BEMBO, Pietro
Nacque a Venezia il 20 maggio 1470 da Bernardo e da Elena Marcello. La personalità del padre, uno degli uomini di maggior rilievo nella storia veneziana di quell'età, prevalse per lungo tratto, anche al di là della giovinezza, su quella pur forte e da ultimo risolutamente diversa del figlio. Nella casa paterna, nella preziosa biblioteca in specie, il B. trovò il primo stimolo alla sua vocazione letteraria.
Poco o nulla si sa dei suoi studi giovanili. Come precettore domestico ebbe un oscuro umanista, Giovanni Alessandro Urticio, che ancora gli stava a fianco nel 1488. Probabilmente, prima che l'Urticio, gli fu anche maestro un umanista ben altrimenti noto, Giovanni Aurelio Augurello, che certo gli fu amico e consigliere letterario efficace in anni più tardi. Diretti rapporti del B. giovane con l'ambiente umanistico veneto non risultano dai documenti superstiti fino all'anno 1490. Ma è da credere che l'esempio, nella generazione intermedia fra quella del padre e la sua, di uomini dello stesso rango, quali Ermolao Barbaro e Girolamo Donato, contribuisse a suscitare nel giovane B. la vocazione degli studi umanistici. Agli studi, ai maestri, ai rapporti della vita domestica e in patria, si aggiunse nei primi vent'anni l'esperienza di uomini e cose d'altri paesi. Non molto avrà contato il soggiorno, ancora puerile, a Firenze, quando il padre vi fu per la seconda volta ambasciatore dal luglio 1478 al maggio 1480, ma resta che tale soggiorno s'inquadra nella trama stretta e durevole dei rapporti personali del padre coi Medici e con gli uomini di lettere fiorentini, e certo il ricordo di Lorenzo il Magnifico, allora conosciuto, rimase poi fermo nella memoria del Bembo.
È dubbio che il B. seguisse il padre a Ravenna nel 1482-83, ma è probabile che comunque fosse colpito dal solenne restauro che durante quella sua podesteria il padre, "Bembus musis incensus hetruscis", fece fare della tomba di Dante. Certo è che, durante l'ambasceria del padre a Roma, durata dal novembre del 1487 all'ottobre dell'anno 1488, egli ormai diciottenne visitò la Roma classica, umanistica e cristiana che tanto peso doveva avere nella sua vita. Nel 1489 egli seguì il padre podestà a Bergamo. Di ritorno a Venezia, nel 1490, il B. ventenne fu ufficialmente iniziato alla vita politica. Ma a quella data egli anche già si era iniziato alla poesia, dando segno di una dedizione agli studi maggiore di quanto potesse attendersi dalla normale educazione di un patrizio veneziano.
Come poeta, cioè poeta in latino, egli è celebrato in un pronostico a stampa per il 1491, datato 12 nov. 1490 da Padova, dell'astrologo Giov. Basilio Agostoni, e in uno dei Carmina dell'amico Augurello, editi a Verona nel luglio del 1491. Poco prima, nel giugno 1491, era stato ospite di casa Bembo a Venezia il Poliziano, per collazionare ivi un antichissimo codice di Terenzio, "quem mihi utendum commodavit - annotò il Poliziano sul suo esemplare - Petrus Bembus venetus patricius, Bernardi iurisconsulti et equitis filius, studiosus litterarum adulescens. Ipse etiam Petrus operam mihi suam in conferendo commodavit". In questa testimonianza splendidamente autorevole per la prima volta la personalità del B. sembra distaccarsi da quella del padre e isolarsi in una luce sua. L'incontro col Poliziano probabilmente valse a risolvere in lui gli ultimi dubbi sulla via da seguire. Pochi mesi dopo egli otteneva dal padre il permesso di recarsi con un amico, Angelo Gabriele, a Messina, per poter studiare il greco alla scuola di un famoso maestro, Costantino Lascaris. La scelta di Messina, piuttosto che, ad esempio, di Milano, dove insegnava il Calcondila, sarà stata determinata anche da motivi politici. Era comunque un lungo e costoso viaggio che di per sé indica la misura della posta in gioco.
Il B. e il Gabriele partirono ai primi di aprile e giunsero a Messina il 4 maggio 1492. Risulta che nel viaggio fecero tappa a Napoli. È probabile che ivi il B. si recasse a visitare un altro grande umanista, il Pontano. E dovette essere un incontro importante, perché non si spiega altrimenti che il Pontano poi dedicasse il settimo libro dell'ultima sua opera, De rebus coelestibus, al Bembo.
Il soggiorno del B. a Messina durò due anni intieri. Fu certo, in zona così isolata e lontana, un periodo d'intensa applicazione agli studi e meditazione. Non gli mancò tuttavia, neppure in quel periodo, la presa forte sugli uomini, che fu poi caratteristica di tutta una vita in cui il fondamentale, e a volte aspro, egoismo, non si risolse però mai in solitudine e rinuncia. Tornato a Venezia nell'estate del 1494, il B. fu raggiunto dopo pochi mesi da un giovane messinese, Cola Bruno, che da lui non si staccò più, fungendo per quasi cinquanta anni da uomo di fiducia e segretario.
Il B. tornò a Venezia quando irreparabile ormai si stava disegnando sull'Italia la minaccia dell'invasione francese. Ma Venezia ancora si manteneva neutrale. Inoltre, la sottigliezza prima del gioco diplomatico, e la prepotenza poi, nuova e incontrollabile, degli eventi, erano tali da respingere, piuttosto che attrarre, un giovane che avesse già per suo conto scelto l'altra via, degli studi: questi, di fronte alla tempesta storica, dovevano apparire più che mai unico e saldo riparo. Infatti, in quello stesso anno 1494 a Venezia, gli eventi non scoraggiavano Aldo Manuzio dall'iniziare la sua grande impresa editoriale, basata sul greco, sulla necessità, predicata dal Poliziano e dal Barbaro, di edificare sulla base dei testi greci un nuovo umanesimo enciclopedico.
Fra i primi libri stampati da Aldo, uscì l'8 marzo 1495 la grammatica greca di Costantino Lascaris secondo l'esemplare che il B. e il Gabriele avevano portato da Messina. Nel febbraio del 1496 (1495 stile veneto), ancora per i tipi di Aldo uscì la prima opera del B., il De Aetna, racconto, in forma di dialogo col padre, di un'ascensione sull'Etna fatta durante il soggiorno messinese, nel luglio 1493. L'opera apparve dedicata all'amico Angelo Gabriele. Con lui, dopo il ritorno da Messina, il B. si era trasferito nell'autunno del 1494 a Padova, per studiare filosofia in quella università. La sua presenza ivi è documentata per l'anno accademico 1494-95, non per il successivo. Se continuasse studi già iniziati a Padova prima del soggiorno messinese, e se li concludesse, e se fossero studi giuridici oltreché filosofici, resta dubbio. I pochi indizi che si hanno (uno nella stessa Storia veneta del B.) di una qualche attività forense e pubblica in questi anni non bastano a segnare un indirizzo nuovo della sua vita.
Quando, nel luglio 1497, il padre andò vicedomino, cioè rappresentante della Repubblica, a Ferrara, ancora una volta il B., dopo qualche mese, lo seguì, riprendendo ivi, alla scuola di Niccolò Leoniceno, gli studi filosofici, per cui tre anni innanzi era andato a Padova. Quando, due anni dopo, il padre fu richiamato a Venezia, egli ottenne di rimanere ancora per qualche tempo a Ferrara. Di qui i contatti con Venezia erano facili, ma appare chiaro che sotto lo schermo involontariamente offertogli dal padre, il B. sempre più era venuto e veniva foggiandosi una vita aliena dai negozi, tutta fondata sull'ozio degli studi. Non era però più, come a prima vista parrebbe, l'ozio solo degli studi umanistici, ideale della sua prima giovinezza. A Ferrara egli per la prima volta sperimentò l'ozio consentito da una corte principesca e cavalleresca: una società diversa da quella veneziana. Nella corte estense, e in quelle congiunte di Mantova e Urbino, diverso era in ispecie il rapporto fra la scuola umanistica e la letteratura volgare di moda. A questa nuova esperienza il B. non era impreparato: tradizioni famigliari e inclinazioni personali lo disponevano ad essa. Ma è per ciò appunto probabile che l'esperienza lo toccasse più a fondo e lo aiutasse a sciogliere il nodo della sua vocazione letteraria.
Immediatamente prima e durante il soggiorno ferrarese egli concepì e cominciò a stendere un'opera volgare, in prosa e in rima, sull'amore: gli Asolani. L'opera era certo ispirata da un proprio, infelice amore, di cui nulla sappiamo, se non che ancora nel 1500 resisteva alla lusinga di un secondo amore. Ma più importante è che questa vicenda amorosa, anziché nei modi pur disponibili della poesia latina, si risolvesse in rime, e di qui, con un salto ardito allora, nella prosa di un dialogo volgare. Il B. mostrava così di accettare quella preminenza del tema amoroso che era normale nella tradizione volgare, ma repugnante a quella umanistica.
Il proposito del B. di prolungare, dopo la partenza del padre, il suo soggiorno a Ferrara, non teneva conto della situazione politica, che pur era già, dopo la lega di Blois fra Venezia e la Francia, chiara. È da credere che il precipitare degli eventi lo richiamasse, volente o nolente, in patria. Il 30 luglio 1499 fu candidato (respinto con votazione schiacciante: due voti favorevoli, venti contrari) alla carica di pagator in campo. Il 19 dic. 1500 fu candidato alla carica di ambasciatore in Ungheria (nuovamente respinto con diciassette voti favorevoli e centoquarantadue contrari) e il 30 marzo 1501 a quella di ambasciatore in Portogallo (cinquantuno voti favorevoli, centoquattordici contrari). Questi insuccessi bastano a indicare una qualche attività politica durante il biennio 1499-1501, lo sforzo insomma compiuto dal B. ormai trentenne di inserirsi, secondo il suo grado e l'esempio paterno, nella vita e nel governo di Venezia, ma insieme le difficoltà che così facendo egli incontrava. Erano difficoltà opposte da un ambiente rigido e sospettoso, ma erano anche difficoltà intime. Il motivo, che il B. aveva riconosciuto per lui essenziale, dell'amore, e l'impresa cui aveva dato mano, di risolvere una esperienza reale nel discorso, in prosa e poesia, degli Asolani, ebbero un nuovo, imprevisto sviluppo, dal maggio 1500, per l'amore, in cui il B. fu involto, di una donna, Maria Savorgnan, che sua non poteva essere, e che però gli si offriva con una femminilità prepotente e sfuggente, avvincendo in lui non meno il poeta che l'uomo.
A questo amore probabilmente si lega l'ultima fase della composizione degli Asolani, e certo ne nacque un carteggio che, per la parte sua, il B., ancora negli estremi suoi anni, volle conservato e incluso nella definitiva edizione delle sue opere da pubblicarsi dopo la morte. L'amore della Savorgnan ricondusse il B. più volte in rapide gite a Ferrara, dove la donna si era da Venezia trasferita nel febbraio 1501, e ivi appunto, nel settembre, è probabile che il loro amore si rompesse, con l'inevitabile lascito di altri fuggevoli incontri e di chiusi e lenti rimpianti. Era stato un amore segreto, ma non senza confidenti e benevoli testimoni. Come nella finzione letteraria degli Asolani, dove in amichevole compagnia, negli intervalli di una festa di corte, tre donne e tre uomini discorrono dell'amore e insieme dei loro amori, così nella vita del B., in questi anni, l'esperienza amorosa pare che si levi e fiorisca su un intreccio di gelose amicizie.
Già il B. aveva dedicato a un amico, Angelo Gabriele, la sua prima opera a stampa, il De Aetna. Un altro e più noto Gabriele, Trifone, appare poco dopo, nella corrispondenza, a lui legato da un'amicizia che, cementata da comuni gusti letterari, durò poi, efficacemente, per tutta la vita. L'amore di Maria Savorgnan si aggiunse all'amicizia, testimoniata già dal Poliziano nel 1491, di Girolamo Savorgnan: amicizia anche questa durevole, e importante perché indica, fin dalla prima giovinezza, un rapporto diretto con l'aristocrazia cavalleresca della Terraferma (nella fattispecie il Friuli), fuori dalla stretta cerchia dell'aristocrazia veneziana. Onde anche, in questi anni e poco più tardi, l'amicizia del B. coi Da Porto a Vicenza, coi Gambara a. Brescia, che è un intreccio di rapporti e di affetti, tutto, dal più al meno, sottostante già alla composizione degli Asolani, così intitolati proprio perché scena del dialogo è, a Asolo, la corte di Caterina Comaro regina di Cipro, unica corte nel territorio della Repubblica veneta. Ma a Ferrara, ben altra e più splendida corte, le amicizie contratte dal B. non erano tali da invitarlo soltanto alle armi e agli amori della poesia volgare. Fortissima era ivi la tradizione umanistica. Il suo maggior anùco ferrarese fu Ercole Strozzi, uomo di corte sì e fin troppo esperto di cortesie e di amori, ma innanzi tutto squisito poeta latino, tanto da poter essere scelto poi, dall'amico autore delle Prose della volgar lingua, come rappresentante tipico della scuola umanistica più restia all'uso letterario del volgare. Né meno impegnati a quella data nella poesia latina che in quella volgare erano altri due suoi amici ferraresi, l'Ariosto e il Tebaldeo. A Ferrara il B. strinse anche amicizia con Iacopo Sadoleto, intransigente latinista, un'amicizia che doveva più tardi risultare importante nella vita di entrambi, appaiando i loro nomi, come in un verso dell'Ariosto, così negli onori ecclesiastici e nella storia del ciceronianismo. Finalmente a Ferrara egli divenne amico di Alberto Pio, il protettore di Aldo Manuzio, e non par dubbio che alla scuola del Leoniceno, un filosofo ellenista in rapporto stretto con Aldo, il B. ancora perseguisse quell'indirizzo, filosofico e umanistico insieme, rappresentato in quegli anni dalla monumentale edizione delle opere di Arístotele, dedicata da Aldo al suo protettore.
Questo indirizzo, benché nuovo, era però il solo che membri della classe dirigente di Venezia potessero apertamente seguire e che di fatto corrispondesse a esigenze comuni. Il ristretto gruppo degli amici intimi del B. a Venezia, costituito allora, oltre che da Angelo e Trifone Gabriele, da Niccolò Tiepolo, Vincenzo Querini e Tommaso Giustinian, appare nell'insieme caratterizzato per un verso da forti preoccupazioni filosofiche e religiose e per l'altro da un prezioso e preciso gusto della poesia amorosa volgare. L'influsso del B., che sarà certo stato prevalente per quanto riguardava la poesia volgare, era però bilanciato nel gruppo dalla personalità, che si affermava di anno in anno sempre più vigorosa, del filosofo e poi monaco Querini. Del resto il B. stesso cercava, nel terzo libro dei suoi Asolani, una soluzione filosofica e religiosa insieme del problema dell'amore. Ma la sua vocazione non era né filosofica né religiosa. Alle dottrine che gli venivano offerte dall'aristotelismo padovano e dal neoplatonismo fiorentino egli chiedeva una giustificazione intellettuale e morale del suo ozio letterario, ozio di un uomo ormai sui trent'anni, nella pienezza della vita. Come scrittore, anche chiedeva un controllo più stretto delle parole che si scrivono e restano, un affinamento della sua retorica e poetica. Si spiega, quindi, che egli esitasse a giocare in pubblico la carta degli Asolani, troppo rischiosa, così per il contenuto in parte autobiografico, come per lo scarso conto in cui una moderna opera volgare poteva essere tenuta. Anche si spiega che egli giungesse a riconoscere nella questione, più volte dibattuta e irresoluta ancora, della lingua e letteratura volgare, soggetta, per un vincolo apparentemente illegittimo di sangue, alla nuova cultura umanistica, il nodo fondamentale non dell'opera sua soltanto, ma del gruppo e della società cui quell'opera avrebbe potuto indirizzarsi.
Il primo e decisivo passo del B. su questa via è documentato, e in parte coperto, dall'improvviso mutamento di indirizzo che nel 1501 si verificò nell'attività editoriale di Aldo Manuzio. L'editore umanista per eccellenza, tutto intento al greco, cominciò a lanciare le stampe in carattere corsivo e formato tascabile dei testi essenziali per ogni persona colta: Virgilio, Orazio, e subito dopo, nel luglio 1501, le rime del Petrarca a cura del Bembo. Altri testi latini e greci uscirono con rapida successione nella stessa serie, e fra essi, nell'agosto 1502, di nuovo a cura del B., la Commedia, anzi le Terze Rime di Dante.
Come questo stesso non felice mutamento di titolo prova, le due edizioni curate dal B. volevano essere nuove. Nuovo era il fatto che il Petrarca e Dante apparissero in una stessa serie coi classici latini e greci, e che testi volgari venissero curati con quello stesso scrupolo editoriale che si usava per i classici. Nuovi in realtà risultarono i testi, e benché subito e poi a lungo suscitassero proteste e correzioni, resta il fatto che per più di due secoli così Dante come il Petrarca furono ristampati e letti nei testi restituiti dal B., non più in quelli delle stampe quattrocentesche. Nasceva così una filologia volgare, fondata su una considerazione critica nuova della lingua. Le novità testuali introdotte dal B. nella Commedia e nelle Rime sparse erano infatti giustificate, al di sotto del vanto editoriale solo in parte vero di un ricorso agli autografi, dal riconoscimento che la lingua toscana dei Trecento era stata altra e più nobile e pura che non quella invalsa, per influsso umanistico e compromesso cortigiano e mescolanza dialettale, durante il Quattrocento. Onde il restauro, che il B. operò, sistematicamente eliminando dai testi suoi del Petrarca e di Dante la vernice e i ritocchi quattrocenteschi. In questo restauro, nella elevazione dei grandi poeti volgari allo stesso rango dei classici e nella preferenza data, per quanto era del proprio lavoro, ai primi (è notevole che il B., il quale aveva già allora fra i suoi libri un fondamentale codice di Virgilio, e che di esso codice fece poi uso in un suo opuscolo filologico, non ebbe parte, a quanto sembra, nell'edizione aldina di Virgilio dell'aprile 1501, tutto assorto nel preparare la sua edizione del Petrarca), in "alcune notazioni della lingua", che in una lettera del 2 sett. 1501 il B. scriveva a Maria Savorgnan di aver cominciato a stendere per lei, finalmente nella composizione, regolata da una stretta imitazione della lingua toscana, dei suoi Asolani, è da riconoscere già nel biennio 1501-1502 il nucleo dell'opera maggiore del B., le Prose della volgar lingua. Cominciava dunque a vedere chiaro in sé e attorno a sé. Conseguentemente si manifesta nel 1502, senza giustificazione apparente, il suo distacco dal padre e da Venezia.
Il padre, nell'aprile, fu nominato podestà di Verona e di lì nel giugno fu inviato in missione nell'attiguo Stato di Milano per incontrarvi il re di Francia. Questa importante missione durò fino agli ultimi di agosto, e nel settembre il podestà, in vena di magnificenza, organizzò a Verona una fastosa giostra. Non risulta che il B. seguisse il padre. Il suo posto al seguito sembra fosse ormai tenuto dal fratello, minore di due anni, Carlo, nel quale egli aveva confidenza assoluta, e del quale, come prima del padre, cominciava a valersi come di uno schermo al proprio ozio. Mentre i suoi si trasferivano a Verona, il B. si recò nel maggio 1502 a Roma con Vincenzo Querini e un altro amico dei suoi anni di studio a Padova, il medico e astrologo Valerio Superchio. A Roma il 29 maggio il Querini sostenne in pubblico le sue conclusioni filosofiche e ricevette dal papa le insegne dottorali. Di ritorno a Venezia, il B. dopo pochi mesi accettò l'invito rivoltogli da Ercole Strozzi di trascorrere quanto tempo volesse in una sua villa nel territorio ferrarese. Il B. già vi era stato altre volte, anche nel luglio 1502. Vi si stabilì nell'ottobre, e alternando questo soggiorno con quello di Ferrara passò oltre un anno lontano da Venezia, tutto intento ai suoi studi. Ma in questa vacanza letteraria e a tratti quasi monastica lo sorprese l'incontro con Lucrezia Borgia, da poco giunta a Ferrara, sposa, in terze nozze, di Alfonso d'Este. Fu, corrisposto, il più ambizioso e memorabile, ma rischioso anche e struggente amore della sua vita. È probabile che già nell'autunno del 1503 qualche pressione fosse esercitata dal padre sul B. per richiamarlo a Venezia e toglierlo da una situazione disperata; perché il suo nome figura in una lista di candidati all'ambasciata di Francia, presentata, senza che seguisse la votazione, il 20 nov. 1503. Il destino intervenne a tagliare il nodo poco più tardi. Il 30 dicembre moriva a soli trentun anni il fratello Carlo e il B. dovette accorrere a Venezia e lasciare definitivamente Ferrara. Non poteva ormai più esimersi, se non per una rinuncia irrevocabile, dai suoi doveri di patrizio veneziano. L'8 marzo 1504, eleggendosi l'ambasciatore in Francia, la candidatura del B. fu respinta con quarantatré voti favorevoli e centotrentotto contrari. Si ripresentò candidato per un'ambasceria in Germania e per una in Spagna il 18 marzo, e fu anche per queste respinto. Così fu respinto il 16 dicembre per una ambasceria in Borgogna, e questo insuccesso tanto più dovette pesargli, perché eletto riuscì Vincenzo Querini, già competitore suo nelle precedenti elezioni. Ma il Querini era un filosofo, non un letterato. Né d'altra parte il B. era disposto a recedere dalla sua pubblica professione di letterato.
Il 14 febbr. 1504 il B. otteneva un privilegio di stampa per una sua opera latina De corruptis poetarum locis, opera da lui composta durante l'ozio ferrarese, non apparsa mai con quel titolo, ma identificabile, con una prima redazione del dialogo De Virgilii Culice et Terentii fabulis, dedicato a Ercole Strozzi (con una dedica che riporta al 1503) e pubblicato nel 1530. Come di quel privilegio non ebbe a servirsi, così il B. ancora esitava, e a maggior ragione, a pubblicare gli Asolani, che pure, in vista della pubblicazione, dedicava a Lucrezia Borgia con una lettera datata 1° ag. 1504. L'opera finalmente uscì, per i tipi di Aldo, nel marzo del 1505. Non è chiaro perché di questa edizione si abbiano esemplari contenenti la dedicatoria a Lucrezia, nel frattempo diventata duchessa di Ferrara, e altri senza; ma è probabile che la duplicità non fosse estranea alle incertezze e difficoltà di un amore impossibile, che nella lontananza, da una parte e dall'altra, lentamente ma inevitabilmente si spegneva.
Nello stesso mese di marzo il padre del B. fu inviato con sette colleghi per una straordinaria ambasceria a Roma. Il B. seguì il padre nel lento viaggio dal 9 al 28 aprile. A Roma ritrovò gli amici umanisti coi quali già aveva stretto rapporti nel precedente viaggio del 1502. Anche meglio si fece conoscere in Curia da cardinali e prelati. È probabile che in questa occasione prendesse forma in lui il proposito di mutar vita passando allo stato ecclesiastico. Nel viaggio di ritorno si separò dal padre, e con Paolo Canal fece sosta alla corte di Urbino, dove già si era fermato all'andata, e di lì ai primi di giugno, anziché rientrare direttamente a Venezia, proseguì per Ferrara e finalmente per Mantova dove fu presentato alla marchesa Isabella Gonzaga. Era di ritorno a Venezia a fine giugno. In sua assenza, il 10 e 14 giugno, il padre lo aveva presentato candidato per due ambascerie, al re di Francia e all'imperatore: entrambe le volte fu bocciato a grande maggioranza. Ancora senza successo si presentò candidato il 4 settembre per una ambasceria al re di Spagna e il 7 Ottobre per una missione a Napoli. Fu questo, per quanto risulta dai Diarii del Sanuto, l'ultimo suo tentativo. A quella data, come risulta da una lettera dell'ottobre al card. Galeotto Franciotti Della Rovere, egli aveva già iniziato pratiche, durate poi circa un anno, per trovare una definitiva sistemazione della sua vita lontano da Venezia. Sperava soprattutto in quel giovane cardinale, nipote prediletto del papa, potentissimo e intendente di lettere. Contava inoltre sui duchi d'Urbino, che nel 1502-1503, durante il loro esilio, avevano goduto l'ospitalità di Venezia, e che ora erano col nuovo papa, Giulio II, legati da stretti vincoli di parentela e di interessi. Naturalmente, essendo impensabile che un patrizio veneziano passasse al servizio di altro Stato, la sistemazione cercata dal B. comportava la rinuncia non solo ai suoi diritti politici ma anche alla sua condizione di laico. Rimasto dopo la morte del fratello Carlo unico erede, agli effetti pubblici, del suo nome (un altro fratello, Bartolomeo, era illegittimo), doveva, passando allo stato ecclesiastico, tradire tutte le speranze in lui riposte da un padre ormai più che settantenne. Anche i suoi amici veneziani, sui quali aveva sempre contato, erano in maggioranza contrari a una decisione così grave. Tuttavia il B. sentì che la sua ora era venuta, e decise. Nell'estate del 1506 lasciò Venezia e accettò la temporanea ospitalità che gli veniva offerta dai duchi di Urbino.
Il B. mirava senza dubbio a Roma e considerava quel soggiorno soltanto come una tappa. In realtà a Urbino finì per stare quasi sei anni. A differenza di Ferrara, o di Mantova, la corte di Urbino, tanto più precaria per sé e dipendente da altri, ma per ciò stesso tanto più aperta, senza doverne temere, al vento impetuoso della politica di Giulio II, ospitava allora un buon numero di esuli d'eccezione. Sono i personaggi che per sempre conversano nel Cortegiano del Castiglione: il gruppo mediceo, Giuliano col fido Bernardo da Bibbiena, i due genovesi Ottaviano e Federico Fregoso, il veronese Ludovico da Canossa, i due mantovani Cesare Gonzaga e il Castiglione stesso. Tutti erano uomini di azione e di lettere insieme; tutti erano, come il B., sradicati dalla loro terra d'origine, lanciati all'avventura o al recupero di beni perduti, intenti al miraggio di un futuro diverso. Il B. aveva predisposto la sua vita a Urbino in modo analogo a quello già da lui tenuto a Ferrara: alternando cioè i suoi soggiorni nella corte con periodi di ritiro o nella villa ducale di Castel Durante o addirittura nell'abbazia camaldolese di S. Croce in Fonte Avellana sul monte Catria, che si illumina al primo sole nella chiusa del Cortegiano. Anche aveva predisposto una ripresa dei suoi studi umanistici, più che mai necessaria, dopo la pubblicazione degli Asolani, in vista di una carriera ecclesiastica. Infatti subito all'inizio del soggiorno urbinate, nel 1506, riprese in mano il dialogo filologico su Virgilio e Terenzio, probabilmente la stessa opera per cui aveva chiesto un privilegio di stampa a Venezia nel 1504. Anche più tardi, nel 1509-10, attese a comporre in latino un dialogo in onore e commemorazione dei suoi ospiti, il De Guido Ubaldo deque Elisabetha Gonzaga Urbini ducibus, e indizi di una probabile composizione, o forse rielaborazione, in questi medesimi anni, si hanno per una sua ancora inedita orazione greca in lode degli studi greci. Ma come il Tirsi e il Cortegiano del Castiglione dimostrano, il B. non poteva, nel 1506-07, apparire alla società urbinate in altra figura che di autore degli Asolani e di poeta volgare.
Infatti alla poesia volgare egli si dedicò subito con nuovo fervore, e già nel 1507 produsse due componimenti di opposto genere, che nettamente divergevano dallo stile di stretta imitazione petrarchesca delle rime degli Asolani: le Stanze recitate in maschera con Ottaviano Fregoso l'ultima sera di carnevale, e una canzone in morte del fratello Carlo, dedicata alla duchessa Elisabetta. Entrambe le composizioni ebbero immediato, largo successo. La canzone, per la sua inconsueta lunghezza e per la sua alta retorica su un tema funebre, apriva alla lirica volgare la via trionfale ed eroica, propria della poesia classica. Le Stanze per contro, di stile comico, indicavano le possibilità liriche e discorsive, petrarchesche insomma e umanistiche insieme, di un metro tipico della poesia descrittiva e narrativa del Quattrocento. Già questi esperimenti, arditi allora, non potevano farsi senza la premessa e lo strascico di discussioni linguistiche e letterarie. Ma queste si aggiungevano alle discussioni suscitate da un'opera così nuova e densa di impliciti motivi polemici come gli Asolani.
Si spiega che nell'ambiente urbinate in cui la discussione, come il Cortegiano dimostra, era così viva, e in un periodo sperimentale e sospeso, ma al tempo stesso risolutivo, della sua vita, il B. concepisse una opera che rendesse conto pienamente dei motivi che lo avevano indotto alla scelta, e a quel particolare uso letterario, del volgare. La composizione di quest'opera, le Prose della volgar lingua, lo impegnò negli ultimi anni del suo soggiorno urbinate, e ancora nei primi mesi del 1512 a Roma.
A Urbino il B. non rimase così a lungo per suo piacere. Vi si era trasferito a tempo giusto, volendo cercar fortuna in una carriera ecclesiastica e nella corte di Roma: prima cioè che si scatenasse ai danni di Venezia la politica bellicosa di Giulio II. Infatti da principio egli ebbe successo, e poté nel gennaio del 1508 iniziarsi alla vita clericale sotto buoni auspici, ottenendo da Giulio II la pingue commenda di S. Giovanni dell'Ordine gerosolimitano a Bologna. Ma solo nel 1517 poté entrare in effettivo possesso di tale beneficio, e intanto, proprio nel 1508, l'11 settembre, moriva il cardinale Franciotti Della Rovere, che era stato il suo principale sostenitore presso il papa. E già l'11 maggio, mentre il B. era a Roma per le pratiche connesse a quel suo beneficio, era morto il duca d'Urbino, gettando il lutto in quella corte già così festosa, e aprendo una crisi di successione non facile per la giovane età e per il carattere violento dell'erede designato, Francesco Maria Della Rovere. Non stupisce che nel settembre il B. risulti, da una lettera di Emilia Pio a Isabella d'Este, nel solitario ritiro della Verna. Ma era di ritorno a Urbino in novembre, quando già si addensava la minaccia della lega di Cambrai su Venezia.
Benché lontano, e forse anche per questo, gli eventi del 1509, l'interdetto, Agnadello, la perdita di quasi tutto il dominio di Terraferma, Venezia ridotta all'ultima difesa della sua stessa esistenza, dovettero colpirlo a fondo. Né, anche se lontano, la sua qualità di veneziano poteva in tali frangenti giovargli in corte di Roma. Bisognava attendere tempi migliori. Già per il Natale del 1509 a Urbino il lutto cedeva il passo al festoso ingresso della nuova duchessa, Leonora Gonzaga. Nei primi mesi del 1510, forse al seguito dei duchi d'Urbino, il B. fu di nuovo a Roma. Non sembra tuttavia che, come per ovvie ragioni il Castiglione, facesse uno sforzo serio per ingraziarsi i nuovi signori. Benché nel marzo del 1511 con tre sonetti celebrasse la nascita del loro primogenito, la sua attività letteraria, come quella più tarda del Castiglione stesso, appare in questi anni rivolta piuttosto al passato: del 1509-10 è la composizione del già citato dialogo latino in onore del duca morto, Guidobaldo, e della duchessa Elisabetta, e degli stessi anni, non posteriore al 1510, è una raccolta, in forma di canzoniere, delle sue rime (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, cod. Ital. IX, 143), dedicata per l'appunto alla duchessa vedova, Elisabetta. Questa raccolta si chiude con un sonetto, dedicato all'amico Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno. È probabile che già allora, e certo negli anni successivi fino alla morte di Giulio II, il B. contasse per una sua sistemazione in Curia sul patrocinio del Fregoso. Del nuovo duca di Urbino, che nel 1511 uccideva di sua mano il cardinale Alidosi, e temporaneamente, non senza difficoltà, si salvava dalle conseguenze di un tale atto, il B. aveva buone ragioni per diffidare. Urbino ormai non rappresentava più una utile base: utile ancora per stendere l'opera cui il B. si era accinto, le Prose della volgar lingua ("due libri e forse la mezza parte di tutta l'opera" erano pronti ai primi del 1512); non utile agli effetti pratici e pubblici. Quando, il 4 febbr. 1512, il B. prometteva di inviare, e il 1° aprile di fatto inviava, la parte dell'opera fino allora composta agli amici veneziani perché la rivedessero, egli aveva ormai definitivamente lasciato Urbino e si era stabilito a Roma in casa del Fregoso.
Roma, da oltre due secoli e forse tre, non era mai stata così grande, così umanisticamente restaurata e trionfante, come in quell'ultimo anno del pontificato di Giulio II. Ivi, proprio allora, contro ogni tradizione conciliare, il Concilio lateranense pareva riunito per collaudare la potenza del pontificato. A Venezia, gli amici del B., cui egli mandava a rivedere le sue Prose, potevano anche appassionarsi di quelle discussioni sul volgare che tanta parte avevano avuto nei loro convegni dieci anni prima. A Roma tali discussioni non significavano nulla in quel momento. Significante ivi era il trionfo della nuova latinità. che dall'Italia era ormai dilagata in Europa: della teologia e della predicazione umanistica di un Egidio da Viterbo, ad esempio, fra i rappresentanti degli Ordini al concilio, di un G. F. Pico fra i laici. Il B. viveva in casa del Fregoso con due amici, eccellenti umanisti: il Sadoleto e Camillo Paleotti. A una stampa, uscita a Roma in quell'anno, dell'orazione tenuta da Egidio da Viterbo al Concilio, il Sadoleto preponeva una epistola dedicatoria al Bembo. Ma quella nuova latinità, che celebrava in Roma il suo trionfo, non era affatto cosa pacifica. Su di essa, su quel che fosse l'ottimo stile e il miglior modo di conseguirlo, il B. e il Sadoleto avevano idee, probabilmente solo in parte comuni, ma certo fondamentalmente diverse da quelle di Egidio da Viterbo o del Pico.
Il 19 sett. 1512 G. F. Pico indirizzò al B. una epistola sulla questione dell'imitazione, sostanzialmente riprendendo la tesi sostenuta vent'anni prima dal Poliziano in polemica con P. Cortese, e adattandola alle esigenze e ai fini di un umanesimo riformatore, quale era quello sviluppatosi fuori d'Italia. Il B. rispose in data 1° genn. 1513, e questa sua epistola De imitatione fu e restò il manifesto di un umanesimo latino e ciceroniano.
All'improvvisazione anarchica e al comodo eclettismo, e alle ragioni non letterarie del contenuto, il B. preponeva, in letteratura, la rigorosa disciplina e le ragioni propriamente letterarie dello stile. Il Pico replicò, ma, nel 1513, il B. aveva ormai altro per il capo. Aveva, ai fini suoi, vinto la battaglia. Nel marzo, il nuovo papa, Leone X, fra i primi suoi atti, nominò segretari ai Brevi il B. e il Sadoleto. Letterariamente, la nomina dei due significava la vittoria dell'umanesimo ciceroniano in prosa, virgiliano in poesia. Questo pronto e clamoroso successo del ciceronianismo e l'ufficio stesso, cui il B. si trovò addetto, di scrittore dei brevi latini, senza dubbio contribuirono a irrigidire in lui per un tratto la componente umanistica latina della sua personalità letteraria. Ma l'ufficio, che finalmente gli apriva la via ai più alti gradi della carriera ecclesiastica, scarso margine lasciava di libertà all'uomo di lettere.
L'avvento di Leone X, dopo Giulio II, era stato salutato come una promessa di pace. Ma la guerra era nella realtà delle cose, e la febbrile attività diplomatica di quegli anni era in funzione del grande urto in Italia tra Francia e Spagna. Nel 1514 il B., in aspra concorrenza con il suo amico di giovinezza, Vincenzo Querini, diventato nel frattempo monaco camaldolese, si adoperò per l'inserimento di Venezia nel quadro dell'alleanza antifrancese che in quel momento Leone X propugnava. A fine anno, morto il competitore Querini, egli fu inviato a Venezia come ambasciatore straordinario del papa. Tornava così ufficialmente nella sua città, tra quelli che erano stati suoi pari, come rappresentante di una potenza straniera. Era in certo modo la sua rivincita, ma anche era una grossa e rischiosa partita che il B. si era indotto a giocare ingenuamente nel luogo e nel momento a lui meno favorevoli. La sua missione non ebbe successo, ed è sintomatico che il padre suo, che ancora nel 1504 era stato dei Dieci, scomparisse completamente dalla vita pubblica di Venezia dopo tale data. Né il B. fu per parte sua adoperato più da Leone X in affari d'importanza. Il miraggio, che già allora gli stava davanti agli occhi, del cardinalato, si allontanava. Certo gli riuscì in questi anni di consolidare, con l'acquisto di vari benefici ecclesiastici, la sua indipendenza econornica presente e futura. Nel 1517 in specie, quando finalmente entrò in possesso della commenda di Bologna, assegnatagli fin dal 1508, anche ottenne da Leone X l'abbazia benedettina di S. Pietro di Villanova in quel di Vicenza, e importanti, ma nominali, benefici dell'Ordine gerosolimitano in Ungheria, onde, in mancanza d'altro, poté d'allora in poi fregiarsi del titolo, che sembra gli piacesse, di priore d'Ungheria.
È notevole che, pur dedicandosi senza requie alla caccia dei benefici ecclesiastici, sempre evitasse in questi anni di professare i voti religiosi, avvalendosi di sanatorie e proroghe che la prassi d'allora consentiva. Perciò si guardò bene dal puntare, come il suo collega Sadoleto, a un vescovato. Questa cautela che, contrariamente a quel che oggi può sembrare, piuttosto che a mancanza di scrupoli, probabilmente corrispondeva a un superstite scrupolo di non impegnarsi senza via di scampo né di scusa in un modo di vita che sentiva non suo, certo non era fatta per agevolare la sua carriera. Altre circostanze ancora gli furono avverse: già nel marzo 1516 la morte di Giuliano de' Medici, al quale soprattutto, più che agli altri della famiglia medicea, egli era legato; in quello stesso anno la questione di Urbino che metteva lui, già ospite dei duchi aggrediti e cacciati dal loro Stato, e ora passato al servizio del papa aggressore e dei Medici usurpatori, in una posizione ovviamente non facile; finalmente la lontananza e il declino in Curia dell'autorità di quello che, con Giuliano de' Medici, sempre era stato il suo maggiore amico e sostenitore nell'ambiente mediceo, Bernardo Dovizi da Bibbiena.
Inesorabilmente, il sacrificio alle ambizioni politiche della vocazione letteraria rivelava il suo fondo amaro e vano. Nella primavera del 1518 una grave malattia lo rese per oltre quattro mesi inabile all'ufficio. Si riprese, ma non del tutto. L'anno dopo, a fine aprile, chiese licenza di andare a Venezia per motivi di salute e famigliari. Partì in maggio con l'incarico di una missione a Mantova. Ma giunto a Bologna ebbe notizia che a Venezia il padre era morente. Bernardo morì il 28 maggio e il figlio giunse a funerali avvenuti, solo a raccogliere una eredità dissestata. A stento riuscì a salvare la villa vicino a Padova, cara ai suoi studi giovanili, e dove forse cominciava a vagheggiare di poter ritrovar la quiete e se stesso. È improbabile che soltanto la malferma salute e le cure famigliari (come capo famiglia dovette presiedere, nel novembre, al matrimonio della nipote Marcella con un altro Bembo, Giov. Matteo) lo trattenessero fra Venezia e Padova fino al marzo 1520. Era giunto a un punto critico della sua esperienza romana e di Curia. Ma per il B. la decisione da prendere era altrettanto difficile quanto quella che quindici anni prima aveva preso abbandonando Venezia. Volle fare un ultimo tentativo e nell'aprile 1520 tornò a Roma. Pare che ancora si illudesse di poter conseguire il cardinalato. Nel novembre morì il suo maggiore amico in Curia, il Bibbiena. La salute ora, dopo due anni di alti e bassi, cominciava a venirgli meno precipitosamente. Nella primavera del 1521 dovette decidersi a lasciare Roma. Ma il riposo nella sua villa padovana non gli giovò. Era ormai un uomo infermo, e la malattia si aggravò nell'inverno, a Venezia, al punto che quando, nel dicembre, giunse notizia della morte di Leone X, un amico come il Longolio, da Padova, non osava chiedergli, per lettera, consiglio sul da farsi. Ancora nel febbraio del 1522 le sue condizioni erano preoccupanti. Finalmente, nel marzo, dopo otto mesi di malattia, si avviò a guarigione, e di lì a poco si trasferì convalescente a Padova.
Cominciò così per lui, anche fisicamente, una nuova vita. A Roma, con un papa come Adriano VI, non era più il caso di pensare. Neppure era possibile ottenere oltre la dilazione dei voti religiosi (l'ultima, di un biennio, gli era stata concessa il 5 dic. 1520). Il 6 dic. 1522 dovette, per poter conservare i suoi benefici ecclesiastici, far la sua professione e vestire l'abito dell'Ordine gerosolimitano. Era, quanto al voto di castità, in malafede. Da Roma lo aveva o seguito o raggiunto a Venezia una donna, che forse già prima conviveva con lui (pare l'avesse conosciuta e amata nel 1513, sedicenne). Si chiamava Morosina (Faustina Morosina della Torre), probabilmente in origine una cortigiana, certo uscita da un ambiente men che mediocre. Un amore insomma che faceva bel contrasto con quello, o quelli, dell'autore degli Asolani. In realtà, a parte ogni altro documento, la sola lettera rimasta di lei a lui, prova che la Morosina era donna degna di amare e di essere amata. Stabilitosi con lei a Padova (e il loro legame, benché non ostentato, certo non era segreto), il B., più che cinquantenne, nonostante i voti appena pronunciati ebbe da lei tre figli: Lucilio nel novembre del 1523, Torquato il 10 maggio 1525 e Elena, in cui rinnovò il nome della madre sua, il 30 giugno 1528.
Nella sua inescusabile infedeltà religiosa, egli dimostrava però una fedeltà, nella nuova vita a cui si era accinto, tutta sua, all'ideale umano dell'amore che genera la famiglia. Non era, neppure in quel suo tardo ritiro padovano, un solitario sacerdote delle Muse. Una nuova fiducia e forza lo animava ora al lavoro con una intensità e urgenza quali non aveva dimostrate mai in giovinezza. Nell'estate del 1524 l'opera interrotta più di dieci anni prima, ma alla quale è da credere avesse pur di quando in quando atteso a Roma, era compiuta. Nel pieno del lavoro lo richiamò coi pensiero a Roma, e alle sue speranze e ambizioni deluse, la notizia della elezione di Clemente VII, già cardinale Giulio de' Medici. A lui il B. pensò di dedicare le sue Prose della volgar lingua, e pertanto, finita l'opera, nell'ottobre del 1524 si recò a Roma per offrirla di persona al papa. Insieme volle ingraziarsi il datario del nuovo papa, Giovan Matteo Giberti, giusto allora nominato vescovo di Verona, e gli dedicò un poemetto latino, Benacus, il suo più lungo, se anche non felice, esperimento in tal genere di poesia. Probabilmente, nel fervore del suo lavoro, egli pensò allora che quella grandezza mondana che gli era sfuggita durante il suo servizio in Curia, potesse venirgli miracolosamente, come riconoscimento e compenso della sua eccellenza letteraria. Il Benacus fu subito stampato a Roma nel 1524. Tornato da Roma a Padova nell'aprile del 1525, il B. decise di stampare anche le Prose della volgar lingua.
L'edizione, curata dal fedele Cola Bruno, uscì a Venezia nel settembre. Benché fino all'ultimo il B. avesse nei particolari perfezionato il testo, questo sì presentò ai lettori come se fosse stato scritto interamente dieci anni prima. Solo nel titolo, al nome del dedicatario, cardinale de' Medici, seguiva l'avvertenza: "che poi è stato creato a sommo pontefice et detto Papa Clemente settimo". Con questa finzione il B. intendeva rivendicare la priorità dell'opera propria nei confronti delle in parte analoghe Regole della volgar lingua pubblicate nel 1516 da G. F. Fortunio, il cui nome non era naturalmente mai ricordato nelle Prose della volgar lingua. La finzione, anche se.giustificabile, non era, appunto perché interessata, né generosa né onesta. Così anche bisogna rilevare nel primo libro dell'opera del B. un compiacimento soverchio nella distruzione polemica della dottrina linguistica di un altro emulo, Vincenzo Calmeta, anche lui, come il Fortunio, frattanto morto, senza neppure aver potuto pubblicare l'opera sua sulla lingua volgare, ch'è infatti oggi perduta. Sono tratti di meschina rivalsa che nell'opera del B. rappresentano il rovescio scabro, forse inevitabile, di una decisiva vittoria.
Le Prose della volgar lingua ebbero un immediato, grande successo, documentato dalle ristampe e successive edizioni, dalla vivace reazione polemica del Castiglione nel Cortegiano e poco più tardi di alcuni scrittori fiorentini, come G. B. Gelli, dal pronto uso che per contro l'Ariosto ne fece correggendo il suo poema, e dalla assoluta prevalenza dei consensi sui dissensi, specie fra i giovani, anche fiorentini e toscani, che seppure non in tutto potessero accordarsi col B., certo dimostrarono nei decenni successivi di volere una letteratura sostanzialmente conforme nella lingua e nello stile alla dottrina da lui sostenuta. L'indugio nella pubblicazione giovò al successo delle Prose: perché le questioni che nell'opera erano discusse, della scelta letteraria fra latino e volgare, delle origini, storia e natura propria del volgare, del rapporto fra contenuto e forma e degli elementi costitutivi della forma, della imitazione e quale fosse nella poesia volgare l'ottimo modello, Dante o il Petrarca, finalmente della grammatica e del lessico, tutte erano questioni insolute ancora, ma tutte assai più vicine a una soluzione, e proprio alla soluzione voluta dal B., di quanto fossero dieci anni prima. Il successo delle Prose della volgar lingua fu dovuto a un eccezionale rigore del giudizio letterario e a una eccezionale delicatezza e sottigliezza dell'analisi formale; in più a una conoscenza dell'antica lingua e letteratura toscana, in sé e nei suoi rapporti, fino allora appena intravisti da pochi, con la lingua e la poesia provenzale, che non avevano avuto mai prima, e non avevano allora l'eguale.
Contemporaneamente alle Prose, a Bologna nell'agosto del 1525, uscì, con prefazione scritta dal B. ma firmata da un giovane amico suo, il più devoto amico per il resto della vita e oltre, Carlo Gualteruzzi, la prima edizione del Novellino, cioè la prima edizione critica di un testo antico di prosa toscana. E certo dipendono in buona parte dal successo delle Prose, anche a Firenze, dove la reazione ad esse era più viva, le edizioni giuntine del Decameron e dei Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, entrambe apparse nel 1527. Il B. stesso non diede invece seguito al proposito, difficilmente realizzabile allora, ma pur da lui vagheggiato, di pubblicare una raccolta di antiche poesie provenzali. Né, dopo la pubblicazione del Novellino, risulta che egli abbia mai cooperato a promuovere quella filologia volgare che con le sue edizioni del Petrarca e di Dante e poi con le Prose aveva di fatto instaurata.
In realtà sempre aveva mirato, e più che mai ora mirava ad altro: a una nuova letteratura. Dal 1525 al 1530 il B. lavorò intensamente all'impresa di una nuova letteratura e di una nuova società letteraria in Italia. Per questa società non soltanto si valse di una corrispondenza sempre più fitta con gli amici lontani, ma anche, vivendo a Padova o a breve distanza nella sua villa, riuscì a raccogliere e stringere a sé i giovani di maggior ingegno che da ogni parte confluivano a quella università. Così, oltre ai Veneziani che più gli furono fedeli, conobbero il B. e ne subirono l'influsso, via via, Bernardo Tasso, Giovanni Guidiccioni, Giovanni Della Casa, Benedetto Varchi. L'influsso dei B. su questi giovani non sarebbe stato così forte se essi non avessero riconosciuto in lui, nella sua tarda maturità e vecchiezza, una giovanile energia.
Subito dopo la pubblicazione delle Prose, egli si applicò a una rielaborazione formale, e in qualche punto sostanziale, degli Asolani. Anche riprese con lena crescente la composizione di rime col proposito, che nell'estate del 1528 risulta documentato, di pubblicarne una raccolta organica. Né, per quell'equilibrio che sempre aveva cercato di mantenere nell'uso dell'una e dell'altra lingua, trascurò le sue prose latine. Erano queste, come del resto la maggior parte delle rime, e naturalmente gli Asolani, composizioni di anni ormai lontani. Ma il tutto era rimesso a fuoco e suggellato da una volontà costruttiva e definitoria nuova. Anche la fortuna gli era favorevole. Benché nel 1526 gli fosse mancato il fratello Bartolomeo, lasciandogli il carico di un indocile nipote, Carlo, e benché nel 1527-28 una questione di benefici ecclesiastici lo inducesse a una aspra e scomoda rottura col Giberti, dedicatario del Benacus, e con la potente famiglia dei Pio, la sua vita si sviluppò nel complesso, dal 1525 al 1529, senza nubi che turbassero il suo lavoro. Né gli mancò, durante la crisi del sacco di Roma, che fra l'altro segnava la rovina della politica dei Giberti, la controprova di quanto fosse stato tempestivo il suo ritiro dal servizio di Curia nel sicuro ozio di Padova.
Nel dicembre del 1529, per il convegno a Bologna di Clemente VII e Carlo V e per le feste dell'incoronazione imperiale, anche il B. si recò a Bologna dove aveva il maggiore dei suoi benefici ecclesiastici e ivi si trattenne circa due mesi, gustando, in quel convegno anche di uomini di lettere d'ognà parte d'Italia, fra vecchi e nuovi amici, la gloria di una sorta di presidenza che tutti ormai gli riconoscevano sulla cultura italiana. Tornato a Padova alla fine di gennaio, subito provvide alla stampa delle opere, volgari e latine, cui aveva dato l'ultima mano nel 1529. Nel marzo 1530 uscirono così a Venezia le seconda edizione degli Asolani, la prima delle Rime, e la prima delle sue prose latine insieme raccolte, cioè i già editi De Aetna e De Imitatione (questo però apparso, probabilmente già nel 1514, in edizione non autentica) e i due inediti dialoghi De Virgilii Culice et Terentiifabulis e De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzaga Urbini ducibus. Era, in aggiunta alle Prose della volgar lingua, la resa dei conti che, ormai sessantenne, egli faceva della sua attività di scrittore, tenendo fede al passato, anche al più remoto agli studi, agli amici, agli amori della giovinezza, ma insieme, dal culmine cui era giunto dell'autorità e della fama, guardando con orgogliosa fiducia alla posterità.
Fra le opere edite dal B. nel 1530 il maggior successo toccò alle Rime. Benché la moda del petrarchismo lirico fosse ormai largamente diffusa, ancora non era uscito a stampa un esemplare autorevole dei nuovo stile in forma così rigorosa e compiuta. La coincidente pubblicazione dei Sonetti e Canzoni del Sannazaro (Roma e Napoli 1530; di poco anteriore un'edizione abusiva delle sue Rime) e l'immediato consenso al nuovo stile rappresentato dal primo libro degli Amori di B. Tasso (Venezia 1531), e in parte dalle Opere Toscane di L. Alamanni (Firenze 1532), fanno che il 1530 segni quasi la data di nascita del petrarchismo lirico italiano. Con ciò anche si spiega che, mentre per tutto il resto l'opera in prosa volgare del B. non subì più, da come era apparsa nel 1525 e nel 1530, sostanziali mutamenti, egli invece continuò nel decennio successivo i suoi esperimenti sulla via dell'esercizio lirico, del sonetto in specie, aumentando e rivedendo fino all'ultimo la raccolta delle Rime.
Nel 1530 una impreveduta e importante svolta della sua attività letteraria fu provocata dalla nomina di lui a storiografo e bibliotecario della Repubblica di Venezia. Era il riconoscimento che la patria faceva della sua eccellenza: riconoscimento tanto più significativo, quando si tenga conto della incompatibilità, che in passato egli aveva sofferto e ostentato, dei suoi ideali e gusti con quelli prevalenti a Venezia. La responsabilità della biblioteca gli fu in gran parte alleviata da un amico di vecchia data, G. B. Ramusio. Ma tutta sua fu la responsabilità di scrivere in un latino, che non poteva più essere quello delle sue lettere o prose retoriche, una storia contemporanea (dal 1487, dove si era arrestato il Sabellico) di Venezia, una storia cioè di cui vivi ancora o da poco scomparsi, e tutti famigliari al B., erano gli attori.
Era a priori improbabile che, cominciando a sessant'anni, dopo aver dato il meglio di sé in opere di altro argomento e stile, e dopo aver cercato anzi in esse opere una evasione dalla presa degli eventi storici, il B. potesse rivolgersi indietro a tali eventi con la passione e la forza del grande storico. Infatti non poté. Ma anche era improbabile che reggesse in qualunque modo alla fatica e difficoltà del compito. Resse invece, agevolato sì per la materia dai mirabili Diarii di Marin Sanuto, che l'autore per ordine della Signoria dovette via via prestargli, ma per il resto lavorando fino ai più tardi anni con una tenacia e una cura dell'arte, che bastano da sole a far prova della sua statura intellettuale e morale. Né gli mancarono distrazioni e impedimenti nel corso del lavoro. Già, proprio nel 1530, nel colmo della buona fortuna e del successo, due incidenti premonitori gli erano occorsi. In casa, un oscuro attentato alla sua vita, col veleno, o sospettato che fosse o vero, da parte del nipote Carlo. Fuori, ma vicino, fra Venezia e Padova, una piccola rivolta contro la sua dittatura letteraria da parte di un gruppo di giovani, che pure erano legati a lui, capeggiato con sfortunato ardimento da Antonio Broccardo. Il B. si guardò bene dal difendersi apertamente. Battagliarono per lui gli amici, e subito intervenne a sua difesa, cioè a difesa dei più forte, Pietro Aretino. Immaturamente il Broccardo morì nel 1531.
Più gravi furono i lutti che in breve e senza riparo gli dimezzarono quella sua famiglia irregolare, per ciò stesso forse più gelosamente sua. Nell'agosto 1532 gli morì il primogenito, Lucilio; il 6 ag. 1535 la sua compaga a, Morosina. A questi lutti resse per una indomita vitalità e coscienza di sé. Già nel 1532, quando gli morì Lucilio, stava pensando a una nuova edizione delle sue Rime. Ritornò a quel proposito l'anno dopo, ma solo nell'aprile 1535 l'edizione uscì a Venezia con ventiquattro componimenti nuovi e correzioni frequentissime a quelli già editi nel 1530. Il ritardo non fu dovuto soltanto alla composizione nel frattempo iniziata della sua storia di Venezia. Questa certo gli impose una preoccupazione nuova dello stile latino: un ritorno insomma al suo decennio romano di segretario e scrittore latino dei brevi. Nel 1534 a Clemente VII, dal quale nulla più poteva aspettarsi, successe Paolo III. Il B. colse l'occasione e apprestò, dedicandola al nuovo pontefice, la prima edizione dei suoi brevi scritti a nome di Leone X, documento dei suo servizio in Curia, e modello dello stile ciceroniano. L'edizione apparve a Venezia nel giugno del 1536. Voleva certo essere, una volta ancora, come nel 1513 col De Imitatione, nel 1524 senza successo con le Prose della volgar lingua, un appuntamento col destino, per una ambizione attraverso tanti anni e vicende implacata.
Sulla fine del 1536, direttamente e indirettamente (anche questa volta servendosi per soprappiù dell'Aretino), il B. rispose a un attacco mosso allo stile dei suoi brevi da un umanista di Curia, Ubaldino Bandinelli, e riuscì presto a soffocare il rumore inopportuno della polemica. Anche riuscì, durante lo stesso anno 1536, servendosi dell'amico Carlo Gualteruzzi, attivissimo in Curia, a stringere rapporti con il giovane card. Alessandro Farnese, nipote di Paolo III. Ripeteva così, vecchio, il gioco con cui trent'anni prima, assicurandosi l'appoggio di un giovane cardinale, nipote di Giulio II, si era primamente aperto la via agli onori ecclesiastici. Ora, la meta per lui suprema del cardinalato era vicina, per motivi imprevedibili e indipendenti da lui, ma che in parte coincidevano con i motivi essenziali della sua vita di uomo di lettere. Entravano in quegli anni nel collegio cardinalizio di Paolo III uomini di alta cultura che a Roma, a Venezia, a Padova erano stati vicinissimi al B.: il Contarini, il Pole, il Sadoleto. Tuttavia sul suo nome non poteva esserci pieno accordo. Non solo per le riserve morali che non potevano mancare sul suo passato, ma per il carattere stesso fondamentalmente profano e laico dell'opera sua letteraria. Non era uomo che desse affidamento per la riforma che urgeva della Chiesa, né, contro i rischi della riforma., per una disciplinata difesa della tradizione curiale. Ma l'uomo era pur tale, per sé e per la sua fama, che la questione del suo nome doveva in definitiva porsi. ed essere risolta in termini generali: se cioè la riforma e la conservazione insieme della Chiesa potessero essere assicurate senza il concorso di quella cultura umanistica e italiana, di cui, in Italia e in Europa, il B. era il più tipico rappresentante ("doctrina et eloquentia nostrae aetatis facile princeps", secondo la giustificazione ufficiale della nomina cardinalizia). Eletto, ma riservato in pectore il 20 dic. 1538, il B. fu proclamato cardinale il 19 marzo 1539.
È caratteristico dell'uomo il fatto che in questa lunga e febbrile vicenda durata circa tre anni, pur sapendo quali ostacoli incontrasse la sua nomina e pur facendo ogni sforzo per superarli, egli non rinnegasse però mai la sua vocazione letteraria e continuasse imperturbabile per la via fino allora seguita. Non solo infatti continuò a lavorare alla sua storia, che era lavoro non incriminabile, ma anche rivide, correggendo in più punti, il testo delle Prose della volgar lingua, per una seconda edizione, solo prudentemente badando che in questa, apparsa a Venezia nel luglio del 1538, nessun vanto, al di là del titolo di "edition seconda", apparisse delle novità introdotte nel testo. E anche dopo la morte della sua Morosina, che in certo modo veniva a liberarlo, per un eventuale cardinalato, se non dalle colpe del passato, da quelle del presente, egli non rinunciò a commemorare in rime quel suo amoroso passato; ancora nel 1539 la nomina cardinalizia gli giunse mentre stava componendo una canzone per la morte di lei, canzone finita segretamente, ma non troppo, nell'estate di quell'anno. E soltanto la nomina gli consigliò di interrompere e differire il disegno di una terza, riveduta e aumentata, edizione delle sue rime, che aveva apprestato nel 1538. Perché pur dopo la morte della Morosina, pur vicino ai settant'anni e al cardinalato, come non aveva perso il gusto delle cose belle, così, inverando la dottrina attribuitagli dal Castiglione (Cortegiano, IV, 54) "che i vecchi amar possano senza biasimo e più felicemente che i giovani", ancora era disposto all'incanto di un amore di donna. Questa ultima consolatrice e compagna dei suoi pensieri, e ispiratrice dei suoi ultimi sonetti amorosi, dal 1537 innanzi, fu la gentildonna veneziana Elisabetta Massolo, nata Querini, sorella di Girolamo Querini, uno degli amici migliori, in questi anni, e poi esecutore testamentario, del B., cantata, oltre che dal B., da Giovanni Della Casa e ritratta da Tiziano.
Il B. si trasferì a Roma nell'ottobre del 1539, lasciando a custodia dei figli e della casa di Padova il fedele Cola Bruno. A Roma, il 10 novembre, ebbe il titolo di cardinale diacono di S. Ciriaco in Thermis e poco dopo, nel dicembre, fu consacrato sacerdote. Si trovò così in Curia negli anni decisivi che precedettero l'apertura del concilio di Trento, e benché la sua parte non potesse essere di primo piano in una vicenda cui non era preparato e accanto a uomini che per quella vicenda erano vissuti e vivevano interamente, ebbe tuttavia una parte non trascurabile, così per il suo equilibrio come per la confidenza che in lui avevano molti, vecchi e giovani amici, in specie quelli che più avevano bisogno di freno, nell'ala estrema del partito riformatore. Notevoli furono, prima e dopo il cardinalato, i suoi rapporti col Pole e con Vittoria Colonna. Notevoli anche quelli col Vergerio, prima che questi passasse al campo protestante, e con altri attori e vittime della crisi religiosa: Alvise Priuli, il Carnesecchi, M. A. Flaminio, Vettor Soranzo, Basilio Zanchi, ecc. La sua ortodossia non fu certo mai in dubbio: egli era uomo anteriore a ogni riforma religiosa, fosse quella dei suoi amici veneziani della giovinezza, V. Querini e T. Giustinian, o quella di Erasmo o, a maggior ragione, quella di Lutero; era uomo per cui il cardinalato, in una chiesa visibile che fosse all'avanguardia della cultura umanistica e umana, valeva bene una messa. E disse, per la prima volta a settant'anni, messa, e il 29 luglio 1541, alla morte del suo amico Federico Fregoso, assunse, succedendo a lui, il titolo di vescovo di Gubbio, restando però in Curia, dove, il 15 febbr. 1542, prese il titolo cardinalizio di S. Crisogono.
Nel maggio del 1542 gli morì l'amico umile e fedele di tutta la vita, Cola Bruno. Lì per lì potè provvedere alla sua famiglia e casa di Padova, servendosi di un altro suo famigliare, Flaminio Tomarozzo. Ma, anche per il passare del tempo, le sue preoccupazioni per l'avvenire dei figli si fecero maggiori. All'educazione e sistemazione del figlio, naturalmente avviato, data la sua nascita illegittima, a una carriera ecclesiastica, aveva provveduto. Doveva provvedere alla figlia, Elena, che nel 1543 andò sposa di un gentiluomo veneziano, di buona educazione letteraria e buon ingegno, Pietro Gradenigo. Per questo nell'estate del 1543, il B., che aveva seguito Paolo III a Bologna per il convegno con l'imperatore, ottenne di andare, per l'ultima volta, a Venezia e Padova, e vi si trattenne fino al mese di ottobre. Dopo di che ottenne, a compenso dei sacrifici finanziari sopportati per le nozze della figlia, di stabilirsi nella sua diocesi di Gubbio, sede meno dispendiosa di Roma. Così nel novembre si ritrovò a vivere in quella terra umbra, inclusa nel ducato di Urbino, dove tanti anni prima aveva trovato ospitalità e ispirazione agli studi.
Trascorse a Gubbio l'inverno, e furono mesi di intenso lavoro. Ivi pose termine alla sua storia di Venezia, conducendola fino all'elezione di Leone X e di lui B. a segretario del papa. Egli sapeva di non poter pubblicare questa, né, per rispetto alla dignità cardinalizia, altra sua opera in vita. Ma sempre aveva guardato e tuttavia guardava con umanistica baldanza al di là del cardinalato e della vita, alla posterità. A Gubbio, come aveva già fatto a Roma, e ancora prima, a Padova, e avrebbe fatto anche dopo, fino all'ultimo, egli lavorò a perfezionare il corpus delle sue opere latine e volgari, in parte inedite, che intendeva lasciare pronto per una stampa postuma.
Il 3 febbr. 1544 il B. venne trasferito dal vescovato di Gubbio a quello, assai più importante, di Bergamo, e richiamato dal pontefice dovette, nel marzo, tornare a Roma. A Bergamo, non potendo egli provvedere di persona, ottenne il 18 luglio del 1544 di poter mandare, come suo coadiutore, Vettor Soranzo. Il 17 ottobre assunse il titolo cardinalizio di S. Clemente. Par bene che in poco più di due anni, a Roma, compisse l'impresa di volgarizzare lui stesso la sua storia di Venezia, senza l'aiuto, cui dapprima aveva pensato, dell'amico Gualteruzzi. Certo non risulta che desse alcun segno di stanchezza e di declino intellettuale fino all'ultima malattia che lo prostrò nel gennaio del 1547.
L'ultimo suo sonetto, dedicato a Giovanni Della Casa, fu composto nell'agosto del 1546. Nell'ultimo verso, di sé e dell'amico diceva, riflettendo al passato di entrambi: "qual può coppia sperar destin più degno?". Si aggravò pericolosamente a metà gennaio. Il 16 ottenne dal papa che Vettor Soranzo gli succedesse nel vescovato di Bergamo. Il 17 sera venne a rendergli l'ultima visita di conforto un collega non italiano ma educato in Italia a una superiore pietà umanistica e cristiana, Reginaldo Pole. Il B. morì il 18 genn. 1547 a Campo Marzio, in un palazzo ancora esistente (allora del marchese Baldassini) e fu sepolto il 19 nella chiesa di S. Maria sopra Minerva. Ivi la sua tomba sta, nel coro, fra quelle dei due papi medicei, Leone X e Clemente VII. Nella sua Padova, nella chiesa del Santo, fu collocato un suo busto. A Padova stessa fu commemorato con una orazione da Sperone Speroni; a Firenze con una di Benedetto Varchi, pubblicata ivi l'anno stesso. A Venezia nel 1548 apparve, a cura di un vecchio amico e segretario del B., Agostino Beaziano, una raccolta di Lachrymae infunere P. Bembi. Era compreso in essa l'epitafio composto da Iacopo Sadoleto, anche lui nel frattempo scomparso, nove mesi esatti dopo il Bembo. Apparvero sempre nel 1548 a Venezia In P. Bembi mortem eclogae tres incerti auctoris (di Paolo Ramusio). Due, variamente notevoli, biografie di lui scrissero Giovanni Della Casa in latino e Ludovico Beccadelli in volgare.
Dei due esecutori testamentari del B., Girolamo Querini a Venezia e Carlo Gualteruzzi a Roma, il secondo subito diede mano a una edizione definitiva delle opere edite e inedite. Tre volumi uscirono a Roma già nel 1548: il De Urbini ducibus e le Rime, opere già edite, e il primo libro delle Lettere volgari, che conteneva soltanto lettere indirizzate a ecclesiastici. Per il seguito dell'edizione, in specie per la storia di Venezia, opera composta dal B. per incarico ufficiale, il Gualteruzzi incontrò difficoltà insormontabili. In via di compromesso fece uscire nel 1549 a Firenze, anziché a Roma, l'edizione delle Prose della volgar lingua. Ma a favore dell'esecutore testamentario veneziano e contro il Gualteruzzi intervenne in modo perentorio la Signoria di Venezia. Così il seguito dell'edizione, comprendente gli altri tre libri delle Lettere, la Historia Veneta nel testo latino e in quello volgare, gli Asolani, le Epistulae familiares e il Carminum libellus, fu pubblicato a Venezia fra il 1550 e il 1553. Più tardi, nel 1560 e nel 1564, sempre a Venezia, Francesco Sansovino pubblicò due volumetti di lettere indirizzate da vari al B. e di lettere da questo inviate al nipote Giovari Matteo.
La casa del B. a Padova, dove egli aveva raccolto una biblioteca e un museo eccezionalmente ricchi, rimase in proprietà del figlio, Torquato. La dispersione dei pezzi più importanti, specie della biblioteca, cominciò già durante la vita di Torquato, e diventò poi precipitosa e totale dopo la sua morte (1° marzo 1595). Fortunatamente, oltre a quel che il Gualteruzzi conservò per sé, di libri e carte che il B. aveva a Roma nel momento della morte, materiale in parte poi e in vario modo finito nell'Archivio e nella Biblioteca Vaticana, due grossi nuclei della biblioteca del B. furono acquistati da Fulvio Orsini e da G. V. Pinelli e pertanto finirono con le loro raccolte rispettivamente nella Biblioteca Vaticana e a Milano nella Biblioteca Ambrosiana. Un terzo pur notevole nucleo acquistato nel 1617-20 dall'ambasciatore inglese Sir H. Wotton finì in Inghilterra nella biblioteca di Eton College. Parecchio rimase, e qualche cosa rimane, a Venezia. Ma data la originale ricchezza della biblioteca e data la fama del B., la dispersione dei suoi libri e carte fu amplissima (preziosi mss. sono oggi a Vienna, Parigi, Londra, Oxford, ecc.). Una ricostruzione storica del suo museo non è stata neppur tentata. Testimonianze contemporanee assicurano che la villa del B. nei dintorni di Padova era insigne anche per il suo giardino e orto botanico. La passione per gli alberi era già stata dei padre, come risulta dal De Aetna.
Per tutto il Cinquecento la fama del B. non venne meno. Le resistenze più forti si ebbero nella prima metà del secolo a Firenze e culminarono nei Capricci del Gelli (1546), ma a poco a poco nella seconda metà furono, a Firenze stessa, arginate e travolte: Borghini e Salviati e l'Accademia della Crusca chiusero il dibattito a favore del Bembo. Questo successo dipese in parte dal fatto che l'attacco più aspro fu mosso alla fama e alla dottrina linguistica dei B. da L. Castelvetro (Giunta al ragionamento degli articoli e de' verbi di M. P. Bembo, Modena 1563), il maggiore, ma anche il più isolato e odiato critico di quella età.
In tutta Italia, come ben si vede nell'opera di T. Tasso, le inevitabili, crescenti riserve, specie sulla esilità del petrarchismo lirico del B., continuarono a essere subordinate all'ossequio e al riconoscimento della parte fondamentale che egli aveva avuto nell'instaurazione di una nuova lingua e letteratura propriamente italiana. Fuori d'Italia le riserve si appuntarono sulla esilità del ciceronianismo latino del Bembo. Ma un grande francese, Montaigne, in tre sole parole espresse il proprio fastidio per il controllo rigido, linguistico e retorico, che il B. aveva imposto, così nel latino come nel volgare, all'invenzione letteraria: "Laissons là Bembo". Nel Seicento la rottura dei mito si disegnò chiara anche in Italia. Di una canzone del B. il Tassoni scriveva senza complimenti che si poteva "chiamar la bandiera del sarto del Piovano Arlotto, fatta di pezze rubate".
Fra Sei e Settecento, nella prima Arcadia, la ricostituzione polemica, antibarocca e antifrancese, del mito rinascimentale, giocò di nuovo per breve tempo a favore del Bembo. Ma era per l'appunto un mito, cui sottostava, giustificandolo in parte, l'esigenza nuova di sostituire a una precettistica linguistica e letteraria una documentata storia dell'Italia e della letteratura italiana. Nel quadro di questa storia, la grande erudizione italiana del Settecento, da Apostolo Zeno a Iacopo Morelli, stabili con edizioni e commenti le basi ancora oggi valide per lo studio del Bembo. La stroncatura che il Baretti fece, nella Frusta letteraria, delle Rime del B. servì a dimostrare che il mito cinquecentesco ormai era insostenibile e inutile. Altri miti sorgevano incompatibili con una intelligenza storica del Cinquecento italiano in genere, e del B. in specie. Di essi fu piena la cultura italiana per un secolo circa. E poiché non si dà ricerca storica né filologia senza un mito che la stimoli e guidi, anche la tradizione settecentesca di studi sul B. si esaurì nel primo Ottocento, e diede il passo ai giudizi sommari di una storiografia romantica e nazionalistica che era, sull'argomento specifico, non soltanto mal disposta, ma affatto incompetente. Nella seconda metà dell'Ottocento, la lenta reazione che dal Carducci in poi consunse al fuoco della ricerca storica i rrùti dell'età romantica, valse a riavvicinare la vita e l'opeta del Bembo. Una svolta decisiva fu segnata nel 1885 dalla tesi di V. Cian. Da allora l'interesse storico è venuto sempre più accordandosi con l'elaborazione nel Novecento di una mitologia letteraria, che, rifiutando ogni precettistica del passato, sembra però pronta a riconoscere nel passato, e nel petrarchismo cinquecentesco in specie, al di là di ogni facile contenutismo, la validità di una rigorosa lezione tecnica di lingua e di stile.
Iconografia. - Suggestiva ma ipotetica l'identificazione col B. giovane di un ritratto di G. Bellini a Hampton Court. Unico ritratto certo del B. maturo la medaglia di Valerio Belli. Parecchi i ritratti del B. vecchio e già cardinale: il quadro di Tiziano, già della collezione Barberini e ora a Washington, e le varianti dello stesso (la più vicina, a Napoli); la medaglia attribuita a Cellini, e le varianti,, dipinte e incise, della stessa; la medaglia attribuita a Tommaso Perugino (British Museum); il ritratto della collezione del Giovio agli Uffizi; il busto di Danese Cattaneo a Padova.
Opere: Opere del card. P. B. ora per la prima volta tutte in un corpo unite, Venezia 1729, in 4 volumi. Unica e in complesso ottima edizione. Il primo vol. comprende la Storia veneta, latina e volgare; il secondo Prose della volgar lingua, Asolani e Rime; il terzo le Lettere volgari; il quarto le epistole, i dialoghi latini e i carmi Opere, Milano 1808-10, in 12 volumi (I: Asolani, II: Rime, III-IV: Storia veneta, V-IX: Lettere, X-XII: Prose della volgar lingua). Si avvantaggia sulla precedente per la Storia veneta volgare, per cui riproduce il testo del Morelli, ma per tutto il resto ne dipende, e non contiene le opere latine.
Prose e Rime, ed. Dionisotti, Torino 1960. Contiene: Prose della volgar lingua, Asolani e Rime.
Opere in volgare, ed. Marti, Firenze 1961. Contiene: Asolani, Lettere giovanili, Prose della volgar lingua, Rime, Proposta alla Signoria di Vinegia, Lettere scelte. Cfr. su queste edizioni la recens. di G. Ghinassi in Lingua nostra, XXIII (1962), pp. 61-64, e la Rassegna bembiana di M. Pecoraro, in Lettere italiane, XV (1963), pp. 446-484.
De Aetna: I ed., Venezia 1495-96 (Gesamtkatal 09 3810); 2 ed., Venezia 1530: cfr. M. Naselli, L'eruzione etnea descritta dal B., in Arch. stor. per la Sicilia orientale, XXX (1934), pp. 116-23; C. F. Buehler, Manuscript corrections in the Aldine edition of B.'s De Aetna, in Papers of the Bibliographical Society of America, XLV (1951), pp. 136-42.
Asolani: 1 ed., Venezia 1505; 2 ed., Venezia 1530; 3 ed., Venezia 1553. Tutte e tre più volte ristampate. Per l'interpretazione: L. Savino, Di alcuni trattati e trattatisti d'amore italiani della prima metà del secolo XVI, I, Gli "Asolani" di P. B., in Studi dì letteratura ital., IX (1909), pp. 233-333; M. Tamburini, La gioventù di M. P. B. e il suo dialogo "Gli Asolani", Trieste 1914; H. Rabow, Die "Asolanischen Gespráche" des P. B., Bern-Leipzig 1933; D. Pierantozzi, Il Petrarca e gli "Asolani", in Giorn. ital. di filologia, VI (1953), pp. 134-43; W. T. Elwert, Studi di letteratura veneziana, Venezia-Roma 1958, pp. 124-45; gli studi più innanzi citati per le Rime e in genere le storie del pensiero, e della tradizione neoplatonica in specie, del Rinascimento.
Prose della volgar lingua: 1 ed., Venezia 1525; 2 ed., Venezia 1538; 3 ed., Firenze 1549; tutt'e tre più volte ristampate; ed. Dionisotti, Torino 1931; ed. Marti, Padova 1955; 2 ed. Dionisotti, Torino 1960. Per l'interpretazione cfr. M. Sansone, Studi di storia letteraria, Bari 1950, pp. 5-54, e le storie generali della lingua italiana e della precettistica e critica letteraria, da C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908, pp. 75-82, e dello stesso La critica letteraria, Milano 1915, pp. 74-80, ad A. Buck, Italienische Dichtungslehren von Mittelalter bis zum Ausgang der Renaissance, Tübingen 1952, pp. 119-29; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze 1953, pp. 83 ss.; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, pp. 340 s., 360 s.; M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, pp. 33-36; B. Weinberg, A History of Literary Criticism, Chicago 1951, ad Indicem. Cfr. anche gli studi sulla lingua e la questione della lingua nel Cinquecento: C. Segre, Edonismo linguistico nel Cinquecento, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXX (1953), pp. 145-77 (ed ora in Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 355 ss.); B. T. Sozzi, Aspetti e momenti della questione linguistica, Padova 1955, passim; G. De Blasi nella miscellanea Letteratura italiana (Le correnti), Milano 1956, pp. 305-15; U. Pirotti, Benedetto Varchi e la questione della lingua, in Convivium, XXVIII (1960), pp. 524-52, dove è (pp. 545-47) un'ottima esemplificazione dei gusti linguistici del Bembo. Cfr. anche gli studi più oltre citati per il De imitatione del Bembo. Per le fonti grammaticali classiche dell'opera cfr. G. Pettenati, Il B. sul valore delle "lettere" e Dionisio d'Alicarnasso, in Studi di filologia ital., XVIII (1960), pp. 69-77.
Per i rapporti coi precedenti grammatici italiani, cfr. V. Cian, Le "regole della lingua fiorentina" e le prose bembiane, in Giorn. stor. d. letter. ital., LIV (1909), pp. 120-30, e C. Dionisotti, Ancora del Fortunio, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXI (1938), pp. 240-54. Per il contrasto fra latino e volgare cfr. V. Cian, Contro il volgare, in Studi letterari e linguistici dedicati a P. Rajna, Firenze 1911, pp. 251-97, e C. Grayson, A Renaissance controversy: Latin or Italian?, Oxford 1960. Per la polemica contro il Calmeta e la dottrina della lingua cortigiana, cfr. V. Calmeta, Prose e lettere, ed. Grayson, Bologna 1959, e P. V. Mengaldo, Appunti su Vincenzo Calmeta e la teoria cortigiana, in La rass. della letter. ital., LXIV (1960), pp. 446-69. Per Dante cfr. M. Barbi, Della fortuna di Dante nel sec. XVI, Pisa 1890; l'ed. Rajna del De vulgari eloquentia, Firenze 1896, pp. XLVI s.; V. Cian, Il B., il Dolce e il Gelli, in Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 34-41; G. G. Ferrero, Dante e i grammatici dalla prima metà del Cinquecento, in Giorn. stor. d. letter. ital., CV (1935), pp. 1-15. Per il Petrarca, e anzitutto per i mss. petrarcheschi posseduti dal B. e per l'ed. aldina dei 1501 da lui curata, cfr. G. Salvo-Cozzo, Le "rime sparse" e il trionfo dell'eternità di Francesco Petrarca nei codici vaticani latini 3195 e 3196, in Giorn. stor. d. letter. ital., XXX (1897), pp. 375-80, e ibid., XLV (1905), pp. 366-68 (recens. a N. Quarta, Studi sul testo delle rime del Petrarca); M. Vattasso, I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana, Roma 19o8, pp. 11, 14, 15, 23, 29, 31; G. Folena, Filologia testuale e storia linguistica, nella misc. Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 21-23. Per le postille attribuite al B. (di uno a lui vicino, ma non sue, e tanto meno autografe) in una stampa, Venezia 1521, delle Rime del Petrarca posseduta dal Museo Civico di Padova, cfr. V. Cian, P. B. Postillatore del Canzoniere petrarchesco, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCVIII (1931), pp. 255-90; XCIX (1932), pp. 225-64; C (1932), pp. 209-66. Per gli studi del B. su antiche rime e i mss. da lui posseduti cfr. M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze 1915, pp. 18I-206; G. Bertoni, Il B. e il codice di rime antiche V2, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCIX (1932), pp. 191-93.
Per il Novellino cfr. V. Cian, recens. al Novellino ed. Di Francia, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCVII (1931), pp. 368-70.
Per gli studi e mss. provenzali del B. cfr. S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911, passim, e dello stesso Tre secoli di studi Provenzali, nella miscellanea Provenza e Italia, Firenze 1930; G. Bertoni, Le citazioni provenzali del B. nel Petrarca aldino del 1521, in Giorn. stor. d. letter. ital., C (1932), pp. 263-66; E. Kohler, Le provençalisme de P. B., in Mélanges Hauvette, Paris 1934, pp. 235-58.
Per gli studi spagnoli del B. cfr. P. Raina, I versi spagnuoli di mano di P. B. e di Lucrezia Borgia serbati da un codice ambrosiano, in Homenaje Menéndez Pidal, II, Madrid 1925, pp. 299-321.
Rime - 1 ed., Venezia 1530, preceduta da notevole diffusione manoscritta e da qualche stampa di singoli componimenti; 2 ed., Venezia 1535; 3 ed., Venezia 1548, e con varianti notevoli e un'appendice di rime rifiutate, Roma 1548; numerose ristampe e continuata diffusione manoscritta fra l'una ed. e l'altra e oltre (per le stampe cfr. S. Bongi, Annali di G. Giolito, Roma 1890-95, passim). Ediz. commen. da C. Dionisotti, Torino 1932 e Torino 1960. Alcune rime commentate in Lirici del Cinquecento, ed. Baldacci, Firenze 1957, e in Lirici del Cinquecento, ed. Ponchiroli, Torino 1958. Motti inediti e sconosciuti, ed. Cian, Venezia 1888, sui quali cfr. V. Cian, Pei "Motti" di M. P. B., in Giorn. stor. d. letter. ital., XIII (1889), pp. 445-54, e M. Marti, Un nuovo ms. dei "Motti", ibid., CXXXVI (1959), pp. 83-90.
Per l'interpretazione delle Rime cfr. G. C. Ferrero, Il petrarchismo del B. e le rime di Michelangelo, Torino 1935; L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Milano-Napoli 1957; M. Marti, B. e il petrarchismo italiano nel cinquecento, in Belfagor, XII (1957), pp. 447-53. Cfr. anche L. Caretti, Studi e ricerche di letteratura italiana, Firenze 1951, pp. 101-07. Per il commento seicentesco alle Rime del B. del belga T. Ameyden cfr. C. Dionisotti, recens. a G. Stiénon et M. Szabò, Notice sur Théodore Ameyden, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCV (1930), pp. 170 s.
De Virgilii Culice et Terentii fabulis: 1 ed., Venezia 1530. Cfr. V. Zabughin, Virgilio nel Rinasc. italiano, II, Bologna 1923, pp. 75-77.
De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzaga Urbini ducibus: 1 ed., Venezia 1530; 2 ed., Roma 1548; volgarizzamento di N. Mazzi, Firenze 1555.
De imitatione: 1 ed. s.n.t. (probabilmente Roma 1514); 1 ed. autentica Venezia 1530; ed. critica di G. Santangelo, Le Epistole "De imitatione" di G. Pico della Mirandola e di P. B., Firenze 1954, su cui R. Spongano, recens. in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXI (1954), pp. 427-37. Cfr. H. Gmelin, Das Prinzip der Imitatio, in Romanische Forschungen, XLVI (1932), pp. 173-229; G. Santangelo, Il B. critico e il principio d'imitazione, Firenze 1950; M. Pomilio, Una fonte italiana dal "Ciceronianus" di Erasmo, in Giorn. ital. di filologia, VIII (1955), pp. 193-207; G. De Blasi, nella miscellanea Letteratura italiana (Le Correnti), Milano 1956, pp. 282-84, e gli studi innanzi citati per le Prose.
Epistolarum Leonis X P. M. nomine scriptarum libri XVI: 1 ed., Venezia 1536; 2 ed., Venezia 1552 insieme con Epistolarum Familiarium libri VI. Sulla prima raccolta, dei Brevi a nome di Leone X, cfr. L. Pastor, Storia dei papi, IV, 2, Roma 1939, ad Indicem, e la recens. di V. Cian, in Giorn. stor. d. letter. ital., LII (1908), pp. 433 s.
Lettere: I, Roma 1548; 11, Venezia 1550; questi e altri due volumi, Venezia 1552; Nuove lettere famigliari (al nipote G. M. Bembo), Venezia 1564. Con queste ultime, precedute da un primo volume (rimasto unico) di Lettere a P. Bembo scritte, Venezia 1560, comincia la sovrapposizione all'originaria raccolta, predisposta dall'autore con criterio d'arte, di quanti documenti epistolari ammiratori e studiosi venivano via via ritrovando (per questa distinzione fondamentale cfr. M. Marti, L'epistolario come "genere" e un problema editoriale, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 203-298). Un primo nucleo di lettere aggiunte in Opere, Venezia 1729. Successivamente molte lettere inedite del B. furono sparsamente pubblicate. Manca, né qui può essere data, una bibliografia completa. Basti ricordare le lettere comprese nei Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti di mons. L. Beccadelli, Bologna 1797, e quelle edite da R. De Visiani (Padova 1852), da A. Ronchini in Lettere d'uomini illustri conservate in Parma nel R. Archivio dello Stato (Parma 1853), da A. Sagredo (Venezia 1855), da G. Spezi (Roma 1862), da P. Ferrato (Padova 1875) e da F. Stefani (Venezia 1875). Molte altre lettere inedite furono usufruite o pubblicate dai moderni studiosi del B., in ispecie dal Cian e dal Ferrajoli. Cfr. anche A. Mercati, Minuzie intorno ad una lettera di P. B. (1517), in Riv. di storia della Chiesa in Italia, IX (1955), pp. 92-99; G. E. Ferrari, Per l'Epistolario del B.: il cod. Morelliano Marc. It. X 143, in Lettere ital., VIII (1956), pp. 183-91; e il Carteggio d'amore dei B. e di Maria Savorgnan, Firenze 1950.
P. B. cardinalis Historiae venetae libri XII: 1 ed., Venezia 1551; e il volgarizzamento Della Historia Vinitiana, Venezia 1552; ristampati con note, il primo in Degli istorici delle cose Veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto tomo secondo, Venezia 1718, entrambi in Opere, Venezia 1729. Del volgarizzamento ed. critica di I. Morelli, Venezia 1790, riprodotta in Opere, Milano 1808-10. Cfr. E. Teza, Correzioni alla Istoria veneziana di P. B. proposte dal Consiglio dei Dieci nel 1548, in Annali delle università toscane, XVIII (1888), pp. 75-93; C. Lagomaggiore, L'Istoria Viniziana di M. P. B., Venezia 1905 (estr. dal Nuovo arch. veneto, VII [1904-1905], pp. 5-31, 334-372; VIII [1905-61], pp. 62-180, 317-346; IX [1906-71], pp. 33-111, 308-340), recens. da V. Cian in Giorn. stor. d. letter. ital., XLIX (1907), pp. 408-17, e in Rassegna bibliogr. d. letter. ital., XV (1907), pp. 37-40.
Carmina: un epigramma in Coryciana, Roma 1524, CC. 21v-22r; il Benacus, Roma 1524, e in una ristampa dello stesso, Venezia 1528, anche un inno a S. Stefano; undici carmi, inclusi i precedenti, in Carmina quinque illustrium poetarum, Venezia 1548; prima ed. di un Carminum libellus, Venezia 1553.
Poche, e a volte inedite, aggiunte nelle ed. posteriori: cfr. M. Pecoraro, Per la storia dei carmi del B., Venezia-Roma 1959, recens. da C. Dionisotti in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXVIII (1961), pp. 573-92; per il poemetto Sarca, di improbabile autenticità, ed. da A. Mai in Spicilegium Romanum, VIII (1842), pp. 488-504, cfr. B. Morsolin, Il Sarca, poemetto latino di P. B., in Atti del R. Istit. veneto, s. 6, V (1886-87), pp. 229-265.
Orazione greca inedita in due mss. della Bibl. Ambr. di Milano e del British Museum di Londra (Harl. 5628): cfr. I. Morelli, in Mem. d. I. R. Ist. del Regno Lombardo-Veneto, II(1814-1815, ma Milano 1821), pp. 251-62; e dello stesso Morelli gli appunti in Bibl. Marciana di Venezia, ms. 7123 (Ital. X, 367). Una lettera greca del 10 genn. 1493 a Demetrio Mosco ed. da E. Piccolomini in Archivio stor. ital., s. 5, VI (1890), pp. 307-09; un epigramma greco da V. Cian, Ricordi di storia letteraria siciliana da manoscritti veneti, Messina 1899 (estr. dagli Atti della R. Accademia Peloritana). Inedita (Bibl. Naz. di Firenze, ms. Il, VII, 125) una traduz. latina dell'Elogio di Elena di Gorgia Leontino: cfr. I. Morelli, in Memorie d. I. R. Ist. del Regno Lombardo-Veneto, II, pp. 219-28.
Avertimenti nella Siphili di Hieromino Fracastoro, ed. da F. Pellegrini, in G. Fracastoro, Scritti inediti, Verona 1955, pp. 35-61.
Bibl.: Sempre fondamentali G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 733-69, e V. Cian, Un decennio della vita di M. P. B., Torino 1885. Del Cian anche Un medaglione del Rinascimento: Cola Bruno messinese e le sue relazioni con P. B., Firenze 1901, e i due profili P. B. (quarantun anno dopo), in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXXVIII (1926), pp. 225-55, e Il maggior petrarchista del Cinquecento, P. B., in Annali della Cattedra Petrarchesca, VIII (1938), pp. 1-42. Divulgativa l'unica moderna monografia: M. Santoro, P. B., Napoli 1937, su cui cfr. la recensione di C. Dionisotti in Giorn. stor. d. letter. ital., CX (1937), pp. 324-29. Avviano a uno studio complessivo G. Santangelo, P. B. e la questione della lingua, nella miscellanea Letteratura italiana (I Minori), Milano 1960, I, pp. 803-40, e l'introduz. di C. Dionisotti in P. B., Prose e Rime, Torino 1960. Cfr. anche le storie generali della letteratura italiana, da quella del Gaspary a quella del Flora, le storie particolari della letteratura del Cinquecento, in specie quella del Toffanin, Il Cinquecento, Milano 1950, pp. 82-103, e i saggi di B. Croce, Poeti e scrittori del Pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 53-61, di L. Russo, P. B. e la sua fortuna storica, in Belfagor, XIII (1958), pp. 257-72, e di W. T. Elwert, P. B. e la vita letteraria del suo tempo, nella miscellanea La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 125-76.
Per la biografia, il contributo più importante, oltre a quelli già cit. del Cian, è quello di A. Ferraioli, Il ruolo della corte di Leone X, in Arch. d. Soc. romana di storia patria, XXXVII (1914), pp. 307-60, 453-84: soprattutto importante per i rapporti dei B. coi Gualteruzzi, per i benefici ecclesiastici del B., per cui cfr. anche B. Cestaro, Il canonicato padovano di messer P. B., in Atti e Mem. d. R. Accad. di scienze lettere ed arti in Padova, XLV (1928-29), pp. 305-311, e per la Morosina e i figli, per cui cfr. anche A. Ratti, Una lettera autografa della Morosina a P. B., in Gior. stor. d. letter. ital., XI, (1902), pp. 335-42. Manca uno studio sulla giovinezza del Bembo. Servono i vari studi sul padre di lui, in specie V. Cian, Per Bernardo B: le sue relazioni coi Medici, in Giorn. stor. d. letter. ital., XXVIII (1896), pp. 348-64, e Per Bernardo B.: le relazioni letterarie, i codici e gli scritti, ibid., XXXI (1898), pp. 49-81, e serve G. Pavanello, Un maestro del Quattrocento: G. A. Augurello, Venezia 1905.
Sugli amori e la vita di corte cfr. Maria Savorgnan-Pietro Bembo, Carteggio d'amore (1500-1501), a cura di C. Dionisotti, Firenze 1950; B. Gatti, Lettere di Lucrezia Borgia a ms. P. Bembo, Milano 1859; M. Bellonci, Lucrezia Borgia e P. Bembo, in Pan, IV (1935), pp. 354-84, e della stessa la monografia su Lucrezia Borgia; V. Cian, P. Bembo e Isabella d'Este, in Giorn. stor. d. letter. ital., IX (1887), pp. 81-136, e sullo stesso argomento anche A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, in Giorn. stor. d. letter. ital., XXXVII (1901), pp. 201-19; finalmente, per Urbino, l'ed. Cian del Cortegiano del Castiglione (Firenze 1947).
Per Roma e la carriera ecclesiastica cfr. L. von Pastor, Storia dei papi, III, Roma 1925, pp. 749-51; IV, 1, ibid. 1926, pp. 430-34; 2, ibid. 1929, pp. 681-83; V. Cian, A proposito di un'ambasceria di M. P. B. (Dicembre 1514), in Arch. veneto, n.s., XXX-XXXI, (1885-86), pp. 355-407, 71-128, e su questo punto cfr. anche H. Jedin, Vincenzo Quirini und P. B., in Miscellanea Giovanni Mercati, IV, Città del Vaticano 1946, pp. 407-24.
Per Padova e Venezia, cfr. O. Ronchi, La casa di P. B. a Padova e Nella casa del B. a Padova, in Atti e Memorie della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, XL (1923-24), pp. 285-329, e XLII (1925-26), pp. 420-34, importante anche per il museo di antichità e opere d'arte messo insieme dal B., e C. Castellani, P. B. bibliotecario della libreria di S. Marco in Venezia (1538-1543), in Atti del R. Ist. veneto, S. 7, VII (1896), pp. 862-98, recens. in Giorn. stor. d. letter. ital., XXX (1897), pp. 307-10, e in Revue des bibliothèques, VI (1896), pp. 391-99.
Per la biblioteca personale dei B. fondamentale resta P. De Nolhac, La Bibliothèque de F. Orsini, Paris 1887, recensito da V. Cian in Giorn. stor. d. letter. ital., XI (1888), pp. 230-49.
Per mss. e studi e in genere per la cultura umanistica e scientifica del B. cfr. E. Chatelain, Le ms. d'Hygyn en notes tironiennes, in Revue des bibliothèques, XIII (1903), pp. 224-28; F. Zambaldi, Un vocabolario geografico di P. B., in Riv. di filol. classica, XVII (1888), pp. 543-46; S. Guenther, Il cardinale P. B. e la geografia, in Riv. d'Italia, VI (1903), pp. 869-83; S. Grande, Le relazioni geografiche fra P. B., G. Fracastoro, G. B. Ramusio, G. Gastaldi, in Memorie d. Soc. geografica ital., XII (1905), pp. 167-83; V. Cian, Contributo alla storia dell'enciclopedismo nell'età della Rinascita. Il Methodus Studiorum del Cardinale P. B., nella Miscellanea in onore di Giovanni Sforza, Lucca 1915, pp. 289-330.
Sulle relazioni letterarie del B. in questo periodo cfr. anche V. Cian, Lettere inedite di A. Alciato a P. B., in Arch. stor. lombardo, XVII (1890), pp. 811-865; P. De Nolhac, P. B. et Lazare de Baïf, nella Miscellanea nuziale Cian-Sappa-Flandinet, Bergamo 1894, pp. 301-307; V. Cian, Maestro Pasquino e P. B., in Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 23-34.
Sul cardinalato e gli ultimi anni cfr. B. Morsolin, Il cardinalato di P. B., nella Miscell. nuziale Biadego-Bernardinelli, Verona 1896, e V. Cian, P. B. e P. Gradenigo, negli Atti d. ist. veneto, CVI, 2 (1947-48), pp. 76-97.
Sulla casa dove il B. morì, cfr. R. U. Montini e R. Averini, Palazzo Baldassini e l'arte di Giovanni da Udine, Roma 1957, pp. 14 s.
Per l'iconografia dei B. cfr. G. Coggiola, Per l'iconografia di P. Bembo, in Atti del R. Ist. veneto, LXXIV, 2 (1914-15), pp. 473-514; W. Suida, New light on Titian's portraits, in The Burlington Magazine, LXVIII (1936), p. 281; E. Wind, Bellini's Feast of the Gods, Cambridge, Mass., 1948, p. 42, dove viene proposta l'assurda identificazione col B. del Sileno nel quadro del Bellini (cfr. The Art Bulletin, XXXII [1950], pp. 237-39).