CANDIANO, Pietro
Doge di Venezia, quarto di questo nome, figlio dell'omonimo doge suo predecessore, che se lo era associato al governo "suggerente populo", certo prima del marzo 958. Aveva rivelato negli ultimi tempi del dogato paterno orientamenti ed ambizioni che lo avevano spinto ad "insurgere" contro il padre nel tentativo di imporre la propria persona. Si può pensare di porre in rapporto tale ribellione, oltreché con una diversità di interessi, mercantili e marinari da un lato, fondiari e di espansione in terraferma dall'altro - divisione che però nella società veneziana non è mai stata tanto netta - soprattutto con la situazione generale politica che poteva suggerire allora sviluppi diversi da quelli tradizionali alla politica veneziana. Il Regnum Italiae attraversava un difficile momento; grande necessità di aiuti aveva il suo re Berengario, in quegli anni cruciali, per resistere alle pressioni del suo senior Ottone I, da un lato (del 956-57 è la discesa del figlio di Ottone, Liutolfo, in Italia), dall'altro per estendere la sua azione nell'Italia centrale in funzione antiromana. Non è da escludere che i monita paterni, dal C. disprezzati, si riferissero appunto alla sua tendenza ad accettare proposte e lusinghe provenienti dalla terraferma, che il prudente anziano doge, nonostante le simpatie che poteva aver manifestato verso di essa, preferiva respingere, ben conscio dell'incertezza della situazione, e timoroso forse delle reazioni dannose per Venezia che potevano venire dalle altre parti che erano in gioco, e tra loro in fluidi rapporti. Non conveniva irritare ulteriormente Bisanzio, cui Venezia non aveva mandato neppure la tradizionale missione di saluto, e che la vittoriosa campagna nell'Italia meridionale di Mariano Argiro, intrapresa nel 956, aveva portato nella Campania fino alle soglie delle terre della Chiesa. In quanto a Ottone I, la vittoriosa campagna del figlio Liutolfo, disceso in Italia per la valle dell'Adige e giunto fino a Verona, ne aveva dimostrato la determinazione di fronte a Berengario, e la debolezza di quest'ultimo; mentre un suo fidelis, il duca di Baviera Enrico, era sempre il titolare delle marche che confinavano con i territori del ducato veneto, come la marca friulana.
Di fatto quando, fallita la ribellione per la solidarietà della "maior pars populi" col vecchio doge, e questi, "volens populo satisfacere", non poté evitare di colpirlo con l'esilio, il C. trovò rifugio alla corte del re italico, e qui non si limitò a godere dell'ospitalità offertagli, ma partecipò attivamente alle operazioni militari che, in quel torno di tempo (estate-autunno 959: Mor, L'età, I, p. 181), il figlio del re Berengario Adalberto ed il marchese di Toscana Uberto andavano conducendo nell'Italia centrale contro il marchese di Spoleto e Camerino Tebaldo II; successivamente, per licentia dello stesso re Berengario, da Ravenna, terra dell'Esarcato e concorrente di Venezia nei traffici padani, assalì con sei navi ravennati sette navi veneziane ancorate al Po di Primaro e le catturò.
Alla luce di tali attività, appare assai probabile l'ipotesi formulata dal Mor che il ritorno del C. a Venezia, avvenuto nel 959 dopo la morte del padre (bisogna pensare alla fine di tale anno, essendo durato solo due mesi e mezzo l'esilio del figlio ribelle), e deciso da quella stessa "Veneticorum multitudo una cum episcopis et abbatibus" che all'atto dell'espulsione del ribelle aveva giurato solennemente che "numquam... eum ducem haberent", sia stato dovuto anche ad una forte pressione esercitata dal Regnum.
Tornato a Venezia con tutti gli onori (ben trecento navi, secondo il cronista veneziano, lo andarono a prendere a Ravenna e lo riportarono "ad palatium"), diede subito a vedere quali erano i suoi obiettivi sul piano della politica interna ed esterna. Conscio certo che non potevano essersi sopite le ragioni della così recente discordia, impose, mediante un atto inusitato, e forse mutuato dalle abitudini continentali, un giuramento di fedeltà a tutela del proprio potere (Pertusi, Quaedam regalia, p. 69). Preoccupato quindi di rassicurare Bisanzio sulle sue intenzioni - preoccupazione tanto più giusta nel momento in cui Bisanzio, con la campagna di Creta iniziata nel giugno 960, riprendeva possesso di un punto nevralgico del Mediterraneo orientale -, appunto nel giugno 960 emanò con l'assistenza di Bono patriarca di Aquileia, dei vescovi della laguna e dei primates veneziani una constitutio che se aveva la sua principale ragione d'essere in rapporto ai problemi di convivenza con Bisanzio, non mancava di rafforzare all'interno il potere del doge.
Essa infatti, rinnovando ai Veneziani il vecchio divieto del doge Orso sul commercio degli schiavi, prescriveva in modo particolare che esso venisse osservato per quanto riguardava uomini e zone bizantine (nessun veneto doveva prestare soldi a greci perché comprassero schiavi; nessun veneto doveva osare trasportare schiavi in "terra Graecorum" o "ultra Polam"; nessun veneto doveva prendere denaro da greci o da gente de terra Beneventi per trasportare schiavi). La constitutio vietava inoltre ai veneti di trasportare la corrispondenza epistolare proveniente dal Regno italico, dalla Baviera e dalla Sassonia, all'imperatore di Bisanzio, o comunque ai greci, cercando così di tutelare Venezia dai danni che, per il tono offensivo di tale corrispondenza, essa aveva già ricevuto da Bisanzio (l'imperatore d'Oriente, si dice nella constitutio, aveva valutato pro nihilo le cartulae trasmesse da Venezia a Bisanzio "pro salvatione nostre patrie", di solito accolte dall'imperatore "ad magnam utilitatem" di Venezia stessa).
Chiari sono anche gli esiti positivi di tale constitutio per il potere dogale, se si tiene presente che erano ammesse eccezioni al divieto di commercio degli schiavi, se questo si verificava "pro causa palatii", mentre il regolamento del traffico epistolare tra Occidente ed Oriente faceva del doge l'unico tramite ammesso per il suo inoltro o meno (i Veneziani potevano trasportare solo quella corrispondenza "quae consuetudo est de nostro palatio": vedi le osservazioni fatte dall'Hiestand sui non buoni rapporti tra Bisanzio da una parte, Berengario ed Ottone dall'altra, in relazione a questo provvedimento sul traffico epistolare tra Occidente e Bisanzio, pp. 211-14).
La constitutio del giugno 960, così illuminante sui non felici rapporti tra Bisanzio e Venezia (l'omissione dei viaggi di omaggio in Oriente da parte del terzo dei Candiano ne era già stato un segno), e d'altra parte così indicativa del bisogno che il ducato aveva della benevolenza dell'imperatore bizantino, è anche utile testimonianza della espansione raggiunta dal commercio veneziano, che congiungeva l'Europa centrale, l'Oriente bizantino ed il Levante musulmano (vedi gli studi dello Heyd, p. 119, e dello Schaube, pp. 22, 24 s., 32, in particolare a proposito del traffico degli schiavi, una delle principali attività commerciali dei Veneziani, schiavi che da Venezia, dall'Istria e dalla Dalmazia, espressamente indicate nella constitutio, venivano avviati generalmente verso il Levante musulmano; per l'aumento di disponibilità della merce-schiavo, in seguito alle vittorie sugli Slavi di Enrico I di Germania e di Ottone I, vedi Verlinden, L'esclavage, pp. 218 s., 221 s., e anche Luzzatto, L'economia, pp. 157 s.).
Chiariti così in qualche modo i suoi rapporti con Bisanzio (secondo alcuni studiosi, dietro una probabile sollecitazione di Bisanzio stessa: Schaube, pp. 24 s.; Luzzatto, L'economia, p. 157;Pertusi, Quaedam regalia, p. 113 e n. 328), il C. non rinunciò a rinnovare il suo interesse verso il Regnum, la cui debolezza poteva essere occasione di qualsiasi avventura. Ripudiata la prima moglie Giovanna, sulla cui identità non si sa nulla più del nome, e che obbligò ad entrare nel monastero di S. Zaccaria; allontanato anche il figlio da lei avuto, Vitale, che costrinse allo stato ecclesiastico, per promuoverlo poi al patriarcato di Grado, si unì a Waldrada, appartenente ad una delle più potenti ed illustri famiglie del Regnum:era infatti figlia di Uberto, marchese di Toscana, e di Willa, cugina prima di Adelaide, la sposa di Ottone I, regina d'Italia ed imperatrice dal 2 febbraio 962.
Grande fu la dote che Waldrada portò allo sposo, sia in beni fondiari, dei quali purtroppo ci sfugge la consistenza e l'ubicazione precisa, sia in beni mobili (vedi la carta securitatis rilasciata da Waldrada, ormai vedova, al doge Pietro Orseolo (I), del settembre 976). Fu appunto questo legame matrimoniale che indusse il C. a servirsi di "exteros milites de Italico regno" per potere, come dice il cronista che riferisce la notizia, "defendere et possidere" i "predia" ottenuti come dote (Cronaca... diacono Giovanni, p. 139), ma anche, si deve pensare, per tutelare la propria autorità in patria.
Condusse quindi campagne armate contro quegli "extraneos" delle terre del Regnum che erano o potevano essere pericolosi concorrenti dei traffici dei Veneziani, nella speranza forse anche di maggiori compensi: debellò (questo è il termine usato dal cronista veneziano) Ferrara che stava ereditando la funzione già di Comacchio nel traffico padano, e distrusse il castrum di Oderzo, che dominava l'entroterra tra Piave e Livenza e quindi le vie dei valichi alpini nordorientali (sulle fortune e la decadenza di Comacchio, su Ferrara, e sulla importanza delle due città per il traffico sul Po, v. Hartmann, pp. 74-90, e Lenel, 1907, pp. 485-95).
Queste iniziative del C., quella matrimoniale e quelle militari, sono generalmente viste dagli studiosi come segno d'un suo appoggio, o comunque di un suo allineamento al fianco di Ottone, negli anni in cui quest'ultimo, durante la sua seconda discesa in Italia (2 febbr. 962- 25 dic. 964), dopo l'incoronazione imperiale (2 febbr. 962), dovette lungamente lottare contro l'opposizione del re Berengario arroccatosi nella Pentapoli (fortezza di San Leo nel Montefeltro), e dei suoi sostenitori rifugiatisi in alcuni punti nevralgici dell'Italia settentrionale (San Giulio d'Orta, Garda, Valtravaglia, Isola Comacina); o anche negli anni della sua terza discesa (settembre 966 - estate 972), allorché egli riordinò in maniera duratura i problemi ancora pendenti e cercò di giungere ad un accordo con Bisanzio. La stretta parentela di Waldrada, seconda moglie del C., con l'imperatrice Adelaide, e l'interessamento che quest'ultima dimostrerà per le cose veneziane da una parte; e il fatto, dall'altra, che con questo matrimonio si stringevano legami tra due famiglie dominanti zone nevralgiche per il Regnum, come la Toscana e Venezia ai confini questa con le vie di comunicazione tra la Germania e l'Italia e Roma (marchesato del Friuli e di Verona, Esarcato) e porta dell'Oriente sono tutti elementi che, secondo tali studiosi, non possono non far pensare ad un intervento dell'imperatore per la conclusione del secondo matrimonio del C., e alle operazioni militari di quest'ultimo nel quadro generale dell'attività di repressione antiberengariana operata da Ottone I.
Altri elementi concorrerebbero a sostenere tale ipotesi, come i contatti diretti che Ottone I ebbe con personalità veneziane strettamente legate alla famiglia del doge negli anni della sua seconda discesa in Italia, precedano essi o no le trattative matrimoniali, o addirittura le vogliano facilitare. Sono richiamati in proposito il privilegio di conferma dei beni posti in territorio di Monselice (comitato padovano), intorno a Cavarzere, centro di grande importanza economica e commerciale del ducato, emesso il 26 ag. 963 da Ottone I a favore della badessa del monastero di S. Zaccaria di Venezia, Giovanna, identificata con la prima moglie del C; e la concessione di beni fiscali fatta nello stesso giorno a favore di Vitale Candiano "Veneticus, noster fidelis", identificato con il fratello del doge. Tali beni erano posti nei comitati trevisano e padovano, il primo di speciale importanza per le comunicazioni a nord delle Alpi. Il rinnovamento del pactum che dall'età carolino-lotariana regolava i rapporti tra Regnum e ducato (2 dic. 967), il riconoscimento del titolo patriarcale alla sede gradense (sinodo romano fine dic. 967-inizi genn. 968), la elevazione di Vitale detto Ugo, fratello del C., al comitato di Padova e Vicenza sarebbero i frutti raccolti dal quarto doge di questa famiglia, per la sua coerente politica filo-ottoniana.
Il Mor non concorda con questa interpretazione. Egli tiene presente l'atteggiamento certamente ostile del padre di Waldrada, il marchese di Toscana Uberto, all'imperatore tedesco al momento della seconda discesa in Italia (fu costretto a lasciare la sua marca e a rifugiarsi presso gli Ungheri, nel febbraio-marzo 962, o nel maggio-settembre 963), ed i contatti diretti che il C. aveva avuto con i berengariani ed in particolare col marchese Uberto al momento del suo esilio da Venezia. Nota che le personalità veneziane verso cui si diresse l'attenzione di Ottone erano proprio quelle allontanate dal doge (identifica infatti nel Vitale Candiano, non il fratello del doge, ma il figlio costretto al chiericato). Vede quindi nel secondo matrimonio del doge, che pone negli anni 962-63, il suggello ed il compenso del suo appoggio allo schieramento antiottoniano, le sue azioni militari contro Oderzo e Ferrara legate a tale appoggio. Interpreta infine i favori concessi da Ottone I il 26 ag. 963 come il segno dell'esistenza in Venezia di una opposizione interna all'atteggiamento politico assunto dal C., opposizione che l'imperatore tedesco cerca di legare a sé. Alcuni provvedimenti presi da Ottone nel corso della sua seconda discesa sembrano al Mor confermare che non buoni dovevano essere i suoi rapporti con Venezia: tali, ad esempio, i benefici concessi il 10 sett. 963 al vescovo Giovanni di Belluno, suo fidelis, proprio in quel loco Obederzo (Oderzo), contro cui operò il C. (tutta la zona tra Piave e Livenza sarà poi una delle maggiori ragioni di frizione tra Venezia ed il bellicoso vescovo bellunese) ed il privilegio concesso il 6 luglio 964 al vescovo di Padova, il cui territorio confiriava con quello del ducato, di erigere "castella cum turris et propugnaculis". Solo il venir meno negli anni 965-66 degli appoggi esterni sui quali il C. aveva fondato la sua politica il crollo cioè del partito berengariano (l'ultirno tentativo operato da Adalberto figlio di Berengario e schiacciato nel giugno 965 o 966), e la disfatta subita dalla potenza bizantina in Sicilia nel 965(Bisanzio aveva alimentato in vari modi l'opposizione antiottoniana nel Regnum)costrinsero il C., secondo il Mor, a mutare posizione: si riavvicinò alla opposizione interna veneziana, e prima di tutto al figlio patriarca di Grado, per averne appoggio in funzione antiaquileiese (l'allora patriarca Rodaldo era un fedelissimo dell'imperatore tedesco e suo beneficiato), e abbandonò le ostilità contro Ottone. La rinnovazione del pactum con Venezia ed il riconoscimento del titolo patriarcale alla sede gradense segnano per il Mor l'inizio di nuovi rapporti tra il C. e l'imperatore, da quel momento senza più incrinature.
È difficile stabilire, allo stato attuale degli studi, quale delle due ipotesi sia più verosimile, essenzialmente per due ordini di ragioni: l'assoluta mancanza di certezza sulla cronologia dei fatti più significativi, il secondo matrimonio del C. cioè, le sue operazioni militari contro Oderzo e Ferrara, la riammissione nella grazia dell'imperatore del padre di Waldrada, il marchese di Toscana Uberto; e la mancanza di certezza anche nella identificazione di quelle personalità veneziane certamente legate ad Ottone, come il Vitale Candiano Veneticus. Per il matrimonio con Waldrada si può dare come terminus post quem il 26 ag. 963(vedi il privilegio di Ottone in tal data a Giovanna badessa di S. Zaccaria, unanimemente identificata con la prima moglie del doge), e come terminus ante quem l'11 ag. 976, giorno della morte del C. (la prima attestazione documentaria di Waldrada è del settembre 976, quando è già vedova). Per le operazioni militari non vi è alcuna indicazione cronologica; Uberto, il padre di Waldrada, risulta di nuovo gloriosusmarchio il 15 sett. 967(Hlawitschka, p. 203).
Per quanto riguarda Vitale Candiano, la stessa varietà delle identificazioni sta a dimostrarne l'incertezza: per alcuni (Zorzi, Cessi), è quel fratello del C. che da un documento del marzo 1016risulta essere stato "comes de comitatu vicentino atque patavino" (non sappiamo quando: il 7 genn. 1015 appare morto; le deduzioni cronologiche della Zorzi, Ilterritorio padovano, pp. 46-49, e della Fasoli, Per la storia, pp. 221 s., vanno riviste, essendo basate su un documento oggi conosciuto in una edizione migliore, che smentisce le supposizioni fatte); per altri (Mor), è invece il figlio chierico, poi patriarca di Grado (identificazione che sembra di difficile accoglimento, se l'elevazione di Vitale al patriarcato di Grado è da porre, come pensa il Lenel, Venetianischistrische Studien, pp. 69 s. n. 2, già negli anni 961-62).
Quale che sia il significato da, attribuire all'atteggiamento del C. in questi anni turbati, è certo che quando Ottone I decise, nel corso della sua ultima discesa in Italia (settembre 966 - estate 972), di regolare i suoi rapporti con Venezia nell'ambito d'una globale sistemazione della situazione italiana, ed anche dei suoi rapporti con Bisanzio (è significativo che sia un Veneticus, certo Domenico, ad essere inviato a Bisanzio, nell'estate 967, per rispondere all'ambasceria che nell'aprile dello stesso anno era stata mandata a Ravenna dall'imperatore d'Oriente), il C. non seppe o non poté conservare quelle posizioni favorevoli nei confronti del Regnum che Venezia si era andata acquistando durante l'età dei deboli re italici.
Il tradizionale pactum che regolava i rapporti tra Regnum e ducato, da Ottone rinnovato il 2 dic. 967, nell'imminenza del suo viaggio a Roma per l'incoronazione imperiale del figlio Ottone II (è datato da Roma, ma v. Fanta, Die Verträge, pp. 101 s.; Kehr, Rom und Venedig, p. 72), segna un netto regresso rispetto alle stipulazioni precedenti sia sul piano economico-fiscale, sia sul piano processuale, sia infine sul piano territoriale. Ricorderemo solo, riguardo al primo, l'introduzione del regime della quadragesima (imposta del 1,5% sul valore delle merci), esclusa qualunque riserva sui transiti fluviali; il riferimento all'"antiqua consuetudo", per quanto riguardava i diritti d'uso (pascolo, legnatico), e la negazione quindi di ogni altro titolo che potesse dar adito e diverse e più favorevoli condizioni. Si aggiunga, per quanto riguarda il secondo, la sostituzione del procedimento sommario al procedimento formale nelle azioni dipendenti da negozi commerciali. Per quanto riguarda infine il piano territoriale. politicamente il più significativo, sono da segnalare la scomparsa, tra le pertinenze del ducato veneziano, a sud di Chioggia, di Brondolo, e Fossone, località di primario interesse per la laguna sia da un punto di vista economico, (erano centri di produzione del sale), che da un punto di vista commerciale. controllando esse le vie terrestri e fluviali (Brenta, Adige) che portavano all'interno verso Padova e Verona; e a nord la scomparsa di ogni determinazione dei confini di Cittanova nella zona tra Piave e Livenza di grande importanza per i traffici con il nord delle Alpi, scomparsa che lasciava adito a qualsiasi prevaricazione da parte dell'autorità centrale, o di quelle locali (basti pensare alla lunga lotta che il doge Pietro Orseolo (II) dovette sostenere proprio in questa zona con il vescovo di Belluno Giovanni negli anni 995-96). Da sottolineare, infine, il fatto che il censo periodico previsto nel passato a titolo di ricognizione dei benefici ricevuti con il pactum assume il titolo di tributum ed il carattere di perpetuità (vedi Cessi, Pacta Veneta, pp. 269-85, e Fanta, Die Verträge, pp. 97 s., 101 s.).
La critica non è concorde nell'interpretazione soprattutto giuridica, ma anche politica di questo pactum ottoniano. Il Cessi (Politica, p. 214), cercando di svalutarne i lati negativi, afferma che "la revisione allora compiuta assumeva nella forma e nello spirito un valore tecnico piuttosto che politico" e che "i ritocchi che si incontrano nel patto del 967... non autorizzano tuttavia a presumere un mutamento di stato giuridico né una offesa all'indipendenza ed all'autonomia del ducato veneziano di fronte alla sovranità imperiale"; lo stesso studioso nell'ediz. del 1963 del Venezia ducale, p. 328, ammette l'onerosità per Venezia delle clausole, ed in sostanza, p. 343, il loro valore politico ("è aumentata la pressione politica da parte dell'Impero per consolidare ed estendere la sfera di predominio nella vita italiana", I, p. 343), ma escludendo un valore giuridico ("nelle quali variazioni non si può ravvisare il riflesso di una tendenza di assorbimento del ducato da parte dell'autorità imperiale", p. 328). Ben diverse erano state le primitive posizioni dello stesso Cessi sul problema: "La politica ottoniana ha nettamente reagito alla dottrina veneziana fiorita negli ultimi tempi... opponendo una concezione antitetica col negare al ducato persino il titolo di proprietas e col trasformare il ducato in un territorio tributario dell'Impero. Il pactum inter vicinos... nella concezione ottoniana è diventato realtà, e se il territorio ducale non è esplicitamente chiamato suddito e parte integrante dell'Impero, tutti gli elementi di fatto e di diritto sono allineati in modo da accreditare tacitamente tale verità" (Pacta, p. 185). Il Mor accetta le valutazioni del Cessi citate per ultime (per le posizioni di precedenti studiosi, come lo Schmeidler, ed il Lenel, vedi Mor, L'età, I, p. 502 n. 1, e Uhlirz, Die Sttadrechtliche Stellung Venedig, pp. 82 s.).
È chira la debolezza del C. di fronte alla volontà politica di Ottone I di controllare a sud e a nord gli sbocchi del ducato veneziano sulla terraferma. Può darsi che si possa mettere questo atto di forza di Ottone anche in rapporto con le sue relazioni con Bisanzio di fronte a cui l'imperatore sassone maneggiò sempre e contemporaneamente l'arma diplomatica e la minaccia militare. Proprio all'indomani della stipulazione del pactum con Venezia era ritornato a Roma, reduce dalla sua missione presso l'imperatore bizantino, quel Domenico Veneticus che era partito nell'estate, latore di controproposte inaccettabili per Ottone I. A ben alto prezzo per Venezia il C. aveva pagato l'appoggio che Ottone gli aveva dato, se bisogna accettare l'ipotesi più diffusa sulla sua precedente politica, sia pure considerati i ricchi beni ed il prestigio che l'imparentamento con l'imperatrice Adelaide gli avevano procurato. Né il precetto di tutela e salvaguardia dei beni veneziani posti "infra ditionem ac potestatem imperii nostri", rilasciato da Ottone contemporaneamente alla stipula del pactum, poteva essere un sufficiente compenso. Questo precetto, rilasciato dietro richiesta del doge, effettuata tramite Adelaide, era la riproduzione letterale del precetto rilasciato a Venezia da Lotario II nell'841.
A compensare la diminutio dello Stato veneziano intervennero tuttavia le decisioni prese a favore della sua Chiesa all'indomani del rinnovamento del pactum:queste se da una parte rafforzavano ancora la famiglia del C., dato che il suo figlio Vitale ne era il patriarca (v. W. Lenel, Venetianisch-istrische Studien, pp. 69 s., n. 2, che pone negli anni 961-62 l'innalzamento alla sede gradense del figlio del doge, il quale vi appare documentato per la prima volta solo nel luglio 971), dall'altra non erano senza conseguenze anche per il ducato. Il sinodo presieduto da Giovanni XIII che si tenne a Roma tra la fine del dicembre 967 e i primi di gennaio del 968, presente Ottone I, sinodo al quale il C., insieme con il patriarca, i vescovi ed il popolo veneziano, aveva inviato i suoi messi (così dice il Dandolo, p. 177: sono gli stessi che compaiono nel precetto di tutela e salvaguardia emanato da Ottone I il 2 dic. 967, e che forse avevano accompagnato Ottone nel suo viaggio a Roma), riconobbe, infatti, al titolare della Chiesa di Grado il titolo di patriarca e metropolita "totius Venecie". In questa occasione probabilmente, il pontefice provvide all'invio del pallio al patriarca. Il 2 genn. 968, poi, l'imperatore a sua volta rilasciava un privilegio a favore della Chiesa gradense. Si chiudeva così, per il momento, una lunga controversia dai molteplici risvolti, politico-economico-religiosi, che aveva visto in conflitto i titolari della Chiesa aquileiese e gradense, entrambi aspiranti alla primazia giurisdizionale nel territorio veneto-istriano, l'una rivendicando l'originaria sede patriarcale, la seconda sostenendone il trasferimento a Grado, da quando questa isola era divenuta il rifugio del patriarca aquileiese di fronte al pericolo longobardo. Era questo, dunque, un grosso successo per la Chiesa gradense, che vedeva riconosciuti anche sul piano del diritto una posizione, che sul piano di fatto nessuno le aveva negato, nonostante le sfavorevoli decisioni del sinodo di Mantova dell'827; il ducato da parte sua raggiungeva uno dei suoi tradizionali obiettivi, l'autonomia cioè anche nell'ambito ecclesiastico, non ultimo elemento per il suo irrobustimento e la crescita della sua coscienza civile. In particolare Venezia poteva così fronteggiare meglio la Chiesa aquileiese, il cui patriarca Radaldo aveva ottenuto nell'aprile 967 ampi benefici territoriali (Schmidinger, pp. 31 s.). Per quanto riguarda lo spinoso problema dei rapporti tra Grado e Aquileia, e la cronologia delle varie falsificazioni elaborate a sostegno delle rispettive pretese ed in particolare i suoi rapporti col sinodo romano del 967-68, il Lenel (Venetianisch-istrische Studien, pp. 20-27, 37, 67 ss., 71 s.) è in disaccordo col Cessi (Nova Aquileia, pp. 99-142). Il disaccordo verte sulla cronologia dello sviluppo della cosidetta primitiva teoria gradense, che il Cessi data già al momento del sinodo mantovano dell'827, ed il Lenel pone intorno al sesto decennio del sec. X, in coincidenza cioè con la promozione alla sede patriarcale di Grado del figlio del C., e la sua affermazione appunto al sinodo romano del 967-68 (vedi anche Kehr, Romund Venedig, pp. 14-26, 38 ss., 70-101: per ulteriori valutazioni sul sinodo romano vedi Schmidinger, pp. 12 s.; Cessi, Venezia ducale, I, p. 327).
Se mediante il pactum con Ottone I il C. aveva risolto i suoi rapporti con l'Occidente, rimasti poi sempre ottimi, come anche le vicende successive alla sua violenta morte dimostreranno, difficile doveva diventargli il governo all'interno del ducato. Non tutti potevano avere apprezzato i sacrifici imposti a Venezia, conseguenza della politica, per così dire, di terraferma, perseguita dal C., sia che si fosse svolta coerentemente in senso ottoniano, sia che si fosse diretta prima verso la fazione berengariana; né tutti potevano aver gradito quel rafforzamento che ne era derivato al potere del C. e della sua famiglia. Le allusioni del cronista veneziano circa l'"audacia" che contraddistinse l'attività del doge, non solo nei confronti degli "extranei", anche nei confronti dei "subditi", che opprimeva "virtutis rigore plus solito", e che lo doveva rendere "exosum... longo tempore" prima della sua morte violenta, sono assai significative in proposito e spia d'una opposizione che si sarebbe inasprita nel corso di ulteriori vicende e in seguito a provvedimenti dannosi per la vita economica veneziana.
Denso di significato è il modo con cui Venezia, nel luglio 971, obbedì alle ingiunzioni di non fare più commercio di materiale bellico (legname, armi) con gli Arabi, pena l'incendio delle navi veneziane con gli uomini ed il materiale trasportato, ingiunzioni delle quali erano latori messi imperiali bizantini giunti allora a Venezia "inquirentes de lignamine vel armis", e che sono certo da mettere in rapporto con le ostilità tra i Fatimiti di Egitto e l'Impero di Bisanzio nuovamente apertesi in Medio Oriente appunto in quell'anno 971 (per il significato di tali inquisitiones bizantine in relazione al problema della natura giuridica del rapporto intercorrente tra Bisanzio e Venezia, vedi le differenti opinioni del Cessi, Pacta, p. 298, e del Pertusi, L'Impero bizantino, p. 80, e Quaedam regalia, p. 113). A queste ingiunzioni non si ottemperò infatti sotto forma di una constitutio emanata dal C., sia pure con l'assenso dei suoi ottimati, ecclesiastici e laici, come era avvenuto per la regolamentazione del commercio degli schiavi appena undici anni prima, ma sotto la forma di una promissio fatta dall'assemblea radunata a consiglio ("residenti" il patriarca di Grado Vitale, i vescovi della laguna veneta, "astante magna parte populi, maiores, mediocres et minores"), al doge e ai suoi successori, di astenersi dagli atti che si volevano vietare, obbligandosi con una clausola penale liberamente scelta (Mor, L'età, II, pp. 166, 190 n. 78, parla di "vero capovolgimento della funzione legislativa"). Sembra cristallizzarsi simbolicamente in questa forma il distacco del populus dal suo doge e l'isolamento di quest'ultimo rispetto al primo, pur se a qualcuno è parso di poter vedere in questa formulazione i segni di un rapporto da fidelis a senior (Mor, Aspetti, p. 132). Particolarmente indicativa è la prevalenza, tra quelli dei sottoscrittori di questa promissionis carta, di nomi di uomini che saranno i protagonisti della storia veneziana immediatamente successiva a quella dei Candiano: Morosini, Coloprini, Orseolo. Questo provvedimento, preso sotto la minaccia di ritorsioni violente, doveva aumentare il disagio interno del ducato, poiché limitava evidentemente una delle attività più tradizionali del commercio veneziano, quello con le sponde arabe del Mediterraneo, così proficuo per Venezia in quel momento.
Se le prime attestazioni dei commerci veneziani in Siria ed Egitto sono già dei primi decenni del secolo IX (Pertusi, Bisanzio e l'irradiazione, p. 89), èla carta promissionis in questione che testimonia i rapporti del ducato anche con la Tunisia e la Libia (cinque navi veneziane si dicono già pronte a partire per i porti di al-Mahdiyyah, Cairouan, e Tripoli). Esigenze militari, ma anche civili, rendevano queste zone, in quel momento in grande espansione per l'impulso fatimita, clienti preziose per Venezia, data la loro estrema povertà di legno e di ferro, che la città lagunare raccoglieva dall'Istria, dalla Dalmazia e dalle zone alpine (legname), e dal Tirolo, dalla Stiria, dal Norico (ferro; cfr. Heyd, p. 113;Schaube, pp. 33 s.;Nallino, pp. 169 ss.; Lombard, Arsenaux et bois de marine, pp. 81-87 s;, 97 ss., e Un problème, pp. 243-46, 248, 253 s.). Ben poco poteva limitare il danno l'esclusione dal loro impegno del legname per suppellettili domestiche ("minutalia").
Invano Ottone I e Ottone II cercarono di rafforzare la famiglia del doge, concedendo il primo l'8 genn. 972 da Ravenna l'importante caposaldo di Isola d'Istria (vicino a Capodistria), su preghiera dell'imperatrice Adelaide, a Vitale Candiano Veneticus (identificatocol fratello del doge poi conte di Padova da Mor, De Vergottini, Venezia e l'Istria, Cessi; col futuro doge di Venezia da Schmidinger; col figlio del C. patriarca di Grado, ma senza nessuna probabilità, da Zorzi); confermando il secondo il 2 apr. 974 da Werla beni e giurisdizioni della Chiesa gradense nei territori aquileiese, istriano ed esarcale, al patriarca Vitale (per le interpolazioni subite da questo privilegio in relazione con lo sviluppo della cosidetta nuova teoria gradense, vedi Lenel, Venetianisch-istrische Studien, p. 68 n. 2; Kehr, Rom und Venedig, pp. 70-75; Cessi, Nova Aquileia, p. 114).
Dopo solo due anni da quest'ultima concessione, i Venetici, insofferenti da lungo tempo all'austeritas imposta dal C., portarono a termine il loro disegno di eliminare l'exosum doge, approfittando, probabilmente, anche della debolezza in cui si trovava l'impero a nord e a sud delle Alpi dopo la morte di Ottone I (7 maggio 973). Invano il C. si era premunito contro eventuali attacchi circondandosi nel palatium di milites (il Cessi pensa a quelli reclutati nel Regnum);il fuocoappiccato dai rivoltosi lo costrinse ad uscire dalsuo rifugio per l'adiacente atrio di S. Marco; qui affrontato da "nonnulli Veneticorum maiores", fra i quali anche alcuni suoi parenti (Cronaca... diaconoGiovanni, p. 139), non trovò quella misericordia che precedentemente, nell'anno 959, per merito di suo padre, gli aveva salvato la vita. Nonostante ogni promessa di "satisfacere omnia ad vestrum velle", venne ucciso, e con lui il figlioletto Pietro, che il doge aveva avuto da Waldrada. Era l'11 ag. 976. I loro cadaveri, portati prima nel mattatoio, vennero poi dalla pietà di Giovanni Gradenigo inumati nel monastero di S.Ilario, nella laguna di Fusina (Mestre), forse perché al centro della zona ove si trovavano estese proprietà del Candiano (v. L. Lanfranchi e B. Strina nella prefazione alla edizione delle carte del monastero di S. Ilario, p. XII n. 1). Ivi già riposavano due grandi dogi veneziani, Angelo e Giustiniano Partecipazio, fondatori del monastero. Durante l'incendio andarono perdute ben trecento case d'abitazione, e le chiese di S. Marco, di S. Teodoro e di S. Maria Zobenigo. La vedova del C., Waldrada, dopo aver regolato i suoi rapporti economici con il governo del ducato (che aveva proceduto alla confisca degli allodia del doge assassinato) rilasciando al nuovo doge Pietro (I) Orseolo ed al popolo veneziano nel settembre 976 una carta securitatis confermata poco dopo in un placito regio datato in Piacenza il 25 ott. 976, abbandonò definitivamente Venezia, con la quale in seguito non avrebbe più avuto contatti.
Altre personalità direttamente o indirettamente legate alla famiglia Candiano furono alla guida del ducato nel periodo immediatamente successivo alla morte del C., quando Venezia fu tormentata da una gravissima crisi interna ed esterna, dato che i parenti ed i seguaci del doge ucciso (e primo fra tutti il figlio di lui Vitale, patriarca di Grado, danneggiato anch'egli dalla confisca dei beni paterni) fecero ricorso per protezione ed aiuto all'imperatore Ottone II. Tra queste personalità ricordiamo un Vitale Candiano (il Dandolo lo dice fratello del C., ma si veda in proposito Cessi, Venezia ducale, I, p. 338 e nota 5), il quale, dopo aver cercato di giungere ad un accordo con Ottone II che fosse ragionevole anche per Venezia (ma il tentativo fallì, nonostante la mediazione del suo omonimo congiunto patriarca di Grado), fu costretto a lasciare il dogato dopo circa un anno di governo (1º sett. 978-ottobre 979), e a ritirarsi in quel medesimo monastero di S. Ilario nel quale riposava il C. (si veda Cessi, Politica..., p. 223, e Venezia ducale, I, p. 339 per l'interpretazione da dare al "fedus" che Venezia avrebbe stretto con Ottone II in quell'anno, secondo la testimonianza di Giovanni diacono); e Tribuno Memmo (979-92), che aveva sposato una figlia del C. (Cessi, Venezia ducale, I, p. 340). Si tratta, comunque, di figure di secondo piano, incapaci di attuare una loro politica e succubi, specie il Memmo, delle fazioni che dilaniarono con le loro lotte Venezia sino a quando non prevalse la famiglia Orseolo con l'avvento (992) del grande doge Pietro (II).
Col C. terminò praticamente il predominio dei Candiano ai vertici del ducato veneziano, predominio iniziato nel terzo decennio del secolo X, pur rimanendo la loro una delle famiglie più cospicue ed influenti della città. Anche ai Candiano non riuscì, dunque, come non era riuscito nel passato ad altre famiglie gentilizie, di perpetuare il proprio dominio sulla città lagunare, scopo che si erano certo prefissi il terzo e il quarto doge di questo nome (si veda Cessi, Venezia ducale, I, p. 328 nota 2, per quanto riguarda la natura del governo instaurato dagli ultimi due Candiano a Venezia, in polemica con le tesi di quegli storici che considerano rivoluzionaria la loro azione rispetto alla tradizione veneziana). Per raggiungere uno scopo del genere non vi era infatti spazio in lina società come quella veneziana del momento, nella quale non dovevano esistere grosse disparità di forze tra le famiglie predominanti, il cui sostegno ed il cui consenso erano necessari a chi volesse mantenersi al potere (basti pensare al peso avuto dal populus al momento della rivolta del C. contro il padre), sostegno e consenso dati sino a quando continuava a persistere una certa comunanza di interessi (Mor. L'età, II, p. 164), a meno di non ricorrere a forze esterne, sempre pericolose ed aleatorie, come aveva cercato appunto di fare il Candiano. Eppure i tentativi operati dal C. e dal padre per dare una diversa fisionomia alla vita interna del ducato, sia pure al fine di una affermazione personale, lasciarono qualche traccia nel costume e nella terminologia giuridico-istituzionale veneziana per più di un secolo, se si vogliono accogliere le osservazioni fatte dal Mor (Aspetti, p. 132 e passim)e dal Pertusi (Quaedam regalia, p. 110 e passim). Sono queste il giuramento di fedeltà da parte del populus al doge, il termine di senior a questo riferito, pur se privo di contenuto feudale vero e proprio (Mor); gli inizi d'una evoluzione negli usi dell'investitura dogale, che trasformerà la cerimonia da puramente civile e quasi privata in cerimonia religiosa (Pertusi). I traumi violenti e le crisi profonde, attraverso cui si verificò poi il fallimento dell'alternativa offerta allo sviluppo esterno del ducato dalla politica degli ultimi Candiano, contribuirono non poco all'identificazione dei veri interessi della vita veneziana ed alla maturazione della sua coscienza civica: degli uni e dell'altra saranno magnifici interpreti, tra la fine del X e gli inizi dell'XI sec., sul piano storico Pietro Orseolo (II; 992-1007) e sul piano storiografico la cronaca veneziana attribuita a Giovanni diacono (Fasoli, I fondamenti, pp. 19-23).
Significativamente, alla ripresa di più stretti rapporti con Bisanzio, così trascurati dal terzo dei Candiano in poi, con gravi disagi per Venezia oggetto delle diffidenze orientali, i Venetici non saranno più considerati dallo stesso Impero d'Oriente come sudditi, ma come extranei, vedendosi così riconosciuta una "fisionomia politica" e "sopratutto giuridica nuova" (crisobulla del 992 a Pietro Orseolo (II): Pertusi, Quaedam regalia, pp. 113 s., che qui fa uso polemico di parole del Cessi con il quale non concorda sulla cronologia dell'evoluzione del rapporto giuridico Venezia-Bisanzio).
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