantenne attorno a sé una corte piuttosto importante. Educava paggi alla vita nobile, come testimonia il caso di Luigi Tansillo. Fino al 1555, stipendiò una cappella polifonica. Queste grandi ricchezze finirono tuttavia oberate da molte ipoteche. Ma finché visse Sanseverino, il patrimonio fu poco intaccato dai creditori, salvo qualche vendita. L’assenso regio era necessario per qualsiasi liquidazione dei debiti sui beni feudali di un uomo del suo rango. L’indefettibile fedeltà manifestata al servizio del sovrano nel combattere e nello spendere sembra avere allontanata ogni minaccia di resa dei conti. Le vicende di Sanseverino illustrano la dinamica politica del baronaggio nei confronti di Carlo V e come questi ebbe la meglio sugli oppositori. Esse sono anche esemplari dello stile di amministrazione dei feudatari del Regno di Napoli nei confronti degli abitanti delle loro terre.
Quando Carlo d’Asburgo decise per la prima volta di creare nuovi cavalieri dell’Ordine del Toson d’oro selezionati tra i suoi nuovi domini spagnoli, volle un solo napoletano: Sanseverino. Egli si recò a Barcellona per ricevere tale onore nel marzo del 1519. Nel 1520, ottenne per i suoi beni e titoli un solenne privilegio il quale confermava in tutto quello accordato dal re Federico d’Aragona nel 1496. Nel 1523, richiese di avere la responsabilità di una compagnia di 50 lance, con soldati reclutati e alloggiati nei suoi feudi e sotto il suo comando. Nel 1528, con tali armi, represse in Calabria la sollevazione di Simone Romano che parteggiava per il re di Francia. Nell’estate del 1531, trascinò la maggioranza del Parlamento del Regno a votare tutto l’importo d’imposta richiesto dal viceré Pompeo Colonna, contro una minoranza contraria.
Non assistette all’incoronazione di Carlo V a Bologna nel 1530, delegando solo un suo rappresentante, ma nel dicembre del 1531 si recò nelle Fiandre presso l’imperatore dove si celebrava un capitolo del Toson d’oro. In quest’occasione, gli fu rimproverato di avere avvelenato una delle sorelle: Carlo V chiese di avere più informazioni sui fatti. Nel 1533-34, armò una galera a sue spese per la progettata spedizione contro il sultano Solimano il Magnifico. Tornando da Tunisi, Carlo V, insieme con la sua corte, fu ricevuto nella tenuta calabrese di Sanseverino a San Mauro. Lo sfarzo del ricevimento meravigliò non poco gli spagnoli, ammirati dalla bellezza degli alloggi, dall’abbondanza del vino e dalle bellissime cacce. A Napoli, Sanseverino non badò a spese in feste e giostre per il reale divertimento. Fu probabilmente elevato a grande di Spagna in questa occasione. Quando Carlo V, nel 1536, lasciò il Regno, svolgeva servizio militare sotto il marchese del Vasto Alfonso III d’Avalos d’Aragona come generale della cavalleria rimasta in Italia.
Si sposò due volte (un primo progetto matrimoniale, con Giovanna Requesens, del 1511 non pare avere avuto seguito): nel 1532, con Giulia Orsini (figlia del signore di Bracciano Gian Giordano), nel 1539, con Irene Castriota Scanderberg, figlia ed erede di Ferdinando, duca di San Pietro in Galatina, che trasmise il titolo e il feudo alla casa dei Sanseverino.
Ebbe due figlie dal primo matrimonio: Eleonora Dianora, poetessa, che sposò Ferdinando di Alarcon y Mendoza, e Felicia, moglie di don Antonio Orsini, quinto duca di Gravina. Dal secondo matrimonio nacquero, nel 1541, a Morano Nicolò Berardino, unico erede e, nel 1543 circa, una figlia, Vittoria, che andò sposa a Ferdinando di Capua, duca di Termoli.
Nel 1540, assente al capitolo del Toson d’oro, fu accusato non solo di avere avvelenato la sorella, ma anche di avere ucciso la moglie Giulia Orsini. Carlo V sospese di nuovo il giudizio dei cavalieri chiedendo sempre nuove informazioni. Nel 1541, Sanseverino, scortando il viceré di Napoli, don Pietro di Toledo, incontrò Carlo V a La Spezia, dove ottenne un nuovo ordine di reintegrazione in alcuni beni il cui possesso gli era contestato. I suoi rapporti con l’imperatore non erano per niente incrinati. Nel 1545, a Utrecht, davanti al capitolo dell’Ordine, l’imperatore disse di avere proceduto personalmente all’inchiesta sul caso di Sanseverino, assolvendolo dall’accusa di aver ucciso la sorella, ma avallando invece quella dell’assassinio della moglie, definita donna di condotta indegna che nessuno aveva voluto vendicare. Sanseverino fu quindi perdonato e gli si chiese solo di giustificare la sua assenza. La risposta, giunta nel luglio del 1546, soddisfece interamente i cavalieri.
Nel 1547, a Napoli, quando ebbero luogo i moti contro l’Inquisizione alla maniera di Spagna che unirono nobili e popolo contro il viceré, Sanseverino si schierò a fianco di Pietro di Toledo, e svolse un ruolo di mediatore. Quando si trattò, nel 1552, di sanzionare definitivamente il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, per tradimento, Pietrantonio fu aggregato al Consiglio del collaterale e votò per la condanna. Nel 1554, le Piazze nobili di Napoli lo scelsero come loro sindaco, delegato a presentare l’omaggio della città all’inviato di Filippo II (investito del Regno da parte di Carlo V). Durante il Parlamento del 1556, fu uno dei deputati del baronaggio i quali, insieme con i deputati della città, dovevano dibattere delle grazie da richiedere al sovrano.
Due anni dopo, affetto da idropisia secondo il cronista Gregorio Rosso, pensò di curarsi con le acque termali delle Fiandre. Non migliorando il suo stato di salute, desiderò consultare dei medici in Francia, ma morì a Parigi l’8 aprile 1559. Fu sepolto nel convento di S. Francesco di Paola a Bisignano.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Sanseverino, buste 72 e 88; Dipendenze della Sommaria, II numerazione, 145, 313, 338.
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