CORSUTO, Pietro Antonio
Poche le notizie sulla vita e la figura del Corsuto, nato a Saponara (nella provincia di Messina) nella prima metà del secolo XVI. Studiò a Napoli, dove si addottorò in grammatica e umanità, divenendo ben presto uno dei più stimati grammatici della città. Frequentò varie accademie, e si insediò stabilmente nell'Accademia degli Oziosi.
Dalla sua unica opera, il dialogo Il Capece, overo le riprensioni, stampato a Napoli nel 1592, si deduce il suo legame con la nobiltà napoletana di fine Cinquecento, direttamente interessata alle questioni letterarie. L'opera è infatti dedicata a Matteo di Capua principe di Conca e conte di Palena, alla corte del quale gravitavano numerosi intellettuali di origine aristocratica: tra essi Marcantonio Carafa ed Ascanio Pignatelli.
È proprio l'inizio del Capece che fornisce un'esauriente ricostruzione del clima e dell'ambiente culturale nel quale, presumibilmente, operò il Corsuto. L'opera si apre infatti con l'incontro fra i due protagonisti del dialogo, Pietro Capece ed Ascanio Ramirez, nel corso del quale si narra di un intrattenimento di una compagnia di cavalieri nel salotto di una "nobilissima signora che di fresco era ritornata dalle sue castella" (p. 4). Ramirez, che "dopo aver visitate alcune nobilissime signore... secondo il costume della nostra città" (p. 4), si era colà recato, descrive l'ambiente mondano nel quale la nobildonna, ripetutamente pregata dal pubblico formato dalla migliore nobiltà cortigiana, aveva cantato i versi del Tasso sulla morte di Clorinda uccisa per errore dall'amante. Dalla lunga descrizione di questo aneddoto traspare, fra l'altro, l'ammirazione per quell'ambiente aristocratico nel quale l'opera del Tasso veniva recepita in funzione di puro intrattenimento mondano, ed entro il quale appare organicamente inserito il Corsuto. Proprio con una canzone del Tasso ed una del C. (entrambe di maniera) dedicate a Matteo di Conca, unitamente a un sonetto di M. Capano dedicato al C., si chiude Il Capece.
Rifacendosi alla polemica anticruscante di C. Pellegrino e alle sue posizioni attorno alla querelle del tempo, la comparazione Tasso-Ariosto nei suoi elementi poetici e linguistici, il C., nel suo Capece, si proponeva di confutare le tesi fiorentiniste di L. Salviati così come erano state esposte negli Avvertimenti della lingua sopra 'l Decamerone (Venezia 1584-86), coi quali si riprendevano e potenziavano le tesi del Bembo senza cadere in posizioni radicali che esulavano da un moderato purismo. Il tema centrale delle Riprensioni al Salviati è la strenua opposizione al volgare fiorentino e alla lingua degli scrittori precedenti, Petrarca e Boccaccio. Nell'ambito della più generale questione della lingua il C. teorizzava, poi, una frattura insanabile fra livelli linguistici socialmente e culturalmente caratterizzati, riprovando sdegnosamente la corruzione della lingua letteraria per opera delle "vili locuzioni" del "parlar popolare".
Le tesi del C. prendono l'avvio da un durissimo attacco contro la poesia e la lingua di Dante. "Nessuna perfettion di Poesia... si ritrova in Dante" (pp. 6-7), "Dante è ogni altra cosa fuorché Poeta" (p. 7) fa dire a Ramirez il Corsuto. L'unico genere poetico al quale è possibile assegnare le opere di Dante è quello "infimo, over plebeo" (p. 7). La confutazione della grandezza dantesca è radicale. Grave errore della tradizione è l'attribuire alla sua poesia uno stile "epico" e definirlo "divino". L'epico e il divino, come generi poetici, richiedono, infatti, "sentenze gravi" e "parole magnifiche", dall'armoniosa sistemazione delle quali l'elocuzione poetica riceve dignità e splendore (p. 7). Nulla di tutto questo è presente in Dante che "non si curò mescolar nelle cose di molta importanza parole della feccia del volgo" (p. 7). Nelle figure retoriche, nelle metafore e nelle comparazioni - poi - "Dante è stato in usarle inettissimo" perché anche in questa caso non è riuscito a distinguere "il proprio e il certo" dal "volgare e dall'affettato" (p. 8). Ha usato, inoltre, vocaboli sconci rasentando, in alcuni versi della Divina Commedia, l'oscenità, attribuendo dignità letteraria a termini "che non son cose ne meno da scriversi nell'infimo carattere del dire" (p. 8).
Questo rifarsi al parlar popolare, venendo "da cose sì grandi in così vil bassezza di ragionare" (p. 7), non è riscontrabile, invece, nella lingua di Petrarca e Boccaccio che appaiono grandi al C. "perché soli con ottimo giudizio separarono il dir nobile da quello del volgo" (p. 9). Il giudizio sul Boccaccio introduce una sfumatura concettuale di grande importanza. L'antifiorentinismo del C. distingue l'uso colto dall'uso popolare, condannando solo quest'ultimo. Il fiorentino popolare - che si eleva a paradigma di riferimento di ogni lingua parlata - è il vero obbiettivo polemico di Corsuto. Così il fiorentino del Boccaccio è assai apprezzato perché costituisce un setaccio a maglie strette attraverso cui passa solamente un uso colto della lingua volgare: "il Boccaccio scrisse in quella lingua, ma no in quella guisa che si favella dal popolo, perché quelle scorretioni da lui furono avvertite, onde molte voci egli tralasciò come non buone e di proprio ingegno dettando ritrovò come acconciamente scriver si potesse quel che con modi popolari il volgo era uso di ragionare" (p. 10).
L'operazione culturale del C. mira alla costruzione di un rigido diaframma fra i diversi livelli linguistici: da una parte la lingua letteraria scritta, dall'altra la lingua popolare parlata. "Insomma signor Pietro - afferma a un certo punto Ramirez - o si parlerà d'una lingua, che serà per prendersi da colui per saperla favellare, ovvero per ben scriverla. Se per favellarla, ci avrà ben parte il popolo..., ma se raggioneremmo di quella che ci indirizza al regolato scrivere, ci siano maestri i libri" (p. 12). La codificazione aristocratica che prescrive questa netta separazione di livelli finguistici avviene in base alla identificazione della lingua letteraria con la "locuzione artificiosa" di ispirazione manieristica. Se la lingua letteraria è "artificio", cioè "perfezione del ben scrivere e del retto scrivere" (p. 12) regolato da clausole prefissate, non si vede come essa possa trarre materiali linguistici dal popolo, nella cui favella ci sono solo "schiettezza di parole senza alcun ornamento, di lingua sottoposta alle regole" e "barbarismi, e infinite altre scorretioni" (p. 13). Per di più, nella concezione radicalmente aristocratica del C., la lingua del popolo non può neppure evolversi positivamente poiché pregiudizialmente limitata da fattori naturali e culturali. Alla domanda: "ma che direte del Popolo, potrà egli supplire nella mancanza delle regole... ?" Ramirez risponde in modo perentorio: "Signor nò; perché il popolo è imperfetto nel ragionare: imperfetto dico in quanto egli è privo degli ammaestramenti, e dell'artificio del ben dire, che a noi ci viene dai maestri dell'arte".
Speculare alla contrapposizione linguistica lingua parlata - lingua scritta è, infine, la contrapposizione politico-ideologica ceti commerciali - ceti nobiliari. Singolare l'intrecciarsi dei due temi in una delle pagine più interessanti del Capece. Dopo aver elogiato la nobiltà d'origini e di cultura di A. Pignatelli, il C. individua nell'emergere dei ceti mercantili la vera causa della decadenza del prestigio politico, culturale e linguistico di Firenze. Ma non solo di Firenze. I commercianti che portarono "tanta stranezza di vocaboli e nel popolo e nelle scritture de' più antichi fiorentini" (p. 19), e corruppero irrimediabilmente la loro lingua, insidiano anche l'ordinamento sociale, culturale e politico (oltreché linguistico) del tempo.
In sintesi, da ciò che emerge dal Capece, si può considerare il C. un tipico intellettuale organico all'assetto sociale di stampo feudale ancora persistente nell'ambiente politico e culturale napoletano. Egli appare chiuso alla comprensione delle trasformazioni strutturali della società e teorizzatore di un ideale linguistico rigidamente classista dominato in modo acritico dalle tematiche letterarie del tempo. Tale pregiudiziale classista, infine, lo rende refrattario a cogliere qualsiasi aspetto positivo della circolazione della lingua e delle idee fra i livelli sociali diversi emergenti all'interno della realtà urbana napoletana di fine Cinquecento.
Si ignora l'anno in cui avvenne la morte.
Opere. L'unica opera pubblicata, e mai ristampata, del C. è il dialogo Il Capece, overo le 'riprensioni, Napoli, "ex officina H. Salviani per G. I. Carlino e A. Pace", 1592. Alcune rime del C. sono contenute in appendice al Capece; altre rime sparse sono contenute nelle Rime del sig. Ascanio Pignatello, Cavaliero napoletano. Dedicate al M.M. Sig. Conte Sforza Bizzarro, Prencipe dell'Accademia Olimpica, pubblicate a Vicenza nel 1603 (p. 87).
Bibl.: Per i cenni biografici sul C. vedi N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 251; C. Minieri-Riccio, Mem. stor. degli . scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 109; G . Gattini, Saggio di biblioteca basilicatese, Matera 1908, p. 11, n. 98. Sulla frequenza del C. con le Accademie napoletane, vedi C. Minieri-Riccio, Cenno stor. sull'Accademia degli Oziosi, Napoli 1862, pp. 72 s.; G. B. Tafuri, Storia degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1754, p. 66. Cenni sull'opera del C. si trovano in: C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908, p. 233 (sulla polem. con il Salviati); S. De Pilato, Un dantofobo di Basilicata, in Fondi, cose e figure della Basilicata, Roma 1922, pp. 224-229; B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago 1961, pp. 904-905; A. Vallone, L'interpret. di Dante nel Cinquecento, Firenze 1969, p. 198; recentemente le posizioni del C. sono state riproposte all'attenzione da A. Quondam, Dal Manierismo al Barocco, per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra '500 e '600, in Storia di Napoli, V, 1,Napoli 1972, pp. 439-442 (ora in A. Quondam, La parola nel labirinto, Bari 1975, pp. 111-115); G. Ferroni-A. Quondam, La locuzione artificiosa, Roma 1973, pp. 126-127 (alle pp. 128-142 sono riportate le pp. 6-12 del Capece);un breve cenno sulla concezione linguistica del C. si trova in S. Nigro, Napoli: l'eredità aristocratica di G. B. Del Tufò, l'ottica borghese di G. C. Cortese e la questione "Sgruttendio", in A. Asor Rosa-S. Nigro, I poeti giocosi dell'età barocca, Bari 1975, p. 83; parecchie pagine, infine, sono dedicate al C. nel libro di R. Nigro, Centri intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento, Bari 1979, pp. 117-125.