Pietro Abelardo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Abelardo è innanzitutto un importante logico, che interviene con decisione nel dibattito sulla natura degli universali. Adotta in seguito i metodi della logica anche nel campo della teologia e dell’etica, innovando profondamente le discipline. Le sue tesi, giudicate eretiche, vengono condannate. La fama che lo accompagna, oltre all’acume del suo ingegno, deve molto alla drammatica storia d’amore con la giovane Eloisa.
Pietro Abelardo
In difesa di Platone
Teologia del Sommo Bene, I, 36
Platone non sembra aver dimenticato la Persona dello Spirito Santo, quando sostiene che l’Anima del mondo è la terza Persona, dopo Dio e il nous.
P. Abelardo, Theologia Summi Boni
Bernardo di Chiaravalle
A proposito di Abelardo e delle sue opere
Lettera di Bernardo di Chiaravalle a papa Innocenzo II
I suoi libri volano; odiavano la luce perché sono perversi, ma si spinsero contro la luce, credendola tenebre. In città e castelli si diffondono le tenebre invece della luce; al posto del miele, o piuttosto dentro il miele, viene propinato a tutti, da ogni parte, il veleno. Passarono di gente in gente, e da un regno ad un altro. Un nuovo Vangelo viene coniato per i popoli e le genti, vien proposta una nuova fede, vien posto un fondamento diverso da quello che fu già posto.
Abelardo ed Eloisa, Lettere, a cura di N. Cappelletti Truci, Torino, Einaudi, 1973
Pietro Abelardo
Che i ciechi non guidino i ciechi
Epistolario di Abelardo ed Eloisa
Essi [i miei scolari] affermavano che era vano pronunciare parole cui non seguisse la comprensione, e che nulla poteva essere creduto se prima non era capito, e che era ridicolo che qualcuno predicasse ad altri ciò che né lui né coloro a cui insegnava potevano comprendere con l’intelletto, giacché il Signore stesso condanna che dei ciechi siano guida ai ciechi (Matt. 15, 44).
Abelardo ed Eloisa, Epistolario, a cura di I. Pagani, Torino, Utet, 1996
La vita intensa e avventurosa di Abelardo ci è nota soprattutto grazie a una lettera autobiografica che egli scrive a un amico (o così dice) per consolarlo e che è nota come Storia delle mie disgrazie. Da essa sappiamo che Abelardo nasce a Le Pallet, in Bretagna, nel 1079, da una famiglia della piccola nobiltà. Ben presto rinuncia alla progenitura e decide di “educarsi nel grembo di Minerva”, cioè di dedicarsi agli studi. Durante quegli anni è allievo dei principali maestri di logica del tempo, Roscellino e Gugliemo di Champeaux. Il suo successo come maestro di logica culmina con l’insegnamento a Parigi, dopo non poche difficoltà dovute ai contrasti con Guglielmo. Oramai più che trentenne, decide di intraprendere lo studio della teologia. Si reca da un celebre maestro dell’epoca, Anselmo di Laon, del quale rimane però profondamente insoddisfatto. Dopo alcuni scontri con Anselmo e i suoi allievi torna a Parigi e inizia egli stesso a insegnare teologia interpretando le Scritture e i passi dei Padri della Chiesa.
A questo punto della sua vita (siamo nel 1117) si colloca la storia d’amore con una ragazza nota per la sua cultura, Eloisa, nipote e pupilla di Fulberto, canonico della cattedrale di Parigi. Abelardo convince Fulberto a ospitarlo a casa sua in cambio dell’insegnamento a Eloisa. La relazione che ne deriva porta prima a uno scandalo e poi alla nascita di Astrolabio, che Eloisa partorisce in Bretagna dove Abelardo la porta di nascosto. Per riconciliarsi con Fulberto, Abelardo organizza delle nozze segrete. La divulgazione del segreto e le ingiurie che Fulberto riversa sulla nipote spingono però Abelardo a nascondere Eloisa nel monastero dell’Argenteuil. A quel punto Fulberto, sentendosi tradito e convinto che la nipote sia divenuta monaca, si vendica facendo evirare Abelardo.
Negli anni successivi Abelardo diviene monaco ed entra nell’abbazia di Saint-Denis, ma non cessa di insegnare (nel priorato di Maisoncelles).
In questo periodo subisce una condanna al concilio di Soissons (1121), essendo stato accusato di sabellianesimo per le tesi espresse nel Tractatus de unitate et trinitate divina (Theologia Summi Boni, noto come Teologia del Sommo Bene). Negli anni successivi vedono la luce la Theologia Christiana, la Logica nostrorum e il Sic et Non, mentre è probabile che la Logica Ingredientibus e la Dialectica risalgano a qualche anno prima. Di tutte queste opere però la datazione non è precisa, complicata dall’abitudine di Abelardo di riscrivere e modificare i propri scritti. Successivamente si ritira in un eremo vicino a Troyes, dove costruisce l’oratorio del Paracleto e dove viene raggiunto da numerosi studenti. Sentendosi minacciato, nel 1126, si trasferisce in Bretagna, alla guida del monastero di Saint Gildas, dove resta per alcuni anni. Nel 1129 cede il Paracleto alle monache dell’Argenteuil, di cui Eloisa era diventata priora, oramai senza sede dopo che l’abate di Saint Denis aveva rivendicato il possesso del monastero. Nel 1135 Abelardo è di nuovo a Parigi dove insegna. A questi anni risalgono la Theologia Scholarium, il Commento all’Epistola di san Paolo, l’Etica, e nuove redazioni di opere precedenti.
Negli anni successivi è impegnato in un’aspra polemica con Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry, che lo accusano di eresia. Esito di questo scontro è la condanna delle sue tesi al concilio di Sens (1140), a cui Abelardo decide di reagire recandosi a Roma per fare appello al papa. Durante il viaggio si ammala e trova rifugio presso Pietro, abate di Cluny. A Cluny e poi a Châlon passa gli ultimi anni della sua vita. Muore nel 1142, ma “non lasciava trascorre un momento senza pregare o leggere o scrivere o dettare”, ricorda Pietro di Cluny in una lettera indirizzata a Eloisa. Forse a questo periodo risale la composizione del Dialogo tra un ebreo, un cristiano e un filosofo, ma l’esatta datazione dell’opera è oggetto di discussione.
La fama di Abelardo inizialmente è dovuta alla sua abilità come logico. Della logica, o dialettica, Abelardo ha un’enorme stima. Essa è infatti la scienza del discorso vero e del discorso falso, che indaga le proposizioni e le argomentazioni e ne mostra la validità logica e la coerenza. Da questo punto di vista, la logica ha una sorta di primato rispetto a tutte le altre discipline – Abelardo, riprendendolo dagli stoici, suddivide la filosofia in logica, fisica ed etica –, perché ciascuna di esse si esprime attraverso i discorsi: “tutti gli ambiti del sapere rientrano in un certo modo nella logica, perché per risolvere i problemi che si pongono, devono usare le argomentazioni le cui forme e struttura sono studiate dalla logica” (Logica ingredientibus). La logica studia dunque le argomentazioni, ossia i sillogismi, e i suoi componenti: le proposizioni e le parole.
Come maestro di logica, Abelardo legge e commenta alcune opere degli antichi: l’Isagoge di Porfirio e il commento che ne aveva fatto Boezio; alcuni testi di Aristotele – le Categorie, i Topici e il De interpretazione –, i testi di logica di Boezio, ossia tutti quegli scritti che compongono il corpus della cosiddetta logica vetus. Dall’attività di insegnamento nascono poi molti quesiti, come, ad esempio, sulle partizioni delle categorie, sui rapporti tra le classificazioni dei loci, sul valore delle forme del sillogismo.
Il tema per Abelardo più importante, e su cui si scontra con i maestri, riguarda la natura degli universali.
Il problema prendeva le mosse da Porfirio che, parlando dei generi e delle specie della logica aristotelica, si era chiesto se fossero res o voces, ossia se esistessero come realtà o fossero solo parole. A questa domanda aveva dato una risposta autorevole Boezio, affermando che si trattava di conceptus, concetti, che avevano solo una realtà mentale e si fondavano sulla relazione di somiglianza che vi è tra le cose.
Abelardo fa di questa discussione il proprio campo di battaglia privilegiato. Egli prende di mira sia le posizioni realiste di Guglielmo di Champeaux, che ritiene che gli universali siano res, sia la posizione attribuita a Roscellino, cioè che fossero voces. Lo stesso Abelardo ci documenta le sue critiche a Gugliemo. Secondo quest’ultimo, l’universale sarebbe stato una res unica e identica, che costituisce la sostanza degli individui, i quali si diversificano solo per gli aspetti secondari. Due individui come Platone e Socrate condividerebbero perciò la stessa sostanza homo e si distinguerebbero per aspetti accidentali. Abelardo replica che questa tesi è inaccettabile. Se l’essenza fosse la medesima, il genere animal sarebbe contemporaneamente rivestito della razionalità e della non-razionalità, che appartengono alle sue diverse specie (come l’uomo e l’asino). Ma come possono due contrari “inerire contemporaneamente alla stessa realtà”? Inoltre questa tesi ha conseguenze inaccettabili: gli accidenti determinerebbero gli individui e dovrebbero perciò precederli (poiché si aggiungerebbero alla specie), mentre sono per definizione secondari. Abelardo racconta che Guglielmo e i suoi furono costretti a rivedere la loro tesi più volte, ma anche di queste revisioni Abelardo mostra l’infondatezza.
La tesi dell’altro maestro, Roscellino, è più difficile da descrivere, perché nessuna delle fonti la riporta in modo chiaro. Sappiamo che Roscellino confina gli universali nel mondo delle voces, ossia dei suoni: li definiva “ flatus vocis ”, ossia emissione di fiato, un’espressione che non sappiamo quanto vada presa alla lettera. Abelardo, nella Logica Nostrorum, la critica dicendo che, essendo le voces nient’altro che suoni, ed essendo i suoni fatti di aria, cioè di materia, Roscellino faceva degli universali delle entità reali.
Anche per Abelardo gli universali appartengono al dominio delle parole e non delle cose. Ma, a differenza di Roscellino, egli insiste sul valore semantico degli universali: sono termini che generano nella mente di chi ascolta un concetto che sintetizza i caratteri di molti individui. La parola “uomo”, per fare un esempio, non significa una res, un fatto in se stesso, ma una serie di caratteri che si trovano in tutti gli uomini. Per Abelardo, infatti, gli universali, come già diceva Aristotele, sono “ciò che si predica di molti”: costituiscono perciò un problema di predicazione e, a esistere nella realtà, sono solamente gli individui. I termini e i concetti universali non rispecchiano un’entità, ma si fondano solo su uno status, un modo di essere, in cui convengono i vari individui: gli uomini, ad esempio, convengono nell’essere uomini.
Ma che origine hanno gli universali? Gli universali nascono nella mente dell’uomo per reiterate esperienze di oggetti simili; le parole che vengono a essi imposte (arbitrariamente) sono in grado di evocarli nella mente delle persone. Il concetto universale è “comune e confuso”, una sorta di immagine sfuocata che sta al posto di molti individui dai tratti comuni. Da queste considerazioni deriva un’importante conseguenza: il modo in cui le cose sono è diverso da quello in cui le comprendiamo.
Tra parole e cose, in altri termini, non esiste un rapporto di specularità. In tutta questa polemica emerge uno dei caratteri della riflessione di Abelardo: distinguere il livello del linguaggio da quello delle cose, ma nello stesso tempo ribadire l’importanza fondamentale del primo e del suo studio.
È facile allora immaginare che quando Abelardo intraprende lo studio della teologia, vi adatta le tecniche che ha imparato ed elaborato studiando logica.
Che la dialettica fosse fondamentale per la teologia, Abelardo lo mostra ricordando un aneddoto, secondo il quale Agostino di Ippona, non ancora convertito, sarebbe riuscito a mettere in difficoltà il vescovo di Milano Ambrogio proprio con le armi della logica: “E infatti Agostino, ancora filosofo pagano e nemico dei cristiani, non avrebbe potuto inquietare il sacerdote Ambrogio di Milano, uomo cattolico, a causa dell’unità della Divinità, che quel santo vescovo affermava con verità nelle Tre Persone, se non si fosse anch’egli reso forte della dialettica” (Dialectica). Quale prova migliore, per Abelardo, della necessità dello studio della dialettica anche per i cristiani?
Il compito del teologo, secondo Abelardo, è cercare di chiarire i Testi Sacri, usando gli strumenti offerti dalla logica. Perché, come dicevano i suoi studenti: “non era possibile credere a qualcosa che prima non fosse compreso” (Historia calamitatum). In queste parole si individuano sia la polemica contro l’insegnamento degli altri maestri, troppo succubi dei Padri e restii a usare gli strumenti di grammatica e dialettica, sia la valorizzazione da parte di Abelardo della teologia come studio razionale che è fondamentale per la fede stessa.
Secondo Abelardo, il teologo deve essere consapevole di due cose. Innanzitutto del fatto che le parole umane, quando vengono usate per parlare di Dio, perdono la ratio della loro inventio, ossia il senso originario per cui sono state imposte alle cose, cioè per parlare degli oggetti del nostro mondo. Esse non vengono perciò usate in modo proprio e sono una sorta di metafora. A questo scarto tra l’oggetto (Dio) e la parola umana, se ne aggiunge un altro: la distanza tra le capacità della mente umana e l’incommensurabilità di Dio come oggetto di conoscenza. Da qui si trae la seconda avvertenza, di cui deve essere consapevole il teologo: nel suo campo non potrà mai approdare alla verità, ma solo alla verosimiglianza, all’ombra della verità. Riconosciuti questi limiti, il teologo non deve però rinunciare all’uso della ragione: le parole del dogma non possono essere ripetute senza cercare di riflettere, di capire, di trovare un senso, un’analogia con le cose del nostro mondo. Altrimenti risulterebbero assurde e aprirebbero la strada a interpretazioni arbitrarie. Per conservare la vera fede, è dunque più pericoloso evitare di usare la ragione che adottarla per chiarire, nei limiti dell’intelletto umano, le parole della Scrittura.
Tra i temi più importanti della teologia di Abelardo vi è l’analisi della Trinità, alla quale è dedicata in larga parte la Theologia Summi Boni.
Abelardo spiega che la Trinità non è nelle parole, ma nelle cose, ossia è una realtà, ma occorre analizzare le parole che esprimono il dogma per evitare di trarre delle conclusioni eretiche. Così, dire che Dio è “tre Persone” non significa dire che è “tre”: è un errore logico dimezzare un predicato doppio. Perché non sembri assurdo dire che Dio è uno solo ma tre Persone, si possono paragonare le tre Persone a un uomo che compie tre azioni diverse: l’uomo sarà sempre lo stesso, ma sarà tre persone in quanto parla, in quanto ascolta, in quanto si parla di lui. Dio è dunque tre secondo le proprietà e non secondo il numero: la definizione (e quindi il piano linguistico) separa ciò che nella realtà è unito. Nella Theologia Scholarium Abelardo adotta un altro parallelismo: la Trinità è paragonabile a un sigillo di bronzo, nel quale distinguiamo, ma solo concettualmente, la materia bronzo, la forma del sigillo e l’azione del sigillare, elementi che nella realtà sono inseparabili (un’altra celebre metafora paragona la Trinità a una statua di cera, nella quale distinguiamo, ma non separiamo, la cera dalla forma della statua). Vediamo qui all’opera il metodo di Abelardo: l’analisi dei termini, delle loro implicazioni e delle loro relazioni, l’uso di immagini, la distinzione tra il piano del linguaggio e quello della realtà.
Un’altra tesi importante di Abelardo riguarda i filosofi antichi. Egli è convinto che sotto le immagini che essi hanno usato si nascondano contenuti affini a quelli del cristianesimo. Come le nostre parole, quando parliamo di Dio, sono metafore, così anche le parole degli antichi filosofi sono degli involucra, degli integumenta, che nascondono verità più profonde, difficili da esprimere e bisognose di protezione. L’Anima del mondo di cui parla Platone nel Timeo, per citare l’esempio più celebre, sarebbe un’intuizione della necessità dello Spirito Santo. In questo modo Abelardo da un lato recupera lo studio degli antichi filosofi; dall’altro, facendo coincidere essi con la ragione e mostrando la loro compatibilità con il cristianesimo, legittima anche l’uso della ragione in campo teologico. Tutti questi temi suscitano l’indignazione degli ambienti monastici, che individuano nella teologia di Abelardo non solo molti errori di fede, ma una prospettiva inaccettabile, che lascia troppo spazio alla ragione umana. Possiamo capire allora l’accanimento di Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry nel far condannare le tesi di Abelardo.
Tra le opere teologiche di Abelardo un posto particolare occupa Sic et Non. Il testo consiste in una raccolta di citazioni dei Padri della Chiesa relative a diversi temi e contrastanti tra loro (e da ciò il titolo Sic et Non, ossia sì e no). Lo scopo di Abelardo è mostrare come, tramite l’applicazione di alcuni metodi, le contraddizioni possano essere sciolte.
Il testo nasce all’interno del mondo delle scuole e forse è una sorta di eserciziario. Il prologo è di particolare importanza perché indica i metodi che devono essere adottati per sciogliere le contraddizioni. Perciò l’opera presenta un’utile indicazione sul metodo che Abelardo adotta e intende lasciare in eredità ai propri studenti. Oltre a varie indicazioni sulla possibilità che certi testi siano apocrifi o corrotti o ritrattati, che contengano volutamente tesi eretiche che intendono criticare, e alla considerazione che solo i Testi Sacri sono vincolanti e non i loro interpreti, per quanto illustri, Abelardo sottolinea che le parole possono avere significati diversi, che l’intenzione di un autore può essere fraintesa dal lettore, quando non comprende bene il senso del testo che legge. Ancora una volta, è evidente che l’approccio di Abelardo si rifà all’insegnamento della logica, al problema del significato delle parole e alla libertà della ricerca da parte del teologo.
L’impostazione logica si percepisce anche nella formulazione della sua etica. Nell’opera intitolata Ethica o Scito te ipsum (Conosci te stesso), Abelardo si chiede che cosa sia il peccato. Si tratta di definire in modo preciso un concetto fondamentale, muovendosi tra i diversi significati che si danno al termine. Al metodo dialettico si unisce l’individuazione di ciò di cui un uomo può essere veramente responsabile e cioè le scelte del suo animo, non i desideri e i pensieri, che nascono spontaneamente, non le inclinazioni, che sono innate, e neppure le azioni, che spesso hanno esiti diversi da quelli per cui le mettiamo in atto. Noi siamo padroni solo dell’assenso o del dissenso che diamo ai nostri desideri e pensieri. Il peccato sarà allora un assenso dato consapevolmente a cose illecite, come tali definite dalla legge di Dio.
Perciò il peccato è da un lato assenso a cose malvagie, l’intenzione con cui si compiono (o si cercano di compiere) le azioni, dall’altro disprezzo di Dio, poiché dare l’assenso a un pensiero che riguarda l’uccidere, il rubare ecc. equivale a disprezzare la legge di Dio. Da queste premesse derivano conseguenze notevoli. Come si può considerare peccaminoso chi è convinto di agire per il bene? L’etica di Abelardo porta a conclusioni radicali: coloro che hanno perseguitato Cristo hanno peccato, perché così si comprende dalle Scritture, ma se non lo avessero fatto, “avrebbero peccato di più [...] ponendosi contro la propria coscienza” (Conosci te stesso), perché erano convinti di agire per il meglio. La riflessione di Abelardo non è esente da tensioni interne: accanto alla costruzione di un’etica razionale, troviamo la considerazione che per fede dobbiamo credere che chi muore senza la fede è destinato alla dannazione e che bisogna accettare anche fatti non spiegabili, ad esempio che gli infedeli siano stati lasciati senza la vera religione.
L’uso spregiudicato della ragione e la forza polemica dell’insegnamento di Abelardo hanno diviso i contemporanei tra studenti fedeli e avversari spietati. Tuttavia, la fama di Abelardo al di fuori degli ambienti della scuola deve molto, durante tutto il Medioevo e in seguito, sia alla sua vita avventurosa sia a un epistolario di grande valore. La prima lettera è la già citata Historia calamitatum.
Il seguito è costituito da lettere dello stesso Abelardo e di Eloisa. Eloisa scrive di aver avuto tra le mani la Historia e di aver provato preoccupazione e timore per la sorte dell’ex consorte. I temi affrontati dall’epistolario sono molti. Eloisa ripercorre la storia avuta con Abelardo, proclama la purezza dei suoi sentimenti, compiange la propria situazione attuale e il silenzio di Abelardo, che non scrive mai. Abelardo consiglia a Eloisa moderazione e presa di coscienza del proprio ruolo di badessa. Nelle ultime lettere il tono cambia progressivamente. I temi centrali diventano quelli della valutazione della donna nella storia della salvezza e l’ipotesi di una regola monastica femminile. L’epistolario si presta perciò a molte letture. A lungo sono state fatte ipotesi sulla sua autenticità parziale o totale e sulla sua spontaneità. Inoltre una lettura interna, che individua i cambiamenti di tono e di tema, mette in rilievo il valore pedagogico che le lettere possono assumere, ossia indicare il passaggio dalle preoccupazioni per la vita e i sentimenti del secolo alla valorizzazione della vita del chiostro.
Accanto a questo epistolario, ne esiste un altro, di ancor più dubbia autenticità. Esso è costituito da più di cento brevi lettere che potrebbero risalire alla fase più intima della vicenda di Abelardo ed Eloisa. La mancanza di riferimenti agli autori e i vari omissis, dovuti probabilmente a Giovanni di Vapria, il monaco di Clairvaux che nel Quattrocento trascrive le lettere, rendono difficile certificare l’autenticità del testo, sebbene l’uso di alcuni termini, il tenore alto e colto, i riferimenti alla dottrina dell’amicitia possano avvallarla.
La figura di Abelardo si presta a molte considerazioni. La storiografia ha individuato facilmente in lui l’emblema del nuovo intellettuale, e non a torto. Abelardo insegna nelle scuole cittadine e non nel monastero, intende programmaticamente interpretare i Testi Sacri attraverso la ragione e non rifacendosi (sebbene non ne abbia mai negato il valore) all’autorità dei Padri, si guadagna da vivere attraverso il suo lavoro (“Ricorsi all’arte che conoscevo e mi rivolsi, invece che al lavoro manuale, al lavoro della parola”, scrive nella Historia calamitatum). Per tutte queste ragioni rappresenta una figura diversa di intellettuale rispetto ai rappresentanti del mondo monastico. Senza voler esagerare nelle contrapposizioni (in fondo anch’egli, a partire da un certo momento, fu un monaco), Abelardo è senza dubbio espressione di un nuovo mondo, quello delle città e delle scuole cittadine. Il suo modo di intendere la ricerca, la sua fiducia nelle capacità dell’uomo, il suo sentirsi un innovatore ben rappresentano gli sviluppi della società medievale nel XII secolo. La sconfitta a cui andò incontro a Sens non deve nascondere l’importanza della sua eredità: l’uso della dialettica, il recupero degli antichi e la valutazione delle autorità contrapposte da quel momento non abbandoneranno le prassi di studio e di insegnamento del pensiero filosofico e teologico nel Medioevo.