AZARIO, Pietro
Nacque in Novara nel 1312 da Giacomo e da Donina degli Alzalendina. La sua famiglia era oriunda dal contado di Camodegia (ora Castellazzo di Mandello) e notevole è il salire dei suoi ascendenti dalla modestia del capostipite "Ambrosius de Camodegia agricola et mercator" (circa 1100) al nipote Ambrogio nato nel 1170 "exercens personam et pecuniam": dai campi al traffico del denaro, all'arte notarile. Della famiglia, del padre, dei suoi giovani anni nulla purtroppo l'A. dice nell'opera sua, limitandosi a dare qualche vago accenno sulle gravi lotte civili avvenute in Novata nel 1311 e negli anni seguenti. La prima notizia relativa ad impressioni e ricordi propri troviamo nell'A. a proposito del raduno di genti d'arme viscontee in Novara nell'estate 1320 contro Filippo di Valois, accampato presso Vercelli, di cui l'A., pur avendo allora appena otto anni, conservò vivide impressioni (Liber Gestorum, pp. 20 s.).
Nulla noi sappiamo degli studi giuridici del nostro scrittore compiuti probabilmente a Novara o a Milano, non certo a Bologna o in altro Studio famoso. Nel periodo 1339-1343 si può pensare che l'A. ventenne fosse in Cuorgné, perché dà notizie particolareggiate degli avvenimenti del Canavese in questi anni (De Statu, pp. 187 s.). Nel 1347, al tempo della peste, fu a Borgomanero al servizio visconteo (ibid., pp. 35, 89 s.). In questo periodo già aveva sposato Franceschina dei "de Fossato", famiglia ghibellina come gli Azario, da cui ebbe numerosi figli: Filippo, Giacomo, Giovanni, nati prima del 1350 - anno in cui l'A. abbandonò per qualche tempo la patria -, poi Giovannina nata nel 1352, Ambrogio, nato nel 1354, Caterina nata nel 1358, Antonio nel 1361 (ibid., p. 177). Dopo il 1350 fu a Bologna, notaio dell'ufficio amministrativo delle compagnie mercenarie che presidiavano quel nuovo ed importante acquisto visconteo; probabilmente si recò a Bologna con la prima compagnia di ventura che accompagnò Galeazzo Visconti nell'ottobre 1350. A. Bologna fu notaio e familiare del confidente del Visconti, l'arcivescovo Giovanni Mondella (ibid., p.63). Da Bologna prese parte alle due spedizioni viscontee in Toscana del 1351 e 1352 (ibid., pp.52 s.). Nel 1354 partecipò alla spedizione viscontea-bolognese su Modena (ibid., p.62). Quando il nuovo signore di Bologna, Matteo Visconti, ordinò il richiamo di gran parte delle milizie viscontee da quella regione (autunno-inverno 1354), anche l'A. tornò a Milano (p. 56) e qui continuò il suo ufficio di addetto al servizio delle compagnie di ventura (p. 68). Nel 1357 fu a Borgomanero con la famiglia (p. 90); podestà collaterale ad Antonio Tornielli in Asti, confinato con tutti i più eminenti cittadini novaresi partigiani del Visconti dal marchese Giovanni il Paleologo (p. 89), poté infine tornare in famiglia a Borgomanero, dove lo raggiunse l'ordine di Galeazzo Visconti di recarsi ad Ivorio presso Arona a prendere ordini dal cancelliere Pietro Fasolini (p. 90). Durante il suo soggiorno ad Asti fra il 1357 ed il 1358 ebbe probabilmente occasione di recarsi a Pavia (allora sotto il protettorato del marchese Giovanni II); l'A. dà infatti particolari vivaci e coloriti degli avvenimenti pavesi di quegli anni (pp. 121 s., 123). Tornato a Borgomanero, fu testimone del passaggio a Novara degli uomini del Paleologo e di quelli di Galeazzo Visconti, in seguito alla pace del maggio 1358. Probabilmente fu presente al discorso del Petrarca, tenuto nella canonica del duomo, ai Novaresi, di cui dà un riassunto, pur non nominandone l'illustre oratore (p. 107). Fu quindi ambasciatore di Galeazzo Visconti ad Antonio Tornielli in Asti perché tornasse in patria (pp. 107 s.). Per qualche anno non si hanno notizie precise sulle sue vicende personali, ma solo vaghi accenni dai quali si potrebbe arguire un suo nuovo soggiorno a Pavia (pp. 86, 108 s. 126, 127). Verso il 1361 dovette evidentemente soggiornare nel Novarese, in quanto dà notizie particolareggiate sulla vita e l'amministrazione viscontea a Novara in quel periodo (pp. 109 s., 177). Nel 1361-1362 tornò a Borgomanero; in quegli anni la peste faceva strage e proprio in questa città egli perse il figlio Ambrogio di sette anni. Qui egli lasciò la consorte con alcuni figli per raggiungere Tortona, dove dimorò pressò il podestà, Giovanni di Pirovano, già da lui conosciuto, e dove rimase "iudex ad bancam dicti communis, nec non cancellarius nobilis viri d. Iohannis de Pirovano". A Tortona si fermò per qualche anno, nonostante la morte della moglie e di una bambina, e qui iniziò e portò a termine il suo Liber Gestorum in Lombardia.La conclusio del suo lavoro è del novembre 1362, ma ancora vi lavorò nel 1363 e nel 1364 a Piacenza durante il servizio presso il podestà Antonio Tornielli, facendo aggiunte ai capitoli su Galeazzo e Bernabò Visconti (pp. 149, 160). In seconde nozze sposò una nobile novarese, Donnina di Pietro Tornielli del Borgo Lavezzaro, da cui ebbe un figlio, Filippono. Non si conosce la data della sua morte; un termine post quem per fissarla è però fornito da un accenno da lui fatto al matrimonio di Bernarda, figlia naturale di Bernabò, con Giovanni di Baldino Suardi di Bergamo avvenuto il 16 genn. 1367, ma combinato già nel 1366.
Nel Liber Gestorum in Lombardia l'A. espone gli avvenimenti dell'Italia superiore, e specie di Milano, fra il 1250 ed il 1364, seguendo il processo di formazione dello stato visconteo. Si tratta di un'opera assai soggettiva, in cui l'A. identifica i suoi sentimenti con quelli delle popolazioni lombarde. Atterrito di fronte alla decadenza dei costumi ed alle dure condizioni economiche, l'A. appare un "laudator temporis acti", incapace di comprendere il vero significato delle azioni dei suoi contemporanei e irretito in un atteggiamento sterilmente moralistico. Di ogni male egli dà la colpa al contrasto fra papato ed impero, fra guelfi e ghibellini, senza vera comprensione della complessità del momento storico. Dal punto di vista storico-cronistico, egli non è un esaltatore della dinastia viscontea, come il contemporaneo Galvano Fiamma, ma un semplice narratore delle vicende della vita lombarda, autore di una sintesi storica, errata, rozza, ma personale ed originale. Inizia il suo racconto con il 1250; la narrazione, magra e povera all'inizio, va allargandosi, acquistando forza e vita quanto più si accosta ai fatti direttamente appresi, agli avvenimenti a cui l'A. partecipò. Il racconto ribocca di errori cronologici, di confusioni, di equivoci, ma ciò non diminuisce il valore dell'opera azariana, che consiste soprattutto nella capacità impressionistica di rendere i particolari, nel diretto legame con i moti e i sentimenti dell'opinione pubblica, nella possibilità di giudicare gli avvenimenti dalla parte del popolo, non della classe dirigente. L'A. non comprende il significato della politica viscontea, sebbene sia funzionario dei Visconti, e mai appare adulatore, cortigiano: modeste sono le origini dei Visconti e lo scrittore lo dichiara serenamente e chiaramente, senza perifrasi. Lo stile è sciatto, rude, sgrammaticato: certamente l'A. lesse Dante, conobbe Boezio, Cassiodoro e Prisciano e persino i Dicta Catonis,ma preferisce citare il proverbio popolare, il giochetto di parole più o meno arguto. Non è ancora stato rintracciato l'autografo azariano ed è da credere sia andato perduto; riproduzione fedelissima sembra esserne il cod. Ambros. D. 269 inf., cartaceo composto di 84 carte. Questo codice ambrosiano, che conserva i due scritti azariani (il Liber Gestorum e il De statu Canapicii liber, dedicato alle lotte civili dei feudatari canavesani verso la fine del sec. XIV), offre un documento prezioso per la genealogia dell'A.; inserita nel principio del volume è una pagina contenente la figura di un solenne personaggio, avvolto in un tipico mantello, raffigurante Ambrosius de Camodegia il capostipite della famiglia vissuto verso il 1100. Sul suo ampio petto e su di una fascia, aperta con largo ed affettuoso movimento delle braccia, appaiono i nomi di tutti i componenti della famiglia Azario. Questa specie di stemma genealogico fu probabilmente compilato dall'A. in quanto si ferma a registrare i figli dell'A. con i loro vezzeggiativi infantili.
Il racconto azariano fu molto sfruttato nel secolo XV: da Fabrizio Marliani per il suo Valison, da Gioffredo Della Chiesa nella sua Cronaca di Saluzzo,da Galeotto del Carretto nella Cronica del Monferrato, da Benvenuto San Giorgio nella Historia Montisferrati, dal Bescapé in De Ecclesia Novariensi libri duo.Dell'interesse rivolto alla narrazione dell'A. sono ancora testimoni le numerose copie del codice della fine del sec. XVII-principio sec. XVIII. Nel 1927 F. Cognasso ne ha curato l'edizione critica in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XVI, 4, premettendovi un'ampia biografia dell'Azario.
Bibl.: A. Cotta, De statu Canapicii liber, Venezia 1697; Id., Miscellanea novariensis, III, p. 242, in Bibl. Ambrosiana, Milano; G. Sitonio Scotti, Vicecomitum genealogica monumenta,Milano 1714, p. 51; J. Graevius-P. Burmannus, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae,IX, Lugduni Bat. 1723, p. VI; V. de Saint-Genis, Histoire de Savoie, Chambéry 1868, I, p. 363; G. Riva, Per una nuova edizione dell'Azario,in Bullett. d. Ist. stor. ital., XXIII(1902), pp. 169-179; A. Tallone, Il codice XXI A della Laudense e gli Annali Milanesi attribuiti all'Azario, in Arch. Muratoriano, II, 21 (1920), pp. 521-560; F. Cognasso, Novara nella sua storia, in Novara ed il suo territ., Novara 1952, passim; L. Fassò, I letterati del Novarese, ibid., pp.626, 627-640; C. Baroni, L'Arte in Novara e nel Novarese, ibid., pp. 557, 558, 563; Enciclopedia Italiana, V, p.689.