ALDOBRANDINI, Pietro
Nacque a Roma nel 1571, da Pietro, avvocato concistoniale, e da Flaminia Ferracci, donna di modeste condizioni. Studiò a Roma, prima presso i padri della Vallicella, poi sotto la guida diretta di Filippo Neri. Nel 1592, quando lo zio Ippolito fu innalzato al pontificato, l'A., unico discendente maschio della famiglia, parve destinato a perpetuare il nome degli Aldobrandini. Clemente VIII lo nominò avvocato concistoriale e gli affidò la prefettura di Castel S. Angelo (marzo 1592), mentre all'altro nipote, Cinzio Passeri Aldobrandini, maggiore di venti anni, che egli aveva già sperimentato come collaboratore durante il suo cardinalato, affidava la segreteria di stato. Alcuni mesi dopo, però (settembre 1592), forse anche in seguito a pressioni di alcuni cardinali ed in particolare del Montalto, che calcolava di poter conservare maggiore influenza se a Cinzio fosse stato contrapposto un altro nipote, l'A. fu chiamato alla segreteria di stato, e, nell'ottobre dello stesso anno, ricevette gli ordini minori e fu nominato protonotario apostolico. A Cinzio fu lasciata la cura degli affari di Germania, Italia: e Polonia; all'A. fu affidata quella degli affari di Francia, Spagna e Savoia. Il 17 sett. 1593, con la prima promozione decretata da Clemente VIII, entrambi furono elevati al cardinalato.
Tra i due cugini si accese subito una viva rivalità. Molti osservatori alla corte pontificia (per es., P. Paruta) ritenevano all'inizio che Cinzio foste il favorito. Tuttavia, non solo l'appannaggio molto più ricco concesso all'A. (40.000 scudi contro i 20.000 di Cinzio), ma anche la suddivisione nelle sfere di competenza, evidentemente favorevole all'A., lasciano supporre che, fin dall'inizio, Clemente VIII intendesse dare a quest'ultimo, Aldobrandini per nascita, una preminenza reale, pur rispettando formalmente un'uguaglianza assoluta tra i due nipoti. Ad ogni modo l'A. seppe presto prevalere sul cugino e accentrare nelle proprie mani tutti gli affari della segreteria di stato, anche quelli che ufficialmente rientravano nella sfera di competenza di Cinzio. Egli intrattenne personalmente (già a partire dal 1594) rapporti con tutti gli ambasciatori presso la S. Sede e i nunzi apostolici nei diversi paesi, che molto spesso spedivano a lui una seconda copia dei rapporti che erano tenuti a trasmettere ufficialmente a Cinzio. Questa tendenza dell'A. ad estendere il proprio potere personale, che ebbe come più nota, ma non unica vittima, Cinzio, assume il suo vero significato quando la s'inserisca in tutto il processo di accentramento del potere nella S. Sede, che ebbe sotto Clemente VIII uno dei suo i momenti più importanti.
L'A. si circondò di alcuni abili collaboratori, quali E. Valenti, i fratelli Girolamo e Giovanni Battista Agucchi, nipoti e collaboratori di F. Sega. Ricorse inoltre spesso ai consigli di C. Baronio e F. Toledo, che godevano la piena stima di Clemente VIII.
All'inizio della sua attività di segretario di stato, l'A. dovette affrontare la questione francese: ma è difficile comprendere quale sia stata la parte personale del giovanissimo e prudente prelato nella politica della S. Sede verso Enrico IV. L'A. si fece dapprima portavoce presso il nunzio Sega del favore con cui la S. Sede considerava l'idea dell'elezione di un principe francese cattolico che s'impegnasse a sposare l'Infanta di Spagna per soddisfare Filippo Il, senza cessare, però, di raccomandare al nunzio di non compromettere in modo troppo aperto il papa in una politica tanto aleatoria. Poi, quando il consolidamento del potere di Enrico IV in Francia spinse il papa a valutare attentamente la possibilità di una riabilitazione, l'A. condusse le trattative in un primo tempo epistolarmente con il duca di Nevers, dopo che il papa ebbe rifiutato di riceverlo a Roma, in seguito a Roma stessa con i delegati di Enrico IV, d'Ossat e du Perron (1594-95). Essi trovarono in lui un interlocutore rigido soltanto su alcuni punti (in particolare sulla necessità di una assoluzione e riabilitazione solenne da parte del papa), ma pronto ad offrire i propri buoni uffici personali e molto più flessibile di Clemente VIII per quanto riguardava le condizioni politiche poste a Enrico IV: pace con la Spagna, rottura con gli alleati protestanti, ecc. Tuttavia, ad osservatori esterni, come l'ambasciatore toscano G. Niccolini, ancora nell'estate del 1595 egli appariva riservato ed esitante. La sua cautela non impedì, però, all'ambasciatore spagnolo di ritenerlo responsabile della riabilitazione di Enrico IV. Certo, quando questa fu un fatto compiuto, l'A. manifestò chiaramente la speranza che una forte monarchia francese cattolica potesse bilanciare l'influenza spagnola e che, nella contrapposizioni delle due potenze, la S. Sede potesse infine trovare una garanzia d'indipendenza politica e uno spazio maggiore di manovra. In questo modo prendeva corpo quella che sarebbe stata la linea direttiva più costante della politica dell'A., oscillante tra Francia e Spagna, attento a cogliere, attraverso queste calcolate oscillazioni, non solo alcuni vantaggi politici per la S. Sede, ma anche, e con più fortuna, notevoli vantaggi personali.
Nel 1597, dopo l'estinzione della linea diretta degli Estensi, l'A. fu nominato da Clemente VIII legato a latere per trattare la questione della devoluzione di Ferrara alla S. Sede. Benché l'A. avesse al suo comando un esercito di 20.000 fanti e 7.000 cavalieri, non si trattò di un'impresa militare: già regolata per via diplomatica fin dal momento in cui Enrico IV si era pronunciato a favore della S. Sede, all'A. non restò, per concluderla, che fare introdurre di nascosto a Ferrara la bolla di scomunica contro Cesare d'Este, illegittimo pretendente alla successione di Alfonso II, e attenderne gli effetti. Cesare incaricò delle trattative Lucrezia d'Este, che chiese per lui, in cambio di Ferrara, Cento e Pieve di Cento, soltanto il ritiro della scomunica e la concessione di alcuni beni allodiali della famiglia. L'A. riuscì in tale occasione a conquistare la simpatia di Lucrezia, tanto che questa, poco dopo, morendo, lo lasciò suo erede.
Entrato a Ferrara all'inizio del 1598, l'A. prese subito alcune misure di carattere economico-finanziario, miranti da un lato a facilitare l'approvvigionamento della città, in vista della prossima venuta di Clemente VIII e della sua corte, dall'altro a rendere accetto il nuovo governo alle classi popolari: concessione di fadilitazioni a coloro che portavano generi commestibili in città; controllo severo sul commercio del grano, da una parte, diminuzione di diversi dazi e gabelle e del prezzo del sale, dall'altra. Si occupò in seguito anche dell'amministrazione della giustizia, vietando agli ufficiali giudiziari di accettare donativi e ponendo ferme restrizioni all'uso delle sportule e dei salari, ed emanò alcuni Bandi generali (15 ag. 1598), contenenti una specie di nuovo codice penale. Ebbe, probabilmente, anche parte nell'elaborazione della costituzione centunivirale che il papa concesse alla città.
All'inizio del 1599 l'A. tornò a Roma contemporaneamente a Clemente VIII, lasciando l'incarico di governare Ferrara al proprio vicelegato monsignor Centurione. Durante questi anni (e senza che il soggiorno a Ferrara interrompesse la sua attività di segretario di stato), l'A. fu l'interprete principale e, probabilmente, uno degli ispiratori dell'azione politica della S. Sede diretta ad instaurare e mantenere in Europa la pace, in cui Clemente VIII vedeva la condizione necessaria non solo per la consejvazione ed il miglioramento delle posizioni cattoliche in Europa, ma anche per la conservazione dei vantaggi conseguiti in Italia e per l'attuazione del progetto a lui caro di una nuova lega antiturca. Tale politica di pacificazione ebbe i suoi riflessi anche sull'atteggiamento dell'A. verso gli stati dove la Riforma era consolidata. Nella sua corrispondenza con O. Mirto Frangipani, nunzio in Fiandra dal 1596 al 1606, ma incaricato anche degli affari inglesi, l'A. dimostrò in particolare diffidenza, come del resto numerose altre personalità della Curia, circa il progetto di candidatura di un principe cattolico alla successione di Elisabetta I (progetto che il Frangipani gli sottopose fin dal 1598) e considerazione invece per la ricerca di un compromesso che tenesse conto degli interessi delle minoranze cattoliche, prima con Elisabetta (durante le trattative cli pace tra Spagna ed Inghilterra, 1597-98), poi con Giacomo Stuart, candidato naturale alla successione. Un atteggiamento molto più esitante, ma non negativo, egli assunse di fronte ai tentativi di riavvicinamento tra Fiandre e Olanda perseguiti da Alberto d'Austria nel 1600-1601.
Nel 1600 Clemente VIII affidò all'A., che nel 1599 era stato nominato anche camerlengo ed aveva ricevuto gli ordini maggiori, l'incarico onorifico di benedire a Firenze le nozze tra Enrico IV e Maria de' Medici in nome del papa, e, contemporaneamente, quello, d'importanza più reale, di condurre le trattative tra Carlo Emanuele I di Savoia ed Enrico IV, per porre fine alla guerra per il marchesato di Saluzzo.
Questa questione ormai annosa, della cui soluzione Clemente VIII si era costantemente preoccupato dal 1598, sera riacutizzata nel corso del 1600, quando Carlo Emanuele I aveva dimostrato di non voler sottostare al trattato di Parigi (febbraio 1600), ed Enrico IV aveva reagito occupando la Savoia. Il nome dell'A. come mediatore era stato fatto dal duca di Sessa, ambasciatore spagnolo a Roma, ed accettato soltanto a stento dai Francesi, i quali diffidavano di I ui, che, dopo aver rifiutato la protezione degli affari di Francia, offertagli nel 1596,aveva accettato nel 1598 quella degli affari di Savoia, accompagnata dalla provvigione di una ricca abbazia.
Nella relazione della sua legazione, che l'A. stesso scrisse nel 1620 (pubblicata da L. Fumi), egli affermò, però, di essersi attenuto ad una stretta neutralità e di avere perseguito soltanto due fini: concludere la pace a ogni costo, "per servitio publico e riputatione del Papa e propria", senza curarsi se essa costasse più all'una o all'altra parte; ed evitare al pontefice la responsabilità della custodia delle zone contese e del giudizio arbitrale. In effetti, la posizione dell'A. nelle trattative ufficiali fu conforme a queste premesse. Negli incontri preliminari che egli ebbe a Milano con il duca di Fuentes, governatore del Milanese, rappresentante di Filippo III, alle cui decisioni era in definitiva legato l'atteggiamento del duca di Savoia, e a Tortona con Carlo Emanuele I e il Fuentes, l'A. riuscì abilmente a sfuggire alle insistenti e pericolose richieste dei suoi interlocutori, miranti ad attirare la S. Sede in una lega difensiva e offensiva contro le eventuali iniziative francesi in Italia. L'A. riuscì infine ad ottenere da Carlo Emanuele I il consenso a trattare con Enrico IV sulla base della restituzione pura e semplice del marchesato di Saluzzo o, meglio, della cessione di alcune terre oltre Rodano a titolo di compenso.
Passato poi a Chambéry (2-3 nov. 1600), l'A., vinta la diffidenza iniziale di Enrico IV, ottenne da lui il consenso all'apertura delle trattative e convocò immediatamente i delegati savoiardi. Le richieste iniziali di Enrico IV furono, però, molto superiori alle offerte del duca di Savoia. Tuttavia, nei due mesi successivi, l'A. riuscì a riavvicjnare le due posizioni e, nel gennaio 1601, a Lione, poté concludere un accordo secondo il quale il marchesato di Saluzzo sarebbe rimasto ai duchi di Savoia, che avrebbero ceduto in cambio tutti i loro possessi oltre il Rodano (salvo restando uno stretto corridoio per il passaggio delle truppe spagnole dirette nelle Fiandre) e un'unica fortezza nel Delfinato (Castel Delfino), invece delle quattro richieste, oltre Pinerolo, nel trattato di Parigi (febbraio 1600). L'indennizzo finanziario fu ridotto a 50.000 scudi. Il 17 genn. 1601 i delegati savoiardi, R. de Lucinge e A. Arconato, firmarono il trattato, prima di avere ricevuto l'autorizzazione ufficiale del duca. Secondo l'A., essi sarebbero stati autorizzati a farlo ufficiosamente da CarIo Emanuele I, che intendeva però fare ricadere su di loro la responsabilità della Tirma, qualora Filippo III avesse avanzato obiezioni. Carlo Emanuele I sostenne, invece, che essi avevano abusato dei loro poteri, spinti dallo stesso A.; e solo dopo gli interventi personali di Clemente VIII e di Filippo III, acconsentì a ratificare il trattato.
Minor successo ebbe l'A. nelle trattative che condusse a Lione con Enrico IV per l'introduzione dei decreti del concilio di Trento m Francia, per il richiamo dei gesuiti espulsi nel 1594 e per un'eventuale partecipazione della Francia alla lega contro i Turchi, vagheggiata da Clemente VIII. Soltanto sul secondo punto Enrico IV mostrò una certa condiscendenza.
Se l'azione dell'A. nelle trattative ufficiali era stata conforme alle direttive generali di Clemente VIII, non altrettanto si può dire dell'accordo segreto, strettamente personale, che egli strinse con Carlo Emanuele I nel 1601: in cambio dell'appoggio costante del duca e dei suoi figli, l'A. s'impegnò a procurargli l'appoggio della S. Sede nel caso che egli tentasse di riconquistare Ginevra ed il paese di Vaud; ad operare perché Enrico IV, protettore della città calvinista, non intervenisse; e a proteggere il duca contro di lui, nel caso di un suo interVento. Tale accordo non era, forse, senza rapporto con quei vaghi progetti di lega antiginevrina, di cui i protestanti avevano sentore all 'inizio del '600.
Nello stesso tempo l'A., che già era riuscito ad unire in matrimonio una delle proprie nipoti con Ranuccio Farnese, duca di Parma, cercò, senza successo, di procurare un matrimonio tra un'altra figlia di Gianfrancesco Aldobrandini e il figlio di Carlo Emanuele I.
Nel 1602-03, quando Carlo Emanuele I tentò la scalata di Ginevra, l'A. fu obbligato in qualche modo a tener fede ai suoi impegni, se il ministro di Enrico IV ebbe ragione di considerarlo responsabile della lettera di protesta inviata da Clemente VIII a Enrico IV per la protezione accordata da 4uest'ultimo ai Ginevrini (18 apr. 1692). Tuttavia, sia che lo stesso A. non volesse impegnarsi a fondo, sia che l'ostilità di Clemente VIII verso un'impresa che poteva portare alla rottura della pace non glielo permettesse, di fatto, alle richieste di aiuto diplomatico avanzate a più riprese dall'ambasciatore del duca di Savoia a Roma, non solo il papa, ma anche l'A. opposero netti rifiuti; ed entrambi si preoccuparono non solo di trattenere Enrico IV dall'intervenire militarmente, ma anche Carlo Emanuele I dall'inasprire la situazione; e non furono forse contrari al ritiro delle truppe spagnole dalla Savoia.
Nel frattempo a Roma l'A., che, nel 1602, era stato nominato anche pemtenziere maggiore, era al centro del serrato gioco che Francia e Spagna conducevano per il contx:ollo della Curia. Egli evitò di compromettersi in modo permanente e definitivo con una delle due parti, e fu considerato dagli uni e dagli altri con diffidenza costante. Continuò a conservare stretti e fruttuosi rapporti con gli Spagnoli (nel 1602 era considerato un loro zelante partigiano): il re di Spagna gli aveva, tra l'altro, assegnato una pensione di 3000 scudi annui, che egli avrebbe potuto riscuotere globalmente dopo la morte di Clemente VIII, e, nel 1603, parve disposto a cedergli per una somma relativamente modesta il ducato di Bari. Ma, nello stesso tempo, l'A. si mostrò costantemente favorevole alla costituzione nella Curia di un partito francese - condizione di quell'indipendenza politica a cui egli aveva sempre aspirato - e insistette ripetutamente presso Enrico IV e Ph. de Béthune, ambasciatore francese a Roma, perché fossero inviati a Roma alcuni cardinali francesi. In occasione delle diverse promozioni decretate da Clemente VIII, l'A. si adoperò costantemente per fare elevare alla porpora candidati che dessero garanzie di neutralità, se non addirittura di sentimenti antispagnoli. Ciò fu particolarmente evidente nel 1604, tanto che l'ambasciatore di Spagna, duca di Escalona, rifiutò di ringraziare Clemente VIII, che pure aveva insignito della porpora anche due sudditi del re di Spagna.
Nello stesso anno si stabili una salda alleanza tra l'ambasciatore spagnolo, il cardinale Montalto, capo del gruppo dei porporati di Sisto V, ostili agli Aldobrandini, che li avevano messi in disparte, e un gruppo di nobili romani, avversi all'accentramento del potere nelle mani dell'Aldobrandini. Tale alleanza ebbe una manifestazione clamorosa nell'agosto del 1604, quando il cardinale O. Farnese, in nome dell'antico diritto di asilo delle famiglie nobili, si ribellò all'A., che gli imponeva di consegnare un evaso rifugiatosi presso di lui, e fu sostenuto vigorosamente non solo da altri nobili e cardinali, ma dallo stesso ambasciatore spagnolo, che giunse a minacciare il papa di far marciare uomini armati da Napoli su Roma.
Anche se più tardi si giunse a una formale conciliazione tra il Farnese e l'A., tale episodio parve segnare la rottura tra l'A. e le correnti filospagnole della Curia. Egli non solo cercò con i cardinali francesi, che arrivarono infine a Roma nel dicembre 1604, una precisa alleanza nella prospettiva di un non lontano conclave, ma si disse anche favorevole al progetto di una lega antispagnola tra gli stati italiani, con l'appoggio della Francia. Tale progetto, però, non risulta essere andato oltre una fase di elaborazione generica: ed Enrico IV, a cui il Béthune lo comunicò nel 1605, non parve prenderlo in seria considerazione.
All'inizio del 1605 l'A., che nel 1604 era stato nominato arcivescovo di Ravenna, si recò nella sua diocesi, ma nel marzo fu richiamato a Roma dalla notizia della grave malattia del papa.
Nel conclave che seguì la morte di Clemente VIII (2-27 aprile) l'A., capo riconosciuto dei cardinali nominati da Clemente VIII, controllava circa ventotto voti; ma nonostante l'alleanza stretta con i cardinali francesi e filofrancesi, capeggiati dal Joyeuse, non riuscì ad imporre i propri candidati Zacchia e Baldrata, ed a malincuore, secondo gli accordi stabiliti, finì per appoggiare il candidato del gruppo francese, Alessandro de' Medici.
Durante il breve pontificato di Leone XI l'A., posto a capo della Consulta di stato, godette ancora di notevole influenza. Nel conclave successivo (maggio 1605), l'A., che ancora controllava ventisei voti ed era sempre alleato ai Francesi, riuscì ad impedire l'elezione del candidato degli Spagnoli, cardinale Sauli, ma non ad imporre quella del proprio, cardinale Tosco, che fu anche violentemente attaccato sul piano morale e religioso da C. Baronio. L'elezione di C. Borghese, uno dei cardinali di Clemente VIII, fu il frutto di un compromesso tra l'A. e il Montalto.
All'inizio del pontificato di Paolo V, l'A. sembrò ancora dirigere di fatto la politica della S. Sede. Il segretario di stato del nuovo pontefice fu, tra il maggio e il settembre 1605, E. Valenti, già segretario e uomo di fiducia dell'A., che continuò a esercitare le funzioni di camerlengo. Quando, però, la segreteria di stato fu affidata a Scipione Caffarelli, la situazione dell'A. mutò. Egli fu accusato di svolgere una politica personale, tendente ancora alla realizzazione del progetto di lega antispagnola, e messo in disparte. Nell'aprile 1606 fu privato della Legazione di Ferrara: il 21 maggio dello stesso anno si ritirò nella sua diocesi di Ravenna, dove, attraverso numerosi sinodi (1607, 1609, 1613, 1617), sipreoccupò di introdurre i decreti del concilio di Trento. Nel 1608 ebbe un urto violento con il cardinale Caetani, legato di Ravenna, e fuggi presso il duca di Savoia. Ma, dopo pochi mesi, fece ritorno nella sua diocesi. Altri rapidi viaggi fece a Venezia e Roma.
Nel 1621, morto Paolo V, l'A. venne a Roma per il conclave. Egli controllava ormai solo nove voti, che fece convergere sul cardinale Ludovisi. Ma, prima cire il conclave finisse, l'A. mori, il 10 febbr. 1621.
Fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Maria sopra Minerva a Roma.
Come il cugino Cinzio, l'A. fu circondato, a Roma e nella villa che si fece costruire a Frascati nel 1603, da numerosi scrittori ed artisti. T. Tasso gli dedicò i Discorsi dell'Arte poetica (ed. di Napoli 1594), G. B. Marmo lo segui anche a Ravenna, e, nel 1608, in Savoia. Si conosce dell'A. una raccolta di Aphorismi politici, Institutionem perfecti principis et artem bene imperandi continentes ab Henrico Farnesio Eburone iot. congesti, Francofurti 1614: in essi l'A. espone alcuni elementari principi politici controriformistici, usando esempi e linguaggio esclusivamente classici.
Fonti e Bibl.: Nell'Arch. Segreto Vaticano, il Fondo Borghese e la serie delle Nunziature sono ricchi di docc. concernenti l'Aldobrandini. Di numerosi inediti dà notizia O. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Bibliot. d'Italia, passim; a questi può essere utile aggiungere, per il soggiorno dell'A. a Ferrara, le Gride, bandi, ordini, decreti, editti, constituzioni... ordinate, fatte et pubblicate d'ordine del... Card. A., Ferrara s.d. [ma 1598], e raccolte analoghe pubblicate lo stesso anno; per l'attività pastorale dell'A. a Ravenna, v. Decreta dioecesanae synodi Ravennatis primae... ab illustris... P. A. archiepiscopo celebratae, Venetiis 1607. Tra le corrispondenze, memorie e relazioni di contemporanei dell'A. ricordiamo: Les ambassades er négotiations de l'illustrissime et reverendissime cardinal du Perron..., a cura di C. De Ligny, Paris 1629, passim; Lettres de l'illustrissime et reverendissime cardinal D'Ossat..., Paris 1641, passim; Recueil des lettres missives de Henri IV,V-VII, a cura di M. Berger de Xivrey, Paris 1850-58; VIII-IX, a cura di J. Guadet, ibid. 1872-76, passim; E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 2, IV, Firenze 1857, pp. 442 s. (relaz. di P. Paruta, 1595) e pp. 457-460 (relaz. di G. Dolfin, 1598); Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, a cura di A. Desjardins, V, Paris 1875, passim; La legazione di Roma di Paolo Paruta [a cura di G. De Leva], Venezia 1887, I-III, passim; Los despachos de la diplomacia pontificia en España, I, a cura di R. de Hinojosa, Madrid 1896, pp. 347 ss.; Nuntiaturberichte aus Deutschland siebzehnten Jahrhunderts. Die Prager Nuntiatur des Giovanni Stefano Ferreri und die Wiener Nuntiatur des Giacomo Serra (1603-1606), a cura di A. O. Meyer, Berlin 1913, passim; Nonciature de Flandre, Correspondance d'Ottavio Mirto Frangipani premier nonce de Flandre (1596-1606), I, a cura di L. van der Essen, Rome-Bruxelles-Paris 1924; II-III, a cura di A. Louant, ibid. 1932-42, passim; G.Bentivoglio, Memorie e lettere, a cura di O. Panigada, Bari 1934, passim. Su questioni particolari riguardanti l'attività dell'A. si vedano anche: O. Manfroni, Nuovi documenti intorno alla legazione del card. A. in Francia (1600-1601), in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XIII (1890), pp. 101-150; L. Fumi, La legazione in Francia del card. P. A. narrata da lui medesimo, Città di Castello 1903; Documents sur l'Escalade de Genève tirés des Archives de Simancas, Turin, Milan, Rome, Paris et Londres, 1598-1603, a cura di F. De Crue, Genève 1903, pp. 447-449 e passim; Nouveaux documents sur l'Escalade de Genève. Correspondance entre Henri IV et Béthune, ambassadeur de France è Rome, 1602-1604, a cura di J. E. M. Lajeunie, Genève 1952, passim.
Altre notizie sull'A. possono trovarsi in P. Litta, Fam. cel. ital., Aldobrandini, tav. II; A. Ciaconius, Vitae et res gestae pontificum Romanorum..., IV, Romae 1677, coll. 281-285; A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, V, Ferrara 1848, pp.1-36; V. Ceresole, Di alcune relazioni tra la casa A. e la repubblica di Venezia, Venezia 1880, passim; E. Rott, Henri IV, les Suisses et la Haute Italie. La lutte pour les Alpes (1598-1610), Paris 1882, passim; E. Callegari, La devoluzione di Ferrara alla S. Sede (1598), in Riv. stor. ital., XII (1895), pp. 1-57; L. Fumi, Il cardinale A. e il trattato di Lione, in Bollett. d. R. Deput. di storia patria per l'Umbria, II (1896), pp. 321-339; A. Borzelli, Il cav. G. B. Marino, Napoli 1898, pp. 57-59,80; R. Couzard, Une ambassade à Rome sous Henri IV (1601-1605), Paris 1901; P. Richard, La légation A. et le traité de Lyon (sept. 1600-mars 1601), in Rev. d'hist. et de littérature religieuses, VII (1902), pp. 481-509; VIII (1903), pp. 25-48, 133-151; G. Ballardini, Sulla "convenzione faentina" del 1598, in Arch. stor. ital., s. 5, XXXVIII (1906), pp. 339-424; L. v. Pastor, Storia dei Papi, XI-XIII, Roma 1929-31, passim; H. Grandjean-P. F. Geisendorf B. Gagnebin, L'Escalade de Genève, 1602. Histoire et tradition, Genève 1952, passim; L. Marini, René de Lucinge signor des Allymes. Le fortune savoiarde nello stato sabaudo e il trattato di Lione (1601), in Riv. stor. ital.,LXVII (1955), pp, 355,359; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI siècle, I, Paris 1957, passim.