ALCIONIO (Alcyonius), Pietro
Nacque, probabilmente a Venezia, nel 1487 (se morì appena quarantenne, come affermano concordi i biografi, nel 1527). Ignoto è il suo nome di famiglia e conosciuto solo l'appellativo umanistico; scarsi e incompleti sono i dati sulla sua prima giovinezza e non confermabili quelli di un suo impiego quale correttore di bozze presso una o più tipografie veneziane e di una sua attività professionale di medico. I primi elementi certi della sua biografia risalgono al 1516: un cenno in una lettera a Erasmo di John Watson, che ricorda fra le conoscenze veneziane Ambrogio Leone Nolano e l'A., "egregie facundus"; e un epigramma greco dell'A. (l'unico componimento poetico che ci sia giunto di lui) all'inizio (f. A [VI] v.) degli Ioannis Baptistae Egnatii... in Dioscoridem... annotamenta... (le annotazioni dell'Egnazio alla traduzione di Dioscuride di Ermoiao Barbaro), Venetils, in Gregoriorum fratrum officina, 1516. Partecipe degli interessi culturali del circolo di Aldo Manuzio e allievo di M. Musuro (dal 1512, forse, quando questi passò stabilmente da Padova a Venezia come insegnante di greco), l'A. concorse alla cattedra, dopo la morte del maestro, nel 1518, ed era intento in quello stesso anno, a quanto risulta da alcune lettere di Ambrogio Nolano a Erasmo, a traduzioni da Demostene, Isocrate e Aristotele. Per queste ultime bisognerà, però, rifarsi ad un periodo notevolmente anteriore, stando a una affermazione dell'A. stesso, il quale nel dialogo Medices legatus, che si finge ambientato nel 1512, allude al suo lavoro di traduzione da Aristotele come a cosa contemporanea p. 13 ediz. 1707).
È certo che quest'opera, l'unica a stampa delle sue fatiche di traduttore, dovette costargli, per vastità e impegno, molti anni di applicazione; ma vale a dargli un posto di rilievo, anche se non ancora debitamente studiato, fra i traduttori di Aristotele dei primi decenni del '500.
L'edizione, per cui l'A. ottenne un privilegio decennale da Leone X e dal Senato Veneziano, porta il lungo titolo: Habes in hoc codice, lector, Aristotelis libros de generatione et interitu duos; Meteóron, hoc est sublimium quatuor; De mundo ad Alexandrum Macedoniae regem unum contra L. Appulei interpretationem; ex opere De animalibus decem, quor. primus est de communi animalium gressu, secundus de sensu ca' sensilib. vel potius de communibus animae et corporis functionib., tertius de memoria et reminiscentia, quartus de somno et vigilia, quintus de somniis et imaginib., sextus de praesensione secundum quietem, septimus de communi animalium motu, octavus de diuturnitate et brevitate vitae, nonus de vita et obitu, decimus de spiratione. Item eiusdem Aristotelis vitam ex monimentis Philoponi Alexandrini, quae omnia Petrus Alcyonius de graeco in latinum a se conversa nunc primum ex impressione repraesentanda curavit. Nel colophon: ... Bernardinus Vitales Venetus, MDXXI mense aprili, Venetils.
Le dedicatorie delle singole parti della raccolta, importanti perché vere prefazioni critiche, sono anche indicative di rapporti dell'A. e di sue preferenze verso potenti protettori: la prima opera è presentata a Leone X, che ne aveva ringraziato l'A., ancor prima della stampa, con un breve del Bembo del 27 maggio 1520 (l'esemplare vaticano dell'edizione, R. I. Il. 829, con stemma a colori di Leone X sul verso del frontespizio, dovette essere quello offerto al pontefice); la seconda al cancelliere di Francia Duprat, asserendo l'A. di esser stato indotto alla traduzione delle Meteore dall'ambasciatore francese a Venezia, Jean de Pins; il De mundo, che l'A. pone tra gli pseudoaristotelici e attribuisce a Teofrasto, a Federico Gonzaga, marchese di Mantova; i libri de animalibus al doge di Genova, Ottaviano Fregoso; la vita di Aristotele di Giovanni Fiopono all'amico e condiscepolo presso il Musuro, Girolamo Negri.
Va aggiunto, a completamento della storia esterna di questa traduzione dei libri naturales aristotelici, che, se la traduzione del De genera tione et interitu segue nel tempo quelle umanistiche di Giorgio da Trebisonda e Andronico Callisto; quella delle Meteore la traduzione di M. Palmieri e quella del De mundo (per cui è evidente nell'A., che si vanta di aver utilizzato anche numerosi manoscritti greci della biblioteca del Bessarione, l'intento di contrapporre la propria traduzione alla vulgata di Apuleio) le traduzioni di Giorgio da Trebisonda, dell'Argiropulo e di Giorgio Valla; maggior interesse desta la traduzione dei dieci libri de animalibus, con la quale l'A. intese completare la traduzione dei primi didotto libri compiuta da Teodoro Gaza. Ma quale sia il carattere della traduzione alcionea, se una revisione stilistica della versio communis medievale, come pare desumibile dal giudizio dei contemporanei, che ridussero il tentativo dell'A. a semplice (e non riuscita) rielaborazione formale, o anche se vi sia, accanto a questo, una preoccupazione di penetrare più attentamente e restaurare il pensiero scientifico aristotelico (così l'A. nel suo Medices legatus, p.14, ediz. 1707, a proposito del de generatione et interitu, per bocca del cardinale de' Medici: ..."animadverti in Alcyonio maius urbanae ilhius eloquentiae studium quam in utroque horuni Graecorum [Teodoro Gaza e l'Argiropulo] fuerit, et non mediocrem felicitatem latine repraesentandi integram auctoris sententiam..."), non è possibile per ora dire, per lo stato degli studi e mancando ancora un confronto preciso della traduzione dell'A. sia con quelle medievali sia con quelle umanistiche.
Di un certo sfavore o ostilità dei contemporanei è espressione l'atteggiamento dell'umanista spagnolo J. G. Sepulveda, che tradusse di nuovo i Libri Aristotaelis, quos vulgo latini, parvos naturales appellana, s.n.t., ma Bononiae 1522, senza ricordare la precedente traduzione dell'A.: e vi avrebbe aggiunto una Errata P. Alcyonii in interpretatione libri Arist. de incessu aninralium, i cui esemplari sarebbero stati acquistati, stando a O. Negri, e distrutti in gran parte dall'A.; ed è sintomatica l'apparizione a Venezia nel 1523, apud Bernardinum et Matthaeuni de Vitalibus, cioè nella stessa officina tipografica che aveva edito l'opera dell'A., della elegante traduzione dei Parvi naturales (degli stessi dieci libri de animalibus tradotti dall'A.) compiuta da Nicolò Leonico Torneo, che avrebbe impedito, come sembra, la diffusione nelle scuole della traduzione dell'Alcionio. Tuttavia questa ebbe numerose ristampe, sia pure parziali: il De communi animalium gressu e il De communi animalium motu apparvero col De historia animalium, col De partibus e il De generatione animalium, tradotti da Teodoro Gaza (è interessante notare la complementarietà delle traduzioni dei due autori), Parisiis 1524, in fol. e Parisiis 1533, in fol.; ancora, nell'edizione di Aristotele e Teofrasto, insieme con traduzioni di Teodoro Gaza, Basileae (apud A. Cratandrumi 1534;parti delle traduzioni dell'A. figurano nella Opera omnia di Aristotele, Basileae, J. Oporinus, 1542, in fol.; ibid., per J. Heruagium, 1563, in fol.; Venetiis, apud Junctas, 1552, in 80; il Liber quartus Meteorologicon apparve isolatamente s.l. (Venezia?) nel 1550; il De mundo nel 1556 (ma non è escluso che siano reperibili altre edizioni oltre queste segnalate nei cataloghi della Bibliothèque Nationale di Parigi, II, Paris 1900, coll. 25-26; del British Museum, II, London 1931, colI. 878-879; VI, ibid. 1933, col. 61;e nel Gesamtkatalog der Preussischen Bibliotheken, I II, Berlin 1933, col. 16).
Una osservazione a parte merita la ristampa veneziana, del 1549, del De generatione et interitu, in un'edizione del commento di s. Tommaso: Sancti Thomae... in libris de generatione et corruptione Aristotelis Clarissima expositio... cum duplici textum transiatione, antiqua scilicet et Petri Alcyonii elegantissima nuperrime addita...:che, oltre a essere testimonianza di un gusto, permetterebbe facilmente quel confronto testuale di cui si è detto.
Nel 1522 l'A. era ancora a Venezia; dovette però passare, o risiedere per breve tempo, a Padova, dove conobbe O. Langolio e strinse rapporti, per altro difficilmente valutabili, con quell'ambiente umanistico. Ma il Longolio ritrasse poco benevolmente l'A. nelle sue lettere, biasimando il costume dell'uomo e deridendone le abitudini e le stranezze: e la fama non buona che l'A. godette quasi generalmente tra i contemporanei peserà sui giudizi dei posteriori biografi.
In quello stesso anno 1522 appariva l'opera, alla quale doveva restare maggiormente affidato il nome dell'A., il Medices legatus, de exsilio, Venetiis, in aedibus Aldi et Anteae Asulani soceri mense Novembri, MDXXII, un dialogo ciceroniano che si immagina tenuto, come si è detto, nel 1512, tra il cardinale Giovanni de' Medici, poi Leone X (allora legato pontificio, donde il titolo dello scritto), Giulio de' Medici, poi Clemente VII, e Lorenzo, poi duca d'Urbino, prima del loro ritorno a Firenze: dialogo che sviluppa, con gusto filosofico stoicizzante e accademico, una ricca serie di exempla desunti particolarmente dall'antichità classica, mirante "in animis nostris inserere... perpetuam quandam constantiam fortunae adversae tolerandae" (p. 152, ediz. 1707) e a dimostrare il "paradosso" della utilità e opportunità dell'esilio. L'opera dedicata al cardinale Nicola Schönberg, arcivescovo di Capua ("pontificem campanum"), intimo amico e collaboratore del cardinale Giulio de' Medici, poteva assumere un significato attuale per quest'ultimo che si era, in quei mesi tra il 1522-23, esiliato a Firenze, lontano dalla vita di Curia, per l'urto con il cardinale Soderini. L'accostamento al Medici con la celebrazione delle glorie e del mecenatismo mediceo contenuto nello scritto, e probabili difficoltà a Venezia, di cui sono eco le vicende ricordate, indussero l'A. a passare a Firenze dove il nuovo protettore gli procurò la cattedra di greco (fine del 1522) e l'incarico di tradurre il de partibus animalium di Galeno. Ma anche qui l'A. non visse tranquillo per lo spirito mordace dei Fiorentini e per l'atteggiamento del Medici che prese ben presto a proteggere anche il suo avversario, il Sepulveda, dal quale gli era stata dedicata la traduzione dei Parvi naturales, incaricandolo della traduzione del commento di Alessandro d'Afrodisia in duodecim Aristotelis libros de prima philosophia (Parisiis 1536): e l'A. "si dispera che costui abbia credito, e scrive qui [a Roma] ai favoriti de' Medici lettere piene di veneno... ed il cardinale che sa la cosa ne piglia gran sollazzo", scriveva il Negri al Michiel il 1 sett. 1523. Divenuto il Medici pontefice, l'A. non esitò a trasferirsi a Roma, dove giunse il 5 dic. 1523, "con infinita speranza di cose grandi", lasciando in tronco l'insegnamento fiorentino.
I suoi primi anni romani sono oscuri: èassai probabile che incontrasse altre difficoltà anche nella roccaforte del ciceronianesimo, l'Accademia romana, delle quali fa cenno il Negri, ancor prima della venuta dell'A. (17 marzo 1523: "Il dialogo dell'A. è molto lacerato da questi Accademici, e sono alcuni che gli scrivono contra..."); nè è certo che abbia fatto parte del circolo del Goritz (Concio), anche se risultano suoi rapporti col Colocci e se è ricordato da Erasmo in una lettera ad Haio Hermannus del 31 ag. 1524 insieme col Goritz e il Sadoleto (poiché in quest'ultimo caso potrebbe trattarsi di un accostamento estrmnseco di nomi di umanisti romani noti ad Erasmo e a lui, nella quasi generale ostilità, favorevoli). Solo per il 1526 e il 1527 si ha notizia di un suo insegnamento di greco nell'Archiginnasio, in cui lesse la I Olintiaca di Demostene, un'orazione che era stata al centro degli interessi suoi di circa dieci anni prima a Venezia (e che fu, per altro, studiata dal Musuro e da un altro discepolo del Musuro, L. Bonamico, in un corso universitario nello Studio di Padova).
A Roma l'A. abitò nel Palazzo apostolico, accanto al Berni, e la sua stanza pati danni durante il sacco dei Colonnesi del 20 sett. 1526. Durante il Sacco di Roma del 1527, fu ferito al braccio da una moschettata, mentre si rifugiava col pontefice in Castel Sant'Angelo. Prese a parteggiare di li a poco per l'avversario di Clemente VII, il cardinale Pompeo Colonna.
Morì, forse in conseguenza della ferita; alla fine dello stesso anno 1527.
Analogamente a quanto si è visto per l'A. traduttore di Aristotele, lo stato della ricerca non permette di definire con esattezza quale posto egli abbia occupato nell'ambito del ciceronianesimo italiano cinquecentesco, accanaltri noti umanisti e studiosi, Amaseo, un Longolio, un L. to a figure di quali un R. Bonamico.
La sua fama fu, lui vivente, notevole e ne ètestimonianza - oltre le lodi del Nolano e di C. Calcagnini in una lettera a G. F. Pico - un equivoco del Budé, che, mal interpretando un'allusione di Erasmo, intese per corifeo dei ciceroniani italiani l'A., e non, come era nel pensiero di Erasmo, coinvolto allora nell'aspra polemica da cui sarebbe presto scaturito il Ciceronianus, l'Aleandro. E del Budé va altresì ricordata la polemica contro l'A., nelle Annotationes... in quatuor et viginti Pandectarum libros, a proposito della critica rivolta nel Medices legatus agli umanisti d'òltralpe, rei di contaminare la pura latinità con l'abuso di citazioni, frasi e termini greci (cfr. lettera del Budé da Parigi 22 apr. 1527, m Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, VII, Oxonii 1928, p. 38 e n. 120). Occorrerà, però, ricordare ancora per la difesa intransigente di un purismo formale, esemplato sui modeffi ciceroniani, il giudizio negativo dell'A, su Gentile d'Arezzo e sul Poliziano: "in illis enim multa verba ex trivio arrepta visuntur, multae quoque elocutiones barbarae, cc agrestes occurrunt, sententiae autem multae pueriles, ac imprudentes sunt" (cfr. Medices legatus, ediz. 1707, p. 244).
Si può, tuttavia, tracciare la storia. della fortuna dell'opera dell'A., che è, insieme, una pagina di qualche interesse per il gusto e il costume letterario cinquecentesco e per la storia del ciceronianesimo sino alle soglie del '700.
Giudicato aspramente dai contemporanei (e per tutti si ricorda qui il Berni, che lo derise nel sonetto caudato, malignamente allusivo a vere o presunte disgrazie dell'A., "Una mula sbiadata, dommaschina" [cfr. F. Berni, Opere, Milano 1887, pp. 183-184] e ne colpi il dccronianesimo nel Dialogo contra i poeti in Opere,cit., p. 38), l'A. divenne, circa un ventennio dopo la morte, il protagonista di una leggenda elaborata negli Elogia... darorum virorum..., Venetiis 1546,da P. Giovio, il quale parlò di un plagio, nel Medices legatus,dal perduto De gloria di Cicerone, inserito dall'A. largamente nel contesto dell'opera sua e successivamente distrutto. L'accusa del Giovio trovò terreno favorevole tanto per la perfetta patina ciceroniana del dialogo dell'A. quanto per la disistima che circondava il suo nome (ma di una animosità del Giovio verso l'A., risalente a molti anni prima, accenna il Negri all Michiel, in una lettera del 1 sett. 1523). La testimonianza del Giovio ricevette conferma poco dopo e fu arricchita di particolari da P. Manuzio, nel Commentarium in Ciceronis Epistolas ad Atticum, Venetils 1547.
Polemizzò con la diceria del plagio B. Ricci nel dialogo De imitatione, Venetils 1545, ricordando tra i perfetti ciceroniani l'A., A. Navagero, il Longolio e Giulio Camillo Delminio: poiché esso precede la stampa degli Elogia del Giovio è da ritenere o che il Ricci avesse già notizia dell'accusa del Giovio o che Intendesse ribattere a voci correnti già da qualche tempo negli ambienti umanistici, dal Giovio poi riprese e diffuse.
La fama dell'A., così configuratasi, è tramandata stancamente in repertori eruditi e in scritti secenteschi: fa eccezione il riconoscimento che G. Naudé tributa alle traduzioni aristoteliche dell'A. nel De Fato et fatali vitae termino, in Πεντας quaestionum iatrophilologicarum..., Genevae 1647, pp. 199, 224, 226, 232; e quanto sulla figura morale dell'A. aggiunge Pieno Valeriano nel suo postumo De infelicitate litteratorum, Venetlis 1620 (cfr. indicazioni in Mazzuchelli). Se l'opera dell'A. segue le sorti del generale sfavore che gradatamente nella seconda metà del '500 e nel '600 europeo accompagnò il ciceronianesimo, essa ottenne ancora diverse edizioni (e tutte fuori d'Italia): forse a una ristampa pensò lo stesso P. Manuzio, come risulta dalle aggiunte autografe all'esemplare Vaticano (Aldine Il, 27) appartenutogli; una seconda edizione del Medices legatus apparve a Basilea nel 1546,curiosamente adattata al nuovo clima politico-religioso della Riforma, per la dedica dello stampatore J. H. Hoechstetten "Ludovico (erron. per Lorenzo) Magnifico Maigret", a Lorenzo Maigret, detto "il Magnifico", nobile lionese, esule dalla Francia per causa di religione, ma influente uomo politico nella Ginevra di Calvino; la terza edizione, con sviluppo degli intenti stoicizzanti, a Ginevra nel 1624, insieme con opere di G. Cardano, in una raccolta dal titolo Hieronymi Cardani... De sapientia libri quinque, quibus omnis humanae vitae cursus mvendique ratio explicatur. Eidem de consola tione libri tres. His propter similitudinem argumenti, et ipsius Cardani commendationem, adiecti sunt Petri Alcyonii... De exilio libri duo per guam elegantes et eruditi, Aureliopoli, apud Chouet, 1624.
Alla fine del secolo il Bayle riassunse nel suo Dictionnaire tutta la tradizione erudita sull'A., mostrando di dubitare del plagio, ma lasciando sussistere ancora la leggenda creata dal Giovio. La questione poté essere definitivamente risolta, al principio del sec. XVIII, dalla critica erudita razionalistica, che prese ad affrontare con maggiore coerenza ed impegno i problemi dell'Umanesimo e del Rinascimento soprattutto dopo l'apparizione, a cura di J. Le Clerc, delle opere di Erasmo (1703-06). J. B. Mencke diede in una raccolta, Analecta de tal ain itate litteratorum, Lipsiae 1707, la terza ristampa del Medices legatus, insieme con il De infelicitate litteratorum di Pieno Valeriano e il De miseria poetarum graecorum di G. Barberi. Nella prefazione, in cui dichiara di avvalersi anche di autorevoli argomentazioni del filologo inglese R. Bentley e (stando alla recensione di J. Le Clerc nella Bibliothèque choisie, XIV, Amsterdam 1707, pp. 118-139) di A. Magliabechi, il Mencke respinse la vecchia accusa di plagio; e la sua tesi venne discussa e accolta in due importanti recensioni, apparse poco dopo, quella del Le Clerc, ricordata, e quella di A. Zeno nel Giornale de' Letterati d'Italia. Lo Zeno ricorda vari scritti dell'A. rimasti inediti e molto probabilmente perduti: si conservano dell'A. nel Vat. Lat. 3436 (codice già della biblioteca del Colocci, passato poi a Fulvio Orsini) alcune orazioni d'occasione autografe, in minuta, con numerose correzioni, composte nell'ultimo periodo della sua vita: Pro S. P.Q. R. Oratio de rep. reddenda atque e custodia liberando Clemente VII Pont. Max. ad Carolum Caes. designatum (ff.23 r. -34 r.); una orazione senza titolo indirizzata a Clemente VII e riguardante la sepoltura del connestabile di Borbone, ucciso durante l'assedio di Castel Sant'Angelo (ff. 35 r. -40 r.); Oratio pro S. P.Q. R. ad Pompeium Columnam de urbe servata (ff. 42 r. - 54 r.).
Fonti e Bibl.: O. Longolii Lucubrationes... Epistolarum libri 1111, Lugduni 1542, pp. 204, 299 ss., 367, 386 s.; Lettere di principi..., I, Venezia 1570, cc. 95,99v-100r, 102r, 105r, 106r, (per le lettere del Negri); Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, II, III, V, X, Oxonii 1910-41, cfr. Indice dei nomi; A. Zenol, in Giorn. de' Letterati d'Italia, I, 3, Venezia 1710, pp. 1-42; P. Bayle, Dict. hist. et critique, I, Amsterdam 1740 (5 ediz.), pp. 143-145; G.M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp.376-383; Dissertation sur le Traité de Cicéron de Gloria et sur Alcyonius, in Les deux livres de la divination de Cicéron traduits eti français par Regnier Desmarais..., Paris, l'an III de la République Française, pp. 467-480 (ribadisce la tesi MenckeZeno); I. Schück, Aldus Manutius und seine Zeitgenossen in Italien und Deutschland, Berlin 1862, p. 68, 73; A. Firmin-Didot, Alde Manuce et l'hellénisme à Venise, Paris 1875, pp. 149, 414, 441; P. De Nolhac, La Bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris 1887, p. 253;F. Lumachi, Di P. A.,medico, letterato e correttore di stampe, in L'arte della stampa, XXXVIII (1908), n. 19, pp. 153-155.