ABELARDO (Abaelardus, Abailardus), Pietro
Filosofo e teologo, nato il 1079 al Pallet (Palatium; ond'è chiamato spesso nei manoscritti peripateticus palatinus), in Bretagna, non lungi da Vantes. Egli stesso, in un'epistola d'indubbia autenticità, detta comunemente Historia Calamitatum (scritta fra il 1133 e il 1136), ci narra in uno stile fortemente colorito i casi di buon tratto della sua vita (fino al 1129).
Suo padre, Berengario, nobile non digiuno di lettere, volle che questo primo dei quattro suoi figli ricevesse una conveniente educazione, anzi che fosse avviato alle armi. Ben presto si svegliò nel giovanetto tale ardore per gli studî e tale bramosia di gloria, che, rinunciando al privilegio della primogenitura, preferì alle battaglie cruente le nobili gare dello spirito e le dispute dialettiche, che, riaccesesi in Francia nella seconda metà del sec. XI dominarono gran parte del successivo. Peregrinò, come si soleva, di provincia in provincia, in cerca dei più rinomati maestri, finché giunse alla scuola di Roscellino, del quale prese, fin d'allora, a combattere la dottrina che i concetti universali non sono se non flatus vocis cui niente corrisponde nella realtà. Si recò poi a Parigi, mèta dei suoi desiderî, per udirvi Guglielmo di Champeaux, che reggeva, con gran grido, la scuola cattedrale di Notre-Dame. Antagonista di Roscellino, cui opponeva il suo realismo ad oltranza, Guglielmo insegnava che una stessa essenza generica e specifica è realmente tutta in tutti gli individui della stessa specie, i quali perciò non differiscono essenzialmente, ma solo per le loro proprietà accidentali. Spirito bellicoso fin dalla sua giovinezza, come lo dice S. Berardo, A. non tardò a impregnare anche questa dottrina, che fece bersaglio di sottili argomentazioni e di acuti strali intinti d'ironia. Fin da queste prime dispute sulla vessata questione degli universali, si rivelò l'ingegno critico e battagliero di lui, più abile a demolire le posizioni avversarie che a costruire un edificio capace di sfidare i secoli. La sua vita irrequieta fu un'incessante battaglia contro avversarî che usarono contro di lui tutte le armi.
Maturo per l'insegnamento, professò la dialettica a Melun e quindi a Corbeil, donde la sua crescente fama giunse a Parigi. Ritornato in patria, in seguito ad un esaurimento dovuto a soverchia applicazione, lasciò la terra natale appena ebbe notizia che Guglielmo di Champeaux s'era ritratto a vita religiosa nel novastero di S. Vittore, ove per altro aveva aperto una nuova scuola. Accorso a Parigi, Abelardo sferrò un nuovo violento attacco contro il maestro, costringendolo a un'importante modificazione della sua precedente dottrina degli universali. Lo stesso successore di Guglielmo sulla cattedra di Notre-Dame, decise di cedere il posto ad Abelardo. Questi tuttavia non poté godere i frutti della vittoria, ché l'ira di Guglielmo, deciso a sbarazzarsi con ogni mezzo dell'importuno rivale, l'obbligò ad abbandonare Parigi e a riparare a Melun. Ma non tardò molto a far ritorno a Parigi; e, non potendo occupare la cattedra a lui vietata di Notre-Dame, pose il campo, com'egli stesso bellicosamente s'esprime, sul colle di S. Genoveffa, e, apertavi una scuola di dialettica, dichiarò guerra alle scuole rivali. Nuova sconfitta di Guglielmo, che abbandonava definitivamente l'insegnamento. È il momento epico della lotta intorno agli universali. In aiuto di Guglielmo accorse un giovane dialettico belga, Gosvino, che, dotato di facondia ed esperto nelle armi della logica, tenne fronte con qualche successo al temibile avversario.
Richiamato in patria da motivi di famiglia, Abelardo fece ritorno a Parigi, colla speranza di salire la cattedra di Notre-Dame. Ma, convinto che avrebbe meglio raggiunto lo scopo, se alla valentìa nella dialettica avesse aggiunto il titolo di maestro in teologia, si recò alla scuola di Anselmo di Laon, per essere iniziato allo studio della scienza divina. Ad Abelardo, Anselmo parve uomo della tradizione, versato nella lettura dei Padri, che tramandava ai discepoli il pensiero del passato, senza riuscire a vivificarlo colla propria riflessione: erudizione, dunque, non vera scienza. Ben presto, impaziente, cominciò a tenere ai suoi condiscepoli alcune lezioni sopra Ezechiele, con grande ira del vegliardo, che vide d'un tratto turbata la tranquillità della scuola e molti dei suoi discepoli applaudire al novello audace teologo. Presero le difese del venerando maestro Alberico di Reims e Lotolfo Lombardo, i quali brigarono così che ad Abelardo fu vietato l'insegnamento a Laon. Intanto, nel corso del 1113, Guglielmo di Champeaux veniva assunto al vescovado di Châlons. Certo che nessuno gli avrebbe ormai contesa la cattedra di Notre-Dame, A. lasciò Laon. A Parigi riprese l'insegnamento della dialettica e l'esposizione di Ezechiele, tra il plauso degli scolari che da ogni parte affluivano alla scuola cattedrale.
Appartengono a questo primo periodo della carriera scolastica di Abelardo le Introductiones parvulorum, oggi perdute, e la Dialectica, pubblicata acefala dal Cousin, la cui prima parte è formata dalle Glossulae super Porphyrium, già note al Rémusat e riscoperte di recente dal Grabmann e dal Geyer. La Dialectica, scritta forse intorno al 1121, costituisce una trattazione completa di logica secondo Aristotele e Boezio. Mentre gli avversarî di Abelardo pare riducessero tutta la dialettica al problema degli universali, egli mostra di essere informato su tutta quanta la dottrina logica dello Stagirita. A chiarire il pensiero di Abelardo sulla questione degli universali, nuova luce ha portato il rinvenimento delle Glossulae su Porfirio. Nel manoscritto ambrosiano l'universale è fatto consistere nella vox;; invece in quello di Lunel, l'universale non è né res né semplice vox, sibbene sermo. Questa diversità di formula potrebbe ben dipendere da uno sviluppo naturalissimo del pensiero di Abelardo, passato dalla scuola nominalista di Roscellino a quella di Guglielmo di Champeaux. Il sermo, a differenza della vox, indica una funzione logica dello spirito, ossia la capacità di formare concetti predicabili di più individui. Ora il valore di questi concetti ha, per Abelardo, un fonamento nella reale somiglianza o convenienza che v'è tra individui dello stesso genere e della stessa specie; mentre la loro università dipende dalla funzione atrattiva della mente, ossia dal potere di separare, concettualmente, quello che nella realtà individuale è unito. Con la dottrina dell'astrazione Abelardo torna ad Aristotele e a Boezio, e fa entrare in una nuova fase il problema degli universali, insolubile nel modo com'era posto da Roscellino e da Guglielmo di Champeaux, riconducendolo al problema dell'origine e del processo della conoscenza intellettuale. Non una soluzione intermedia fra quella dei precedenti maestri aveva egli trovato, ma una soluzione più profonda e, in quell'ambiente spirituale, veramente nuova; sicché non a torto parve ai suoi contemporanei che solo A. avesse inteso Aristotele.
Agli anni dell'insegnamento a Notre-Dame si riferisce il suo amore disgraziato per Eloisa, la bellissima e colta nipote del bestiale canonico Fulberto, che prese d'Abelardo scellerata vendetta, sì che, con cruento sequestro, lo rese men che uomo (Tosti, p. 83). Il rumore che si levò del fatto, sorprese il maestro al sommo della celebrità e lo costrinse a seppellirsi, pieno di vergogna, nel monastero di S. Dionigi (1118), mentre Eloisa sacrificava per lui la sua giovinezza, nel monastero di Argenteuil.
Col ritiro nel chiostro di S. Dionigi, s'inizia il secondo periodo della vita di Abelardo, non meno tempestoso del primo. Se altri poteva sperar l'oblio dalla solitudine del monastero, non poteva sperarlo Abelardo, la cui sciagura fece piangere i suoi ammiratori, come c'informa Folco, abate di Deuil. Non passò molto tempo, che gli allievi vennero a supplicarlo che riprendesse l'insegnamento; il che fece, col consenso dell'abate, desideroso di sbarazzarsi di lui, stabilendosi con essi nel romitorio di Nogentsur-Seine. Ivi, senza abbandonare la filosofia, si dedicò di preferenza alla teologia, nella quale, sull'esempio di Origene, portava quello spirito critico, fatto anche più acuto (de acuto acutior, come dice Ottone di Frisinga, De gestis Frid., I, 47), ch'egli aveva temprato nelle dispute dialettiche. Intorno al 1120, scrisse il De unitate et trinitate divina contro Roscellino. L'opera attirò l'attenzione sul nuovo insegnamento di lui, e provocò le censure di Alberico di Reims e di Lotolfo Lombardo. Denunziato come eretico, Abelardo fu citato dinanzi al Concilio di Soissons (1121), dal quale fu condannato a dare alle fiamme il libro e a recitare pubblicamente il simbolo atanasiano.
Consegnato all'abate di S. Medardo, fu poco dopo rimandato all'abbazia di S. Dionigi. Ivi sollevò una discussione intorno al preteso corpo di S. Dionigi Areopagita, scatenando contro di sé le ire dei monaci, che l'obbligarono alla fuga. Dopo diverse peripezie, riparò di nuovo nel romitorio di Troyes, seguito da uno stormo di discepoli, pei quali fondò la casa del Paracleto, ove aprì una nuova scuola.
In mezzo a questi avvenimenti, tra il 1121 e il 1122, scrisse il Sic et non, opera che ha speciale importanza per la storia del metodo d'insegnamento nella scolastica del periodo successivo. Il metodo allora dominante era quello delle compilazioni di sentenze, tratte dalle opere dei Padri e disposte in ordine sistematico, senz'alcuna critica. Abelardo sostituisce al metodo erudito di Anselmo di Laon il metodo inquisitivo. Egli non affastella le opinioni dei Padri intorno a ciascun dogma, ma cerca di mettere in evidenza le antilogie del pensiero patristico, opponendo alle affermazioni positive (sic) le affermazioni contrarie (non). A sanare il dissidio doveva intervenire l'esame critico e la discussione dialettica. Con questo egli non introduceva nella teologia il dubbio scettico, bensì il dubbio metodico: Dubitare autem de singulis non erit inutile, dubitando enim ad inquisitionem venimus, inquirendo veritatem percipimus, dice con Aristotele (Migne, Patrol. latina, CLXXVIII, col. 1349). Così egli applicava alla teologia il metodo che Bernoldo di Costanza, Ivo di Chartres ed altri avevano applicato allo studio del diritto canonico. Il Sic et non, del resto, non è che uno schema, un programma di questioni teologiche da trattare. Il pensiero dell'autore su ciascun problema posto, doveva emergere dalla viva discussione fra maestro e scolari. Fra il 1123 e il 1124, scrisse la Theologia christiana, in difesa del trattato teologico condannato alle fiamme dal concilio di Soissons.
L'istituzione del Paracleto e il nuovo insegnamento attirarono su lui l'attenzione dei suoi implacabili nemici. Invano Pietro il Venerabile, abate di Cluny, l'esortò a ritirarsi nel suo monastero e a dar l'addio alla filosofia: Abelardo preferì restar sulla breccia.
Nel 1125, per sua sventura, venne eletto abate di S. Gilda, a Rhuys, in Bretagna, ov'ebbe molto a soffrire per le insidie dei riottosi monaci, i quali posero in opera ogni mezzo per liberarsi di lui. Mentre lottava con costoro, seppe che Eloisa e le sue compagne erano cacciate, dall'abate Sigieri, dal monastero d'Argenteuil. Abelardo cedette loro il Paracleto, ove dopo dieci anni rivide Eloisa. Data da questo momento la sua corrispondenza epistolare con lei. Nel 1129, minacciato di morte dai monaci di S. Gilda, fece ritorno al Paracleto, ove s'occupò dell'assistenza materiale e spirituale delle monache che vi aveva accolte. Appartengono senza dubbio alla seconda dimora al Paracleto, oltre l'Historia calamitatum, il trattatello morale Scito te ipsum, il commento all'Ep. ad Rom., i Sermones, i Problemata, il commento all'Hexaëmeron e gl'inni. Tra queste opere è particolarmente notevole il trattato Scito te ipsum, per il rilievo che l'autore vi dà alla coscienza morale. L'azione non è buona o cattiva in sé, ma solo per l'intenzione di chi la compie. Non che Abelardo neghi la norma morale oggettiva, che in definitiva riposa, per lui, sulla libera disposizione del volere divino; ma egli afferma che non esiste peccato senza la deliberata volontà di violare una norma presente alla coscienza. Onde, se per peccato, in senso rigoroso, s'intende l'intenzionale disprezzo della volontà divina, e non i difetti inerenti alla natura umana, non è impossibile all'uomo di buona volontà trascorrere la vita senza peccato. Forse dovette scrivere, nello stesso periodo di tempo, anche i due primi libri della Theologia, terminata poi più tardi. Di questa grande opera sistematica non ci resta che un frammento, noto col titolo inesatto di Introductio ad theologiam.
Nel 1136, egli aveva lasciato il Paracleto ed era tornato a reggere la scuola di S. Genoveffa, ov'ebbe alunni Giovanni di Salisbury e Arnaldo da Brescia, esule e particolarmente a lui caro. Questa ripresa dell'insegnamento ridestò, colle vecchie controversie, le mal sopite ire dei suoi avversarî. Un discepolo di S. Bernardo, il monaco Guglielmo di Saint-Thierry, scrisse, fra il 1138 e il 1139, una Disputatio adversus Abaelardum che mandò, accompagnata da una lettera, all'abate di Chiaravalle; e dipoi una Disputatio catholicorum patrum contra dogmata Petri Abaelardi, in tre libri dedicati all'arcivescovo di Reims. Il doctor mellifluus che, da un pezzo, teneva d'occhio il dialettico di S. Genoveffa e prestava orecchio attento a quello che correva sul conto di lui, commosso ora dalla denuncia del suo discepolo e acceso di terribile zelo, si scagliò contro il "nuovo Golia" (Abelardo) e contro il suo "armigero" venuto d'Italia (Arnaldo). E poiché pare che Abelardo stesso chiedesse d'esser giudicato da un concilio, dopo pubblica discussione col suo avversario, Bernardo si diè dattorno e scrisse ai vescovi che dovevano radunarsi, per renderli edotii degli errori del nuovo eresiarca. Tredici furono i capi d'accusa contro di lui, tratti, come si pretendeva, dalla Theologia, dall'operetta morale Scito te ipsum e da un libro di Sententiae che Abelardo disconobbe. I prelati riuniti nel 1141 a Sens, condannarono le dottrine denunziate, senza discutere se esse eran veramente professate da Abelardo. Il quale, temendo di una sollevazione popolare, aveva lasciato Sens prima della condanna, dichiarando di appellare a papa Innocenzo II. Pure, anche questa volta, si sottomise, sconfessò gli errori attribuitigli e prese la via di Roma. Se non che l'abate di Chiaravalle prevenne il ricorso d'Abelardo e, prospettando al papa i pericoli che correva la fede, ottenne la conferma della condanna di Sens. Colpito di scomunica, mentre era in viaggio per Roma, Abelardo sostò a Cluny, ove Pietro il Venerabile lo rattenne, adoperandosi a riconciliarlo con S. Bernardo e col papa.
Nell'abazia di Cluny, Abelardo visse in pace gli ultimi due anni di sua vita, nei quali scrisse il Carmen ad Astrolabium e il Dialogus inter iudaeum, philosophum et christianum. Morì non lungi, nel monastero di Saint-Marcel-sur-Saône, il 21 aprile 1142. Il suo corpo fu recato di nascosto ad Eloisa e sepolto nell'oratorio del Paracleto. Accanto ad esso posò in pace, ventidue anni dopo, anche la spoglia d'Eloisa, fino al 1790, quando la raffica rivoluzionaria turbò la quiete delle loro tombe.
Il venerabile, che aveva confortato lo spirito stanco di Abelardo, concesse la sua protezione al figlio di lui, Astrolabio, onde fargli ottenere una prebenda ecclesiastica.
Molti ed assai diversi giudizî espressero, intorno alla personalità singolarmente complessa di Abelardo, i contemporanei e gli storici. Egli fu, senza dubbio, la mente più acuta e píù comprensiva del suo tempo. Applicando alla teologia il metodo dialettico, mise su una nuova via il pensiero cristiano dell'occidente latino e lo preparò ad accogliere nel suo seno, appena mezzo secolo dopo, le nuove correnti filosofiche dell'aristotelismo e del neoplatonismo arabico. Fu il precursore dei grandi scolastici del sec. XIII. La dialettica, cui spetta il discernimento del vero dal falso, è così necessaria alla fede, proclama Abelardo, che nessuno può, senza di essa, combattere cogli avversarî dei dogmi. Con ciò la filosofia resta ancora, ben inteso, ancella della teologia. Ma già Abelardo comincia a chiederle tali servizî che, non a torto, i contemporanei se ne impensierirono. Così, quando, per illustrare il dogma della Trinità, parte, con insolito ardire, dal postulato che la rivelazione divina s'è operata tanto per mezzo dei profeti quanto per mezzo dei filosofi, e tenta di ravvicinare le Tre persone del dogma cristiano all'Uno, la Mente e l'Anima del mondo del neoplatonismo. Il travaglio di Abelrdo per conciliare la fede colla filosofia fu ben rilevato da S. Bernardo, che così ne scriveva a Innocenzo II: Dum multum sudat, quomodo Platonem faciat christianum, se probat haereticum.
Per le opere di Abelardo si veda: P. Abaelardi opera hactenus seorsim edita nunc primum in unum collegit.... V. Cousin, adiuvante C. Jourdain, I, Parigi I849; II, id. 1859; Migne, Patrol. lat., CLXXVIII (contiene le epistole e le opere teologiche); V. Cousin, Ouvrages inédits d'Abélard, Parigi 1836 (contiene anche opuscoli che non sono d'Abelardo); R. Stölzle, De unitate et trinitate divina, Friburgo in B. 1891; G. M. Dreves, P. Abael. Hymnarius paraclitensis, Parigi 1891, id., Analecta hymnica medii aevi, 48, Lipsia 1905; B. Geyer, Peter Abael. philosophische Schriften. I, Die Logica "Ingredientibus" in Beitr. zur Gesch. d. Philosophie d. Mittelalt., Münster i. W., XXI (sono usciti i fasc.1-3 comprendenti le glosse a Porfirio, alle Categorie e al Περὶ ἐρμηυείας); B. Schmeidler, Der Briefwechsel zwischen Abälard u. Heloise eine Fälschung? in Archiv für Kulturgeschichte, XI (1913), pp.1-30; R. Stölzle, De unitate et trinitate divina, Friburgo in B. 1891 (testo incompleto); sul testo completo, un po' diverso, di un codice berlinese, cfr. H. Ostlender in Theologische Revue, 1924, col. 1412 segg.
Bibl.: Ch. Rémusat, Abélard, voll. 2, Parigi 1845; L. Tosti, Storia d'Abelardo e dei suoi tempi, Napoli 1851; Migne, vol. cit., pp. 9-112; H. Hayd, Abäladard und seine Lehre, Ratisbona 1863; Vacandard, P. A. et sa lutte avec Saint Bernard, sa doctrine, sa méthode, Parigi 1881; P. Ragnisco, P. A. e S. Bernardo di Chiaravalle. La cattedra e il pulpito in Atti d. R. Istituto Veneto di Scienze, VIII (1905); E. Kaiser, Abélard critique, Friburgo (Svizzera) 1901; G. Robert, Les écoles et l'enseignement de la Théologie pendant la première moitié du XII siècle, Parigi 1909, pp. 149-178; Grabmann, Die Gesch. d. scholast. Methode, Friburgo in B. 1911, II, pp. 168-229; Überweg-Geyer, Grundriss der Geschichte der Philosophie: Die patristische und scholastische Phil., 11ª ed., Berlino 1928, pp. 213-226; Geyer, Die Stellung Abelards in der Univesralienfrage nach neuen handschriftlichen Texten in Beitr. Gesch. Philos. Mittelalt; Supplem. Festgabe zum 60, Geburtstag Cl. Baeumkers, 1913, pp. 101-127; Bibliografia in Überweg-Geyer, cit., pp. 702-03.