Bembo, Pietro
Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio 1470 da una grande famiglia patrizia. Studiò greco dal 1492 al 1494 a Messina alla scuola di Costantino Lascaris, quindi filosofia a Padova e a Ferrara. A Ferrara nel 1497, al seguito del padre ambasciatore, come poi a Mantova e a Urbino, conobbe le corti, nelle quali vigeva un particolare rapporto mondano fra cultura umanistica, letteratura volgare di moda e conversazione civile; alla corte di Asolo, l’unica nel territorio della Repubblica veneta, sono ambientati gli Asolani, dialogo platonico sull’amore.
Negli anni 1501 e 1502 Bembo ideò per Aldo Manuzio edizioni innovative di Petrarca e Dante (➔ editoria e lingua). Fra il 1506 e il 1512 visse alla corte di Urbino, dove compose una prima raccolta delle sue rime e la prima versione dei primi due libri delle future Prose. Nel 1512 indirizzò a Giovan Francesco Pico l’epistola De imitatione, che lo qualificò come teorico del ciceronianesimo latino, e nel marzo 1513 il nuovo papa Leone X lo nominò segretario ai brevi, cioè epistolografo, ovviamente in latino. Così, offrendo i suoi servigi di umanista al papa, e al prezzo di rinunciare allo stato laicale, poté sottrarsi all’obbligo sociale, che la nascita gli imponeva, di servire la Repubblica con incarichi politici, reprimendo la propria esclusiva vocazione letteraria. Dopo alcuni anni frustranti trascorsi a Roma, nel 1518 Bembo si trasferì fra Venezia e Padova, dove portò a termine la composizione delle Prose, soprattutto del terzo libro sulla grammatica. L’opera, offerta nel 1524 al nuovo papa Clemente VII, nel settembre 1525 fu pubblicata a Venezia riscuotendo immediato successo. Subito dopo Bembo si dedicò a rivedere sia gli Asolani sia le Rime, opere delle quali nel 1530 uscirono le seconde edizioni. Nello stesso anno venne nominato storiografo della Repubblica di Venezia. Nel 1536 pubblicò e dedicò al nuovo papa Paolo III la raccolta dei brevi ciceroniani scritti per Leone X, e infine nel 1538 fu nominato cardinale, nonostante il carattere profano di tutta la sua produzione letteraria, come riconoscimento della sua egemonia letteraria e per interesse ad averla dalla parte della Chiesa.
Trasferitosi a Roma nel 1539, vi terminò la storia di Venezia, che lui stesso volgarizzò a Roma nei due anni successivi. Morì a Roma il 18 gennaio 1547.
Fu Pietro Bembo l’uomo che individuò la soluzione vincente alla ➔ questione della lingua, cioè al dibattito, imperversante nel primo Cinquecento, su quale dovesse essere il modello dell’unificazione linguistico-letteraria italiana.
Bembo capì che l’unificazione poteva avvenire solo sulla base della tradizione letteraria illustre. Prescrisse che il modello doveva essere la lingua del Canzoniere di ➔ Petrarca per la poesia, quella del Decameron di ➔ Boccaccio per la prosa. A questa scelta lo induceva il suo ciceronianesimo, trasferito dal campo latino a quello volgare. Così facendo, Bembo sancì la dominante retorica, classicistica, antirealistica e antitecnica, che segnò la storia linguistica e civile dell’Italia. Ma, al tempo stesso, additò l’unica soluzione praticamente efficace nelle condizioni date. L’industria della stampa, infatti, esigeva uniformità (➔ correzione di bozze), e la ricetta cosiddetta cortigiana o italianista non offriva uniformità, ma al contrario il perdurare del polimorfismo quattrocentesco. La ricetta toscanista offriva sì un modello di lingua viva unitario, ma privo di autorità letteraria. La rigorosa imitazione libresca delle «tre corone» fiorentine del Trecento, invece, era perfettamente praticabile: dal corpus delle loro opere erano già state dedotte osservazioni che potevano tradursi in una precettistica grammaticale chiara e univoca, che infatti era già largamente usata dai correttori di tipografia.
Il modello bembiano esercitò la sua influenza in parte direttamente attraverso le prescrizioni delle Prose; in parte attraverso le Rime e gli Asolani, che nelle edizioni del 1530, allineate alla norma delle Prose, costituirono esempi paradigmatici di lingua della poesia e della prosa; in parte attraverso successive grammatiche di ascendenza bembiana e compendi grammaticali divulgativi desunti da esse (la cosiddetta manualizzazione; delle Prose: Sabbatino 1988; Serge Vanvolsem in Morgana, Piotti & Prada 2001); in parte attraverso la pratica dei correttori di tipografia, tutti orientati in senso bembiano-fortuniano.
È notevole che Bembo puntasse subito, per accreditarsi come scrittore volgare, su un’opera prima in prosa: gli Asolani. La prosa, infatti, era un terreno ben più difficile per uno scrittore non toscano rispetto alla poesia, per la quale soccorreva una tradizione petrarchesca consolidata. La prima redazione manoscritta (del 1499 circa) è ancora incerta, per es., nelle scempie / doppie, ipercorretta nell’anafonesi (spingnere «spegnere»), con congiuntivi fiorentini quattrocenteschi (dichi, possino), ecc. L’editio princeps del 1505, presso Aldo Manuzio, abbandona i tratti padani e veneti ma non quelli fiorentino-argentei (Trovato 1994: 82-85, 265-274). Infatti, continuano ad agire, oltre all’esempio decameroniano, modelli contemporanei (Lorenzo de’ Medici, Alberti, Sannazaro) e trecenteschi vari (Convivio di Dante, Elegia di madonna Fiammetta, Filocolo e Filostrato del Boccaccio; Berra 1996: 296-318). Analogo retroterra quattrocentesco emerge in due testi minori composti nel periodo urbinate, le Stanze e i Motti (Curti 2006). Ai suoi esordi, dunque, Bembo risulta ancora compromesso col fiorentino quattrocentesco.
Le edizioni aldine delle Cose volgari di Petrarca (1501) e delle Terze rime di Dante (1502) sono un evento editoriale per tre ragioni: perché stampano questi testi nella stessa collana con Virgilio e Orazio, accreditandoli umanisticamente come classici volgari; perché inventano il formato tascabile e il carattere corsivo, con interpunzione moderna e senza commento, cioè un libro nuovo, agile, fatto non per lo studio ma per la libera fruizione; e perché di conseguenza individuano un pubblico nuovo per la letteratura volgare. La moda dei petrarchini, che dilagò per oltre un secolo, prende l’avvio da qui. Bembo poté forse avvalersi dell’autografo-idiografo di Petrarca (l’attuale ms. Vat. Lat. 3195), e restaurò quindi la lingua dell’originale, ma con uno spirito sistematico che sacrificava la varietà degli usi petrarcheschi all’applicazione di una norma univoca.
L’epistola De imitatione (1512) sostiene il principio dell’imitazione-emulazione di un modello unico, contro l’eclettismo che il destinatario dell’epistola, Giovan Francesco Pico, ereditava dal Poliziano in sintonia con la corrente apuleiana. Il ciceronianismo-virgilianismo qui teorizzato dal Bembo è il presupposto del classicismo volgare teorizzato nel secondo libro delle Prose.
Le Prose della volgar lingua, il capolavoro del Bembo, esce a Venezia nel 1525 pretendendo di presentarsi come il racconto, steso dal Bembo entro il 1515, di un dialogo svoltosi a Venezia addirittura nel 1502. Questa finzione cronologica serviva ad affermare la priorità della grammatica esposta nel terzo libro rispetto alle Regole grammaticali della volgar lingua pubblicate da Giovan Francesco Fortunio nel 1516. Pretesa falsa, perché il terzo libro quale lo conosciamo fu scritto dopo il 1516, potendo disporre delle Regole (Bembo 2001: XXXVI-XLVIII; Tavosanis 2002: 21-25). È però vero che già in una lettera del 1500 Bembo scriveva: «Ho dato principio ad alcune notazioni della lingua»; e nel 1512 annunciava all’amico Ramusio che avrebbe inviato in lettura a Venezia «il primo libro del Dialogo volgare che ho nelle mani». Ma lo stato A del ms. autografo Vat. Lat 3210 non risale più addietro del 1515-16 (o addirittura del 1521 secondo Vela).
Dopo la pubblicazione delle Prose egli si dedicò a curare una nuova edizione degli Asolani e una prima edizione delle Rime, che allineassero perfettamente la lingua delle due opere alla norma messa a fuoco nelle Prose.
Anche l’epistolario volgare, prodotto nell’arco di tutta la carriera, a un certo punto fu destinato alla stampa, e quindi scattò una «rassettatura» che si tradusse in un «appiattimento cronologico» sulla norma ultima delle Prose, che lascia solo sussistere una varietà diafasica più bassa per le lettere ad amici e parenti (Prada 2000: 20-21).
Le opere del Bembo sono tramandate da testimonianze manoscritte, spesso autografe o idiografe, e da edizioni a stampa, curate dall’autore o postume, che consentono di seguire via via l’evoluzione testuale e linguistica dell’autore. Gli Asolani sono attestati da una prima redazione manoscritta autografa del solo primo libro, del 1499 circa, poi dall’editio princeps del 1505, da quella rivista del 1530 e infine da quella postuma del 1553 (ed. Dilemmi 1991). La volontà ultima dell’autore è quella dell’edizione postuma, ma i lirici del Cinquecento si sono formati su quella del 1530.
Le Rime furono pubblicate per la prima volta nel 1530, poi nell’edizione rivista del 1535, mentre la volontà ultima dell’autore è contesa fra l’edizione postuma Dorico del 1548 (preferita da Dionisotti 2002) e il ms. Viennese 19245.1, con correzioni tarde, preferito dall’editore critico Donnini 2008.
Delle Prose possediamo il ms. autografo Vat. Lat. 3210, che contiene nel suo stato A i primi due libri in pulito, praticamente coincidenti col testo della princeps del 1525, e il terzo libro invece integrato da una grande quantità di aggiunte e correzioni (ed. Bembo 2001 e Tavosanis 2002). All’ed. 1525, in austero formato umanistico, segue poi l’ed. 1538, più simile alle aldine del 1501-1502 (Tavoni 1994), e l’edizione postuma 1549, con introduzione di Benedetto Varchi (cfr. Antonio Sorella, in Morgana, Piotti & Prada 2001), importante dal punto di vista ideologico, perché concilia forzosamente Bembo col fiorentino vivo, mettendolo in continuità con Lorenzo il Magnifico e aprendo la strada alla confluenza del bembismo nel tradizionalismo della Crusca.
Il libro I fonda la legittimità del volgare in termini umanistici. Tutto il dialogo è diretto a convincere il latinista Ercole Strozzi della dignità dello scrivere in volgare. È giusto scrivere nella propria lingua materna, che è oggi il volgare, così come i latini antichi scrissero nella loro lingua materna, che era il latino, e non nella lingua letteraria più prestigiosa del loro tempo, che era il greco (I, 2-6). Quanto all’origine della poesia italiana (I, 7-11) Bembo, diversamente da Dante e Petrarca, non riconosce ai siciliani alcun primato, e fa derivare la poesia toscana direttamente dalla provenzale. Le numerose parole provenzali presenti nella lirica antica, di cui è buon conoscitore (cfr. Carlo Pulsoni, in Morgana & Piotti & Prada 2001), sono interpretate non come prestiti letterari ma come influenza di una lingua sull’altra.
La lingua cortigiana (➔ cortigiana, lingua), primo obiettivo polemico del trattato, viene ridicolizzata prendendo a pretesto il perduto libro del Calmeta Della volgar poesia (I, 12-14), mentre la causa del fiorentino contemporaneo, difesa da Giuliano de’ Medici in termini ‘vitalistici’, viene contraddetta da Carlo Bembo, portavoce delle idee dell’autore, il quale prescrive il dovere per «la lingua delle scritture» di «discostarsi [...] e dilungarsi» dalle «usanze del popolo» (I, 18), e il dovere di «scrivere bene» in assoluto, con sovrana indipendenza dalla contemporaneità, imitando l’«oro purissimo» che si può trarre dall’esempio di Petrarca e Boccaccio (I, 15-20). In ciò sembra cogliersi una eco del verbo (divertere) usato nel De vulgari eloquentia per designare il distacco dal proprio volgare municipale da parte dei poeti che hanno optato per il volgare illustre.
Il libro II, dedicato alla retorica del volgare, teorizza l’«elezione» e la «disposizione delle voci» (II, 4-8) in funzione della materia, secondo la teoria, classica e medievale, dei tre stili, per cui «da sciegliere [...] sono le voci, se di materia grande si ragiona, gravi, alte, sonanti, apparenti, luminose; se di bassa e volgare, lievi, piane, dimesse, popolari, chete; se di mezzana tra queste due [...] mezzane e temperate» (II, 4). Poiché tuttavia è «generalissima e universale regola» scegliere in ogni stile «le più pure, le più monde, le più chiare sempre, le più belle e le più grate voci», ne consegue la condanna della lingua di Dante nelle sue escursioni più realistiche: «da tacere è quel tanto, che sporre non si può acconciamente» (II, 5). «Gravità» e «piacevolezza» devono essere opportunamente contemperate, secondo principi desunti dal De oratore di Cicerone, dalla Rhetorica ad Herennium, dalla Institutio oratoria di Quintiliano e forse dallo stesso De vulgari eloquentia (II, vii), nonché per il fonosimbolismo dal De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso, comunque miranti a esaltare il Petrarca, che «l’una e l’altra di queste parti empié maravigliosamente».
Il libro III riesce abilmente a stipare tutta la grammatica del volgare nelle battute di un dialogo. La trattazione ne risulta il più possibile detecnicizzata: gli schemi grammaticali non sono mai messi in evidenza, e le stesse parti del discorso, che sembrano desumersi nel numero di cinque (nome, pronome, verbo, participio, avverbio), non sono fissate in un elenco univoco. La terminologia grammaticale viene sostituita con espressioni tratte dal linguaggio comune: divertimento per «elisione», maniera per «coniugazione», pendente per «imperfetto», senza termine per «infinito»; con leggeri spostamenti anche rispetto ai termini più semplici, come numero del meno e numero del più invece di «singolare» e «plurale», e del maschio e della femmina invece di «maschile» e «femminile».
La morfologia nominale è basata sul fiorentino trecentesco, ma selezionando e regolarizzando, cioè escludendo le eccezioni, tipo i plurali in -e o in -ora (le parte o le bracce, le pratora; cfr. Paolo D’Achille, in Morgana, Piotti & Prada 2001).
La morfologia verbale (Tavoni 1992: 1078-79) mostra l’ulteriore progresso in termini di standardizzazione rispetto a quella di Fortunio. Al presente indicativo Bembo dà come unica forma normale di seconda persona sing. ami, qualificando ame come poetica, e come unica forma di prima persona plur. amiamo, condannando amemo ancora ammessa da Fortunio (III, 27-28).
All’imperfetto tutti i grammatici del primo Cinquecento prescrivono la prima persona sing. fiorentina trecentesca in -a (amavo è una delle poche innovazioni del fiorentino quattrocentesco che, censurate nel Cinquecento, si sono tuttavia affermate nell’italiano moderno); alla prima e seconda persona plur. Bembo prescrive leggevamo e leggevate e qualifica leggiavamo, leggiavate come arcaiche (III, 30).
Al passato remoto impone alla prima persona plur. amammo (III, 35: in Fortunio ancora ammessa amassimo); alla terza persona plur. ancora aperta la scelta fra amarono e amaro (escluso invece il tipo in -orono), fra diedero, dierono e diedono (III, 35). Al futuro e al condizionale esclusiva anche per la prima coniugazione la protonica fiorentina -er- (III, 38 e III, 43; in Fortunio ancora ammesse invece le forme amaremo, amaresti). Al congiuntivo presente si omologano le prime tre persone singolari della prima coniugazione nell’uscita -i (-e solo poetica), delle altre coniugazioni nell’uscita -a (III, 45), mentre ancora in Fortunio coesistono ame e ami, scrive, scrivi, scriva. Così al congiuntivo imperfetto si fissano l’uscita -i per le prime due persone singolari, -e per la terza (maggiore oscillazione in Fortunio); alla terza persona plur., accanto ad amassero, sono ancora ammesse amassono e la petrarchesca andassen (III, 44). Al condizionale è dato come normale il solo tipo in -ei, quello in -ia è correttamente definito non toscano e poetico (in Fortunio ancora indistintamente ammessi i due tipi); alla seconda persona sing. solo ameresti (ameressi ancora ammesso in Fortunio); alla prima persona plur. solo ameremmo (non anche scriveressimo, come ancora in Fortunio); alla terza persona plur. amerebbono (III, 43).
Come si vede, in alcuni casi le prescrizioni bembiane suonano oggi arcaiche, ma più spesso coincidono con le forme tuttora in uso in italiano, il che è la verifica della loro acutezza ed efficacia.
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