Alighieri, Pietro
Figlio secondogenito di D. e Gemma Donati, maggiore dunque di Iacopo e di Antonia. Compreso, per avere già compiuto, quindici anni e non essersi presentato a sodare l'osservanza del confino, nella sentenza del 6 novembre 1315 (con la quale Ranieri di messer Zaccaria da Orvieto, vicario regio in Firenze, nuovamente sbandiva, dopo la condanna a morte del 15 ottobre, " Dantem Adhegherii et ff. "), P. già da tempo doveva essere al fianco del padre suo, seguendolo nelle varie peregrinazioni dell'esilio, fino all'estrema tappa ravennate.
Se Iacopo aveva ottenuto benefici a Verona, P. li conseguì a Ravenna, per probabile intercessione di Guido Novello da Polenta: il 4 gennaio 1321, vivo ancora il poeta, lo sappiamo colpito da scomunica per non avere pagato la decima al cardinal legato Bertrando dal Poggetto (cfr. Piattoli, Codice 126); un'ulteriore permanenza ravennate (almeno sino al settembre 1322, quando Guido da Polenta fu cacciato dalla città) è confermata dalla narrazione del Boccaccio (Vita di D. XXVI) circa il ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso, e, più indirettamente, dall'assenza di diverse indicazioni documentarie, frequenti dopo tale anno. Infatti poco tempo dopo, probabilmente in forza di un salvacondotto, troviamo P. in Firenze; per portare alla madre il supremo saluto dell'esule, ma anche per affrontare una pesante situazione familiare. Il 22 gennaio 1323 testimonia innanzi al tribunale della Mercanzia (Codice 138); il 21 gennaio 1324 compare in atti della famiglia Donati (ibid. 142). Ma il problema urgente e centrale, vale a dire l'intricata questione dei beni degli Alighieri (la quota parte di D., già confiscata, era ancora da riscattare e dividere con Iacopo, mentre occorreva saldare i debiti contratti da D. col fratello Francesco e si doveva recuperare la dote di Gemma) non potè trovare per allora una spedita soluzione; né, d'altra parte, la condanna a morte del 1315 risultava annullata, sibbene di fatto sospesa. P. si recò così allo Studio di Bologna, per apprendervi il giure; il 13 agosto 1327 è testimone al testamento di Comacino di Rolandino dei Formaglini. Al periodo bolognese risalgono certamente anche i primi contatti con Francesco Petrarca (studente di legge in quello Studio tra il 1320 e il 1326), il quale, vent'anni più tardi, gli indirizzerà una breve epistola metrica (III VII). Dopo Bologna, i successivi documenti mostrano P. dimorare stabilmente in Verona, ove era tornato nel 1331 al seguito di Guido da Correggio, e ove nel 1332 (11 marzo) nomina il cugino Niccolò di Foresino Donati suo procuratore a rimettere la divisione dei beni in comune con lo zio Francesco nelle mani di ser Lorenzo da Villamagna (Codice 149); lì, negli anni successivi, terminata nell'ottobre 1335 la podesteria di Guido da Correggio, compare in atti pubblici quale giudice e delegato generale del podestà, o suo vicario generale, o giudice del comune, salvo un periodo di inattività fra il maggio 1337 e il marzo 1340 (durante la guerra mossa contro gli Scaligeri dalla Lega generale capeggiata da Firenze e Venezia) e un'altra breve parentesi (aprile 1343-febbraio 1344) trascorsa a Vicenza quale giudice e vicario di Bernardo Scannabecchi bolognese, chiamato alla podesteria. Della attività pubblica di P., che qui meno interessa, restano ventotto documenti tra il 1332 e il 1358, studiati dal Ginori Conti e dal Piattoli (cfr. Codice, Appendice I). Anche dimesse le funzioni di ufficiale del comune, P. continuò a prestare consulenze giuridiche e a comparire in atti importanti, oltre la morte di Cangrande II (dicembre 1359): cfr. Codice 211 e Appendice I, XXVIII. Quasi altrettanto copiosi gli atti privati, che segnano, a grandi linee, gli elementi fondamentali della biografia; essi possono essere divisi in due gruppi: questioni ereditarie e momenti di vita veronese.
Ser Lorenzo da Villamagna, nel lodo del 1332 (Codice 151) assegnava a Francesco Alighieri il podere di Camerata e un terreno nel popolo di S. Ambrogio; ai fratelli, pro indiviso, il podere Le Radere di S. Miniato a Pagnolle e la metà loro spettante della casa avita nel popolo di S. Martino; restando a comune con lo zio altro terreno con casolare a S. Ambrogio, garanzia per l'annoso debito di 215 fiorini d'oro. Solo il 12 maggio 1341 (morta probabilmente Gemma l'anno prima) Francesco faceva fine ai nipoti (i quali nel frattempo avevano riscattato dalla confisca i beni paterni) di ogni obbligo conseguente al lodo del 1332; sicché essi ottenevano pieno possesso del terreno e casolare a S. Ambrogio (Codice 169). Si poté allora procedere alla definitiva divisione tra i fratelli; e il 4 luglio P. la rimetteva nelle mani di Paolo di Litto dei Corbizzi (Codice 172). Il 5 luglio 1341 Paolo assegnava a P. la metà della casa in Firenze, 159 fiorini d'oro pagabili in tre anni e un triennio del beneficio veronese di Iacopo; al quale andavano tutti i beni rurali (Codice 173). In effetti, per le sue non liete condizioni economiche, Iacopo non tenne mai fede all'impegno; così, nel novembre 1347, ser Ciuto di Cecco da Castelfiorentino assegnò a P. la metà del podere a Le Radere, salvo riscatto da parte del fratello. Tale riscatto, morto Iacopo nel 1348, avvenne sicuramente ad opera di monna Nese vedova di Biliotto Alfani (madre di Iacopa) nell'interesse della figlia, che così nel 1350 ottenne il podere a Le Radere senza alcuna opposizione del mancato cognato (Codice 195). Poiché d'altra parte P. vantava ancora qualche diritto e credito sui beni di Iacopo, il 4 maggio 1356 (come ha mostrato R. Piattoli, in " Studi d. " XLIV [1967] 265-267) monna Nese gli versava 30 fiorini d'oro a totale e definitivo saldo. Il podere a Pagnolle usciva così in tale data dai beni della famiglia Alighieri, e P., morto prima del 1353 anche lo zio Francesco (dopo avere, nell'ottobre 1342, per sé e per i nipoti, concluso la pace coi Sacchetti: cfr. Codice 182) vedeva a poco a poco venir meno ogni motivo di contatti con l'antica patria, anche se vorrà conservare fino all'ultimo la casa avita nel popolo di S. Martino. Verona era ormai la patria d'elezione, ove lo trattenevano gli uffici e gli affetti: nel 1335 c. aveva preso in moglie Iacopa di Dolcetto Salerni pistoiese, dalla quale ebbe almeno sei figli (un maschio, Dante, e le femmine Alighiera, Gemma, Lucia, Elisabetta, Antonia; le prime tre monacatesi a San Michele in Campagna). Per Iacopa e per la famiglia in fieri egli affittava, prima del giugno 1336 e almeno fin dopo l'aprile 1342, una casa spaziosa con terreno nella contrada di S. Tomio (Codice 162); prendendo poi in affitto altra dimora (prima del 1353) nella contrada di S. Giovanni in Foro, e, dopo il 1354 (a seguito delle nozze e della monacazione delle figlie) trasferendosi nella contrada Falsurgo (Codice 202). Morta Iacopa Salerni il 12 marzo 1358 (ibid. 204) P., tra il marzo 1361 e il luglio 1362, comprava una casa in Chiavica, che si aggiungeva agli appezzamenti man mano acquistati a Gargagnago e a S. Michele delle Matarane nel 1353-1354 (cfr. Codice 198, 200 e L. Castellazzi, p. 149). Ivi dimorò anche Dante II, che ingrandì a Gargagnago i possessi in seguito trasmessi ai conti Serego Alighieri. Premorte nel 1362 le figlie Antonia e Gemma, P., recatosi a Treviso (forse per visitare il figlio illegittimo Bernardo) vi stendeva per mano di notaio il suo testamento il 21 febbraio 1364 (Codice 215): nominando erede universale il figlio Dante; ben 1000 ducati destinando in beneficenza (150 dei quali a persona non nominata dimorante in Treviso); e lasciando infine la metà della casa paterna nel popolo di S. Martino del Vescovo alla Società d'Orsanmichele e alla Misericordia di Firenze. La morte sopravveniva il 21 aprile 1364, e P. fu sepolto nel chiostro del convento di S. Margherita (Codice 218-229). La tomba fu poi ricostruita nella chiesa di S. Francesco.
Nella storia della critica dantesca - ma anche della cultura - del secolo XIV, P. ha un posto indubbiamente di rilievo, per la mole del lavoro da lui svolto, per i risultati cui è giunto e per l'impegno che caratterizza la sua attività di appassionato esegeta dell'opera paterna. Già la giovanile produzione del rimatore si muove palesemente nell'orbita dantesca: si tratti del sonetto La vostra sete, se ben mi ricorda, responsivo (in tenzone) a Iacopo dei Garatori sul tema della libertà dell'arbitrio (ove D. è esplicitamente invocato quale ‛ auctoritas '), o della canzone a Dio Non si può dir che •ttu non possi tutto, densa di accenti ben danteschi e tutta plasmata sul pensiero della Monarchia e sui risentiti accenti dell'Epistola XI; oppure dell'aperta difesa del poeta (manifestamente legata alla condanna bolognese del trattato politico) assunta con la nobile canzone Quelle sette arti liberali, in versi, ove fra l'altro compare l'interessante testimonianza su un insegnamento bolognese di Dante. Ma se i componimenti citati risalgono al periodo bolognese, e in un certo senso si legavano a un momento polemico, presa dimora stabile in Verona (dove era ancora vivissima l'eco della presenza dantesca, e dove una cerchia di amici e di letterati lo stimolava e lo confortava all'opera) P. volle tentare qualcosa di più solenne e impegnato, che lasciasse durevole orma nella tradizione esegetica del poema. Già in precedenza, secondo l'indubitabile testimonianza di Moggio dei Moggi, egli aveva declamato pubblicamente presso la Bina degli Orefici (nella piazza del mercato veronese) un carme a illustrazione della Commedia (cfr. M. Vattasso, pp. 100-102); ma nei mesi di forzata inattività pubblica fra il '37 e il '40 (durante la guerra tra Verona e Firenze) nacque l'idea di un commento che valesse non solo a chiarire le oscurità del poema, ma soprattutto a fissare alcune idee esegetiche fondamentali. Da questo punto di vista il Comentarium è il più importante che l'antica esegesi dantesca abbia saputo dedicare alla Commedia: per la profonda conoscenza di tutto il pensiero dantesco, per l'impegnata adesione alla poetica che fu dell'Alighieri, per la dottrina filosofica e scolastica, per una fruttuosa conoscenza, ormai di prima mano, della classicità (frutto dell'incontro di P. col preumanesimo veneto - in particolare con Guglielmo da Pastrengo - ma anche col Petrarca) ora copiosamente assunta a instaurare e a mostrare, per raffronti paralleli, la nozione di D. lui stesso " poeta classico " nell'ambito di una ricercata e voluta imitazione dai grandi poeti latini. Quando si legge il Comentarium (conservatoci da una ventina di codici), anche e più nelle redazioni inedite (una seconda, conservata nel codice Laurenziano Ashburnahmiano 841,composta tra il 1350 e il 1355; la terza, trasmessa dal codice Vaticano Ottoboniano lat. 2867, elaborata entro il 1358) spesso ci si sente vicini alla mente e alla viva voce dell'Alighieri; e questo perché P., in modo particolare nelle successive redazioni, si è preoccupato di mettere sempre meglio a fuoco la sua esegesi, anche in rapporto ad alcuni fraintendimenti altrui che egli riteneva di dover rettificare e respingere, a meno di non perdere il genuino senso dell'esperienza poetica di Dante. Si noti l'insistenza sulla nozione di poesia come ‛ fictio ', che non solo aderisce pienamente alle teoriche di VE II IV ma si oppone all'ermeneutica di chi, come Guido da Pisa, muovendo da posizioni fideistiche e teologizzanti, mirava a collocare D. nella dimensione tutta escatologica di ‛ profeta '. E P. allora ecco che si sforza di far comprendere ai lettori d'ogni tempo che D. è innanzi tutto e soprattutto poeta, e che la poesia, fondata sull'allegoria come mezzo d'espressione e frutto di una profonda inventività intellettuale, è l'unica categoria cui l'opera dantesca può essere iscritta. Quanto ad altri, fondamentali apporti delle redazioni inedite, si rammentino le chiose sulla realtà di Beatrice o sulla paternità dantesca della Quaestio; e non si scordino anche i frequenti riferimenti e le discussioni testuali, che in qualche caso hanno portato, anche fuori della varia lectio, all'accertamento della lezione genuina (si veda almeno If XXIV 69 e Vat. Ottoboniano 2867 a c. 71 v.). Per intensità d'impegno, vastità d'informazione, aperture culturali, criteri ispiratori, il Comentarium, nelle sue tre redazioni, rappresenta certo uno dei momenti più alti dell'esegesi trecentesca del poema, in un perfetto equilibrio tra ragioni formali e impegno dottrinale, tra interessi letterari e ricostruzione del mondo morale e spirituale di D.; sicché non può in alcun modo essere ignorato da chi voglia storicizzare concretamente la genuina poetica dantesca, e mettere nel contempo a fuoco il significato profondo e altissimo di quella poesia.
Bibl. - Per quanto riguarda la biografia materiale di P., oltre il cit. Codice di R. Piattoli, Firenze 1939 (cui si rimanda nel testo), cfr. L. Castellazzi, Gli acquisti dei discendenti di D. in Gargagnago di Valpolicella, in " Annuario del Liceo Ginnasio S. Maffei ", Verona 1965, 129-149; F. Scarcella, Due sentenze di P. di D. Alighieri, in " Vita Veronese " XX (1967) 82-84; R. Piattoli, Note di storia degli Alighieri e aggiunte al Codice diplomatico dantesco, in " Studi d. " XLIV (1967) 252-254, 259-268.
Edizioni: Le rime di P.A. [a c. di] G. Crocioni, Città di Castello 1903 (ed. scorretta; nuova ed. critica in corso presso la Facoltà di Lettere di Firenze); la canzone Quelle sette arti è stata ottimamente ripubblicata da D. De Robertis, Un codice di rime dantesche ora ricostituito, in " Studi d. " XXXVI (1959) 196-205. Del Comentarium v. per ora l'ediz. a c. di V. Nannucci, Firenze 1846; nuova ed. (col sussidio delle redazioni inedite) in preparazione presso la Facoltà di Lettere di Firenze.
Studi: L. Rocca, Di alcuni commenti della D.C. composti nei primi vent'anni dopo la morte di D., Firenze 1891, 343-425 (elenco dei codici 345-348); M. Vattasso, Del Petrarca e di alcuni suoi amici, Roma 1904; P. Ginori Conti, Vita e opere di P. di D. Alighieri, Firenze 1939; J.P. Bowden, An Analysis of P. Alighieri's Commentary on the Divine Comedy, New York 1951 (ma cfr. " Studi d. " XXX [1951] 272-278); F. Mazzoni, P.A. interprete di D., in " Studi d. " XL (1963) 279-360; M. Barchiesi, Un tema classico e medievale. Gnatone e Taide, Padova 1963 (parte i: Un'esperienza filologica di P. di D.); F. Mazzoni, La critica dantesca del secolo XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 (gennaio-giugno 1965) 293-294; G. Fallani, P.A. e il suo commento al Paradiso, Firenze 1965 (correggi a p. 8 lo scambio tra Francesco di Bellino e Francesco di Alighiero); S. Vazzana, Il " Commentarium " di P. di D. e il contrapasso, in " L'Alighieri " IV (1968) 82-92. Fuorviate da un'errata impostazione metodologica e non prive di sprovveduta ingenuità le pagine di G. Messori, Il " Commentarium " di P.A., in " Lectura Dantis Mystica ", Firenze 1969, 169-187.