ROTARI, Pietro Antonio
– Figlio di Sebastiano (1667-1742), medico fisico di discreta fama, rinomato anche per i suoi interessi naturalistici, e di Anna Fracassi, nacque a Verona il 30 settembre 1707 (Barbarani, 1941, p. 118).
Da subito incline «allo studio della pittura» (Moücke, 1762, p. 279), all’età di sette anni fu affidato agli insegnamenti dell’incisore fiammingo Robert van Auden Aerd, giunto nella città scaligera intorno al 1709, chiamato dal vescovo Gian Francesco Barbarigo, dopo una lunga esperienza romana presso Carlo Maratta. Nel contempo, in ossequio alla tradizione domestica, ricevette una solida preparazione culturale, comprovata dalla pubblica disputa, nel 1723, di una tesi in filosofia (Cartolari, 1987, p. 587). A ridosso di questa data si colloca la svolta fondamentale nella vita del giovane, ovvero il passaggio alla scuola di Antonio Balestra, pittore elegante e rigoroso, le cui opere palesano una felice sintesi tra il colorismo veneto e il classicismo romano e bolognese. Ne divenne in breve l’allievo prediletto, tanto da ricevere il compito, fra il 1725 e il 1731, di tradurre all’acquaforte immagini sacre e scene mitologiche di sua invenzione (La collezione di stampe antiche, 1985, pp. 87-90; Bombardini, 2016).
Diciottenne, seguendo l’esempio del maestro, Rotari intraprese una serie di viaggi formativi. Il primo, utile all’incontro con altri modelli artistici, in particolare cinquecenteschi, lo portò a Venezia (Moücke, 1762, p. 280), dove contribuì, fornendo alcuni disegni, all’edizione calcografica della raccolta di statue antiche del vescovo Francesco Trevisan (Franzoni, 1978). Rientrato in patria nella tarda estate del 1726 (Bottari, 1757, p. 143), presto si rimise in cammino alla volta di Roma; lungo il tragitto, al pari di Matteo Brida, anch’egli discepolo di Balestra, non mancò di sostare a Bologna (Favilla - Rugolo, 2010, p. 101), evidentemente interessato allo studio della pittura emiliana, soprattutto di Guido Reni (Marinelli, 2010, p. 112).
Il soggiorno nell’Urbe, dal 1727 al 1731, gli offrì l’occasione di sperimentare gli esiti più aggiornati del barocchetto internazionale sotto la guida del pittore Francesco Trevisani (Moücke, 1762, p. 280).
Incidendo da quest’ultimo e da Maratta, Rotari palesò fermamente la propria adesione all’indirizzo classicista (Tomezzoli, in Il Settecento a Verona, 2011, pp. 31 s.), garantita, inoltre, dalla trasferta a Grottaferrata, nel 1730, per «disegnar le famose opere del Domenichino» (Bottari, 1757, p. 209). A ragguagliarcene è una lettera di Balestra, che pure dà conto del favore che l’allievo, in virtù del «suo spirito e disinvolte maniere», nonché di un diploma di nobiltà ottenutogli dal padre (Maffei, 1955, p. 724), aveva incontrato presso «diversi porporati e primi soggetti della corte» papale; l’artista, dapprincipio, si era anche potuto giovare del sostegno di monsignor Francesco Bianchini, autorevole storico e antiquario veronese da tempo a Roma, scomparso nel 1729. Entro il medesimo anno cade l’esecuzione della fastosa effigie, celebrativa della nomina a procuratore di S. Marco, dell’ambasciatore Barbon Morosini (Venezia, collezione privata), il più antico dipinto attualmente riferibile al suo catalogo (Delorenzi, 2009, pp. 237 s.).
La decisione di terminare a Napoli l’addestramento nel mestiere risale al 1731. Motivo del viaggio fu la brama di conoscere Francesco Solimena, protagonista indiscusso, al pari di Trevisani, della scena pittorica tardobarocca. Generosamente accolto e formato «con suo sommo profitto» dal maestro partenopeo (Moücke, 1762, p. 280), il giovane apprendista, per grata memoria, ne copiò nel 1733 l’Autoritratto oggi al Museo nazionale di Capodimonte in una tela già nella raccolta veronese dei Gazzola (Guzzo, 2005, p. 305).
Dopo sette anni di assenza, nel 1734 Rotari fece ritorno alle mura domestiche. L’invio costante di opere da Roma e da Napoli aveva suscitato forti aspettazioni fra i concittadini: a elogiarlo, nella Verona illustrata (1732), fu Scipione Maffei; per Balestra, che scriveva il 10 settembre 1733, l’allievo e il quasi coetaneo Giambettino Cignaroli erano «due grandi spiriti da far gran passata» (Bottari, 1757, p. 325).
Costruendosi l’immagine di artista nobile, dedito a dipingere per «solo diletto» e non per «mercenaria fatica» (Moücke, 1762, p. 280), nel quinquennio successivo Rotari ornò la dimora di famiglia con decine di tele, in prevalenza a soggetto arcadico-mitologico e biblico (Delorenzi, in Il Settecento a Verona, 2011, pp. 131-133). Pensò pure a fondare un’accademia di pittura per i rampolli della buona società veronese, nonché a omaggiare di suoi lavori amici e facoltosi conoscenti (Barbarani, 1941, pp. 102 s.). La stima di Vittorio Maria Bigari, forse incontrato nel cantiere di palazzo Pellegrini ‘novo’, dove esiste, attribuito a Rotari, un soffitto a fresco – tecnica non altrimenti praticata – con Venere sul carro trainato da due colombe (Castiglioni, 2003, pp. 115-118), gli valse nel 1736 anche l’aggregazione all’Accademia Clementina di Bologna (lettera di ringraziamento del 29 novembre; Bologna, Accademia di belle arti, Archivio dell’Accademia Clementina, b. 17, f. 8).
L’entità generale delle committenze ricevute dall’artista ci è fornita da un elenco, corredato solo di luogo e destinatario, steso dal fratello Antonio, padre oratoriano, che forse, insieme a un secondo fratello, il domenicano Vincenzo, aveva avuto modo di propiziare gli ordinativi ecclesiastici (Barbarani, 1941, pp. 27, 106-109). Nei tre lustri anteriori alla metà del secolo, in effetti, Rotari si impose come autore di temi sacri, che sviluppò anche nelle vesti di peintre-graveur, per sempre dismesse intorno al 1741 (La collezione di stampe antiche, 1985, p. 91). In altri generi, all’opposto, non compì che incursioni sporadiche, bene esemplificate dal monumentale Sacrificio d’Ifigenia in palazzo Serpini dai Pre’ a Verona (Ievolella, 2011a, p. 335) e dal Ritratto di Camillo Silvestri all’Accademia dei Concordi di Rovigo (cfr. Maffei, 1955, p. 1009).
A detta di Diego Zannandreis (1831-1834, 1891, p. 386), le prime opere licenziate dal pittore dopo il ritorno da Roma sarebbero il S. Francesco Borgia che ottiene da papa Paolo III la conferma degli esercizi di s. Ignazio già nel ritiro suburbano dei gesuiti ad Avesa (ora al Museo di Castelvecchio) e la Madonna con il Bambino e santi della chiesa veronese di S. Elena. Verso il 1734, comunque, dovrebbe pure collocarsi la tela con i Ss. Lorenzo e Francesco di Paola del duomo di Montagnana, un dipinto di stretta osservanza balestresca, svolto sulla base di un bozzetto che è credibile assegnare al decennio precedente (Marinelli, 2010, pp. 110 s.).
A questa fase appartiene una nutrita serie di quadri d’altare memori, per il loro vigore cromatico, della lezione di Trevisani e Solimena, molto chiaroscurati e tendenti, giusta l’osservazione dell’abate Luigi Lanzi, a un colorito «cenericcio» e «melancolico» (cfr. Ievolella, 2011a, p. 334). Testi poco impegnativi, come la paletta con i Ss. Filippo apostolo e Giacomo minore a Bonavicina (Marinelli, 2010, pp. 111 s.), si alternano a creazioni via via più complesse, dalla Madonna con il Bambino e s. Filippo Neri della parrocchiale di Torri del Benaco, pagata nel 1738, al Martirio dei ss. Pietro e Paolo della chiesa di Azzano Mella, saldato nel 1740 dai deputati dell’ospedale Maggiore di Brescia (Guerrini, 1981, p. 212).
I tardi anni Trenta vedono l’ampliarsi del giro delle richieste ecclesiastiche, sempre più spesso provenienti dagli Ordini religiosi. Perduta la pala destinata al tempio dei filippini a Mantova, del 1738 rimane l’Annunciazione della chiesa della Ss. Annunziata di Guastalla, realizzata per i serviti, al pari dell’ancona, cronologicamente prossima, con La Vergine consegna l’abito ai sette santi fondatori dei Servi di Maria in S. Maria della Scala a Verona (Ievolella, 2011b, p. 151).
Anticipando l’estetica di fine secolo, nella quinta decade Rotari impalcò senza soluzione di continuità immagini devote formalmente aggraziate e composte, equiparabili agli esiti romani del coetaneo Pompeo Batoni.
Si assiste, in generale, a un addolcimento delle tinte, evidenziato dalle terse e luminose atmosfere in cui sono calati gli episodi sacri; le figure che popolano le scene, anche laddove il tono dell’azione si fa solenne, non rinunciano mai a una gestualità misurata ed elegante.
In S. Giovanni di Verdara a Padova l’artista pose nel 1740 una coppia di tele – una Natività di Maria e S. Ubaldo libera un ossesso (ora ai Musei civici) – su mandato dei canonici regolari lateranensi, committenti di quattro soggetti analoghi, nel 1746-47, per S. Spirito a Bergamo; nel 1741, pure i francescani della basilica di S. Antonio potevano vantare un’opera di sua mano, L’elemosina di s. Ludovico da Tolosa.
I più assidui estimatori di Rotari, comunque, furono i gesuiti. A essi si lega il capitolo della fortuna emiliana del pittore, che nel 1743 spedì a Reggio Emilia il grandioso S. Giorgio tentato di sacrificare agli idoli per la chiesa omonima; nel 1744, a Parma, il S. Francesco Saverio battezza gli indigeni (tema ripreso un anno dopo in S. Maria delle Grazie a Brescia) e un perduto S. Ignazio per la chiesa di S. Rocco; e più avanti, a Rimini, la Gloria di s. Ignazio e il S. Francesco Borgia adora il sacramento per la chiesa di S. Francesco Saverio.
All’interno dei confini dello Stato marciano, oltre che a Verona (è d’obbligo citare il S. Vincenzo Ferrer resuscita un bambino, del 1743 circa, per i domenicani di S. Anastasia), ebbe i più cospicui incarichi a Bergamo (Giobbe compianto dagli amici, post 1743, chiesa di S. Alessandro della Croce; Presentazione di Gesù al Tempio, 1745 circa, duomo; Gesù consegna le chiavi a Pietro e Martirio di s. Andrea, ante 1748, Tagliuno, chiesa parrocchiale) e Udine (Madonna con il Bambino e angeli, 1748 circa, chiesa di S. Giacomo). Le ultime pale del tempo italiano, che si datano fra il 1749 e il 1751, sono il Cristo in casa del fariseo nella parrocchiale di Volta Mantovana, La comunione degli apostoli nella chiesa di S. Pier d’Agrino, presso Bogliaco, la Purificazione della Vergine in S. Agostino a Reggio Emilia e L’uccisione di s. Pietro martire in S. Domenico a Casale Monferrato (Polazzo, 1990; Ravelli, 2007; Ievolella, 2011a e 2011b; L’Occaso, 2016).
Il riconoscimento del titolo comitale decretato dal Senato veneto, dietro lauto donativo, il 7 febbraio 1750 (1749 more veneto; Barbarani, 1941, pp. 25 s.), oltre a soddisfare le ambizioni nobiliari di Rotari, lo munì delle credenziali adatte per proiettarsi sulla scena europea.
Nel 1751 era già a Vienna, impegnato a dipingere per la corte imperiale le icone dei santi eponimi dei sovrani, Francesco e Teresa, e un quadro a trompe l’oeil con un finto velo (Moücke, 1762, p. 281; Tomezzoli, in Il Settecento a Verona, 2011, p. 33). A distanza di pochi mesi, avendo pianificato di prendere la via della Francia e dell’Inghilterra, si trovava quindi a Dresda, da dove il 10 aprile 1752 ricercò a Francesco Algarotti, ex consigliere di Augusto III, una commendatizia per accreditarsi presso la Casa reale sassone.
Il soggiorno sulle rive dell’Elba, protrattosi per quattro anni, lo vide affrontare tutti i generi praticati in Italia, con misura però variata (Ciancio, 1999; Weber, 1999). Limitate furono le richieste di grandi quadri di storia. Per l’elettore, altresì re di Polonia, realizzò tre scene sacre – un Riposo durante la fuga in Egitto, ispirato alla celebre Notte di Correggio, e due pale d’altare per la nuova chiesa cattolica di corte – perdute nel 1945 (Moücke, 1762, p. 281; Weber, 1999, pp. 21-24), nonché un trompe l’oeil con l’incontro di Alessandro e Rossane (Sotheby’s, New York, 29 gennaio 2016, n. 533); la medesima iconografia, senza artifici visivi, si ripete in una tela di formato maggiore, fin dal 1769 al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, elaborata per il potente primo ministro Heinrich von Brühl (Bushmina, in Il Settecento a Verona, 2011, p. 134).
Più consistente risultò la commissione di effigi, a partire dall’Autoritratto compiuto su ordine imperiale nel 1752-53 per la Galleria degli Uffizi. A Dresda, il pittore immortalò il conte Brühl, il nunzio apostolico Ignazio Accoramboni (già Berlino, Gemäldegalerie), il compositore Johann Adolph Hasse e la cantante Teresa Albuzzi Todeschini (incisioni di Lorenzo Zucchi e Giuseppe Camerata), come pure, nel 1755, l’intera famiglia di Augusto III, richiamandosi ai modelli di Anton Raphael Mengs e di Batoni (sopravvivono otto dei dieci originali, divisi tra la Gemäldegalerie e la Rüstkammer di Dresda; Weber, 1999, pp. 27-39).
Nella capitale sassone, Rotari prese a dipingere regolarmente, a olio e a pastello, i soggetti da cui più dipende la sua odierna fama, le teste di carattere (cfr. Delorenzi, in Il Settecento a Verona, 2011, pp. 208-213). Sul tema aveva cominciato a esercitarsi in patria, eseguendo Apostolati, isolando le fisionomie di alcune figure dei suoi quadri e, forse, tracciando qualche disegno (Marinelli, 2010, pp. 112 s.; Ievolella, 2011a, p. 341; Marinelli, 2015, pp. 173-175); si era anche dato allo studio delle ‘passioni’, se Maffei (1955, pp. 1248, 1251) nel 1749, dichiarava di possederne una «testa di donna ridente» e una «piangente». Di nuovo a Verona, poi, il collega Pietro Antonio Perotti gli aveva dedicato, nel 1751, la Conferenza del signor Le Brun [...] sopra l’espressione generale e particolare delle passioni, traduzione italiana dell’originale in francese.
Le prove dell’artista implicano la conoscenza dell’opera di Giambattista Piazzetta e, dopo il periodo viennese, di Jean-Étienne Liotard (Fiocco Drei, 1980, pp. 24-27). Fra i mezzi busti, che creano una vera e propria enciclopedia di ‘arie’ e stati d’animo, sui volti d’età matura prevalgono le fresche effigi di ragazzi e fanciulle, come ben dimostrano gli esemplari tuttora presenti nelle raccolte di Dresda. Al compendio delle più diverse espressioni si affianca la rassegna dei costumi regionali, ossia delle «diférentes modes des pais par lesquels il a passé» (von Hagedorn, 1755, p. 25). Talvolta l’inquadratura si dilata, cosicché all’immagine ravvicinata di un sembiante viene a sostituirsi un brano languido di seduzione (La lettera d’amore e Il solletico a Monaco, Alte Pinakothek; Giovane donna con ventaglio a Ottawa, National Gallery of Canada).
Il successo di Rotari toccò il culmine con la chiamata, nei mesi centrali del 1755, presso la corte imperiale russa. A causa dei molti impegni cui doveva ottemperare a Dresda, il trasferimento, interamente spesato, avvenne a distanza di un anno. Il pittore arrivò a San Pietroburgo il 29 maggio 1756, trovandosi dall’agosto a competere con il francese Louis Tocqué, come lui ingaggiato per supplire alla mancanza di un ritrattista capace e alla moda (Artemieva, in Il Settecento a Verona, 2011, p. 65).
Patrocinato dal conte Ivan Šuvalov, Rotari ebbe subito occasione di fissare le fattezze della zarina Elisabetta in quadri che i contemporanei giudicavano somigliantissimi. Ancor più dopo la partenza di Tocqué nell’autunno del 1758, non vi fu persona di rango che mancasse di posare dinanzi all’artista per ottenere un ritratto (Bushmina, 2003, p. 65), generalmente di medie dimensioni, sul tipo di quello in abiti mattutini della sovrana ora al Museo russo di San Pietroburgo.
La biografia pubblicata da Francesco Moücke nel 1762 (p. 283) e le annotazioni del cortigiano Jacob von Stählin (cfr. Bushmina, 2003, e Artemieva, in Il Settecento a Verona, 2011) tramandano il ricordo di parecchie commissioni sacre: immagini della Vergine per i palazzi imperiali, una Natività per le stanze private di Elisabetta (1758), un’icona del nuovo santo Dmitrij Rostovskij, addirittura una Resurrezione di Cristo, per la Pasqua, dipinta su un uovo di struzzo. Nel 1760 anche la coppia granducale – l’erede al trono Pëtr Fëdorovič (poi Pietro III) e la consorte, ritratta fin dal 1757, Sofia Augusta Federica (poi Caterina II) – si avvalse del maestro veronese, ordinandogli due tele con La continenza di Scipione e Venere e Adone (Oranienbaum, palazzina Cinese; Artemieva, in Il Settecento a Verona, 2011, p. 68).
Rotari proseguì inoltre nell’esecuzione delle teste di carattere e delle scene a due o tre figure, ideando nuovi modelli, come pure introducendo i costumi russi accanto a quelli sassoni e ungheresi (Nikolenko, 1969; Bushmina, 2003, pp. 65 s.).
La grande stima di cui l’artista godeva è certificata dalla nomina, nel 1757, a primo insegnante di pittura della neoistituita Accademia di belle arti dell’impero russo, fortemente voluta da Šuvalov; in quel ruolo Rotari diede un contributo essenziale alla maturazione di alcuni tra i migliori ritrattisti locali, da Alexei Antropov a Ivan Argunov e Fyodor Rokotov (Bushmina, 2003, pp. 67 s.).
Rotari si spense improvvisamente a San Pietroburgo, a causa di un’infezione intestinale, il 31 agosto 1762, ricevendo esequie solenni il 3 settembre (Barbarani, 1941, p. 42; Polazzo, 1990, p. 7). Suoi esecutori testamentari furono l’architetto Antonio Rinaldi e il mercante greco-veneziano Demetrio Papanelopulo, del quale si conoscono numerose lettere scambiate con l’erede universale del pittore, il fratello Paolo, in merito alla questione successoria (Cartolari, 1987, p. 588).
Fra i beni registrati in sede d’inventario figuravano molti preziosi e centinaia di quadri, in parte non finiti, in parte di mano degli allievi. Caterina II, omaggiata con il legato di trentadue teste di carattere, nel 1763 ne acquistò altre trecentoquaranta per la somma di 17.000 rubli, facendo allestire l’anno seguente, nella residenza di Peterhof, il cosiddetto Gabinetto delle mode e delle grazie. A Verona, insieme a qualche effetto personale, giunsero una quarantina di tele, ritratti e mezze figure di genere; Paolo Rotari, nel 1769, domandò la spedizione anche dei disegni del defunto, utili a un figlio, Vincenzo (1753-1831), che fu incisore e pittore dilettante (p. 590). Copie delle teste rientrate dalla Russia vennero eseguite da Saverio dalla Rosa. Un allievo, Felice Boscarati, si specializzò invece in effigi femminili mascherate, oggi note come Morette.
Fonti e Bibl.: S. Maffei, Verona illustrata, III, Verona 1732, pp. 310 s.; C.L. von Hagedorn, Lettre à un amateur de la peinture..., Dresden 1755, pp. 24-26; G. Bottari, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, II, Roma 1757, pp. 143, 208 s., 212, 319 s., 325; F. Moücke, Serie di ritratti degli eccellenti pittori [...] che esistono nell’Imperial Galleria di Firenze, IV, Firenze 1762, pp. 279-283; D. Zannandreis, Le vite dei pittori, scultori e architetti veronesi (1831-1834), a cura di G. Biadego, Verona 1891, pp. 385-389; E. Barbarani, Pietro Rotari, Verona 1941; S. Maffei, Epistolario (1700-1755), a cura di C. Garibotto, Milano 1955, pp. 724, 1009 s., 1248, 1251; L. Nikolenko, Pietro Rotari in Russia and America, in The Connoisseur, 1969, n. 171, pp. 191-196; L. Franzoni, Pietro Rotari e gli antichi marmi del Museo Trevisani, in La pittura a Verona tra Sei e Settecento (catal., Verona), a cura di L. Magagnato, Vicenza 1978, pp. 89-98; C. Fiocco Drei, Pietro Rotari, in Antichità viva, XIX (1980), 5, pp. 23-32; S. Guerrini, In margine alle mostre queriniane. Inediti settecenteschi nel territorio bresciano, in Brixia Sacra, XVI (1981), 1-3, pp. 209-226; La collezione di stampe antiche. Museo di Castelvecchio, Verona, a cura di G. Dillon - S. Marinelli - G. Marini, Milano 1985, pp. 86-91; A. Cartolari, I Rotàri, in Avesa 2 e la sua valle, a cura di G. Peroni - B. Polverigiani, Verona 1987, pp. 579-601; M. Polazzo, Pietro Rotari pittore veronese del Settecento (1707-1762), Verona 1990; V. Ciancio, «Signor Conte Rotari, dilettante di pittura» am Dresdener Hof Archiv-Nachforschungen, in Pietro Graf Rotari in Dresden... (catal., Dresda), a cura di G.J.M. Weber, Emsdetten-Dresden 1999, pp. 7-15; G.J.M. Weber, Die Gemälde Pietro Graf Rotari für den Sächsischen Hof, ibid., pp. 17-53; T. Bushmina, Al servizio di tre imperatori. Pittori italiani a San Pietroburgo nel XVIII secolo, in Pietroburgo e l’Italia. Il genio italiano in Russia. 1750-1850 (catal., Roma), a cura di S.O. Androsov - V. Strada, Milano 2003, pp. 55-77; G. Castiglioni, Arcadia e sentimento. Novità per P.A. R., in Verona illustrata, 2003, n. 16, pp. 113-125; E.M. Guzzo, La fortuna della pittura italiana, non veneta, nelle collezioni veronesi, in Il collezionismo a Venezia e nel Veneto ai tempi della Serenissima. Atti del Convegno... 2003, a cura di B. Aikema - R. Lauber - M. Seidel, Venezia 2005, pp. 287-320; L. Ravelli, Recupero di una grande tela di Pietro Rotari, in Arte documento, XXIII (2007), pp. 197-201; P. Delorenzi, La galleria di Minerva. Il ritratto di rappresentanza nella Venezia del Settecento, Sommacampagna-Venezia 2009, pp. 237 s.; M. Favilla - R. Rugolo, Matteo Brida e le lettere romane a Raffello Mosconi custodite da Antonio Balestra, in Verona illustrata, 2010, n. 23, pp. 91-106; S. Marinelli, Le due vite di Pietro Rotari, ibid., pp. 107-116; L. Ievolella, P.A. R., in I pittori dell’Accademia di Verona (1764-1813), a cura di L. Caburlotto et al., Crocetta del Montello 2011a, pp. 333-345; Ead., P.A. R. in Emilia, in Verona illustrata, 2011b, n. 24, pp. 149-157; Il Settecento a Verona. Tiepolo, Cignaroli, R. La nobiltà della pittura (catal., Verona), a cura di F. Magani - P. Marini - A. Tomezzoli, Cinisello Balsamo 2011 (in partic. A. Tomezzoli, «Verona, madre e nutrice d’eccellenti Pittori», pp. 31-53; I. Artemieva, La fortuna di Pietro Rotari e Giambettino Cignaroli in Russia, pp. 65-73; P. Delorenzi, pp. 131-133 nn. 15-17, 208-213 nn. 68a-68n; T. Bushmina, p. 134 n. 18); S. Marinelli, Pietro Rotari disegnatore, in Venezia Settecento. Studi in memoria di Alessandro Bettagno, a cura di B.A. Kowalczyk, Cinisello Balsamo 2015, pp. 173-177; C, Bombardini, Antonio Balestra nello specchio di P.A. R., in Antonio Balestra nel segno della grazia (catal.), a cura di A. Tomezzoli, Verona 2016, pp. 129-144; S. L’Occaso, Novità nel Bresciano (e oltre) per la pittura veronese e veneta del Settecento, in Verona illustrata, 2016, n. 29, pp. 51-58.