CAPPELLO, Pietro
Nacque a Venezia, il 5 giugno 1583, da Vittore (1529-1593) di Pietro e da Virginia di Francesco Montini.
Sposatosi il 25 genn. 1621 con Cecilia di Giovanni di Marcantonio Falier, ne ebbe una figlia, Orsa moglie di Matteo Pizzamano di Marco e, poi, di Angelo Malipiero di Francesco, e quattro figli, Vittore, Giovanni, Francesco e Vincenzo. Il primogenito Vittore morì, appena ventitreenne, combattendo nel 1646 a Candia, come ricorda Marco Trevisan nelle Pompe funebri…(Venetia 1657, p. 58).
Il C. - che, dal testamento da lui dettato ammalato, il 27 ott. 1616, nella sua "solita abitazione del confin di S. Maria Formosa", al notaio Andrea D'Ercoli, appare possessore di terreni dati in affitto nel Veronese, della "villa di Bovolon" e di case affinate a Venezia - si diede alla carriera politica, senza però emergervi; tantè vero che Giacomo Zabarella, nel Pileo overo nobiltà heroica... dell'eccellentiss. famiglia Capello (Padova 1670), ove non risparmia elogi e menzioni a svariati Cappello, nemmeno lo nomina. Piuttosto modeste in effetti le cariche da lui ricoperte. Eletto, il 5 nov. 1628, provveditore a Cividale del Friuli, vi risiede dall'aprile del 1629 al luglio del 1630, angustiato dalla condizione "miserabile" dei "destrittuali", dalla "strettezza di vito" che gli "dà non solo da pensare, ma da sospirare", dallo stato delle mura in molti punti pericolanti. Nominato quindi, il 28 sett. 1631, podestà e capitano di Capodistria, inizia il "reggimento" il 6 marzo 1632 e lo detiene sino all'11 ag. 1633, rivelandovi doti di probità ed energia, nell'opporsi alle pretese di eccessivo controllo su di lui avanzate dal provveditore generale in Istria Nicolò Surian e, più ancora, nella volontà di introdurre una più oculata e severa contabilità nella gestione di "questa camera ... intachata" di oltre 1.000 ducati, dalla "cassa" completamente vuota.
Aspra e coraggiosa la sua denuncia nei confronti dei "podestà delle terre et luochi di questa provincia", soliti ad assentarsi "per longo spacio di tempo" dai "loro regimenti", lasciando libero corso alle soperchierie di "pochi capporioni", ingordi, prepotenti e venali. "Onde ne nasce... il dano... et... la desolatione della provincia, restando ben spesso... la... viceregenza in mano a' cancellieri et talvolta a' cavallieri", smaniosi di rifarsi del capitale investito per l'acquisto della carica e, in più, di ingenti guadagni, perseguiti con "avidità insaciabile". Sì che ai "poveri sudditi... il sangue... da queste arpie vien loro succiato dalle vene": è quanto sta avvenendo, ad esempio, a Terra d'Isola, ove, assente il podestà Marco Pizzamano, la "crudel tirannide" dei consiglieri s'esercita "con sfrenato arbitrio".
Il drammatico quadro fatto dal C. induce il Senato ad autorizzarlo, il 12 ag. 1632, a "riveder li lochi della provincia et fare in cadauno un sindicato per reintegrarne li fontichi scole et comunità et portar sollievo a' sudditi". Il C., tra l'agosto e il novembre del 1632, compie con zelo la richiesta ispezione, in qualità, appunto, di "giudice delegato nella materia di comunità, fontichi et scole di tutta la provincia dell'Istria".
A Terra d'Isola fa pagare i debiti, risarcire gli "intachi", regolarizzare i libri contabili, e lascia "ordini tali" da rendere più difficili futuri abusi; a Muggia condanna i "molti abusi e disordini"; reagisce energicamente alle difficoltà ed intralci posti alla sua visita dal podestà di Pirano Giacomo Barbaro e da quello di Rovigno Gerolamo Donà. E proprio a Rovigno ravvisa "abusi e corruttelle introdotte da persone di pessima conscienza", sensibili solo alle esigenze del proprio tornaconto; per impedire ulteriori irregolarità il C. dispone che le spese siano discusse e "ballottate" in "colleggio" e che "alcun cittadino non possi esser elletto et incaricato più d'un solo offitio".
Il C. denota anche una notevole indipendenza di giudizio: quando il Senato, il 12 genn. 1631, gli ordina di impedire il ripetersi di diserzioni nelle milizie ed espatri di sudditi per arruolarsi al soldo dell'Impero, non esita a far presente che "eccitamento gagliardo alla fugha de' soldati, tamburi, caporali, sargenti et capitani delle ordinanze è il non poter impetrar da questa estenuatissima camera li loro stipendi e salari. Molti mesi sono li quali con altri sallariati sono reddotti in stato, con le loro povere famiglie, che moverebbero a pietà un cor di pietra".
Non convenzionale è l'elogio del successore, Giov. Maria Bembo: il C., scrive al Senato il 18 ag. 1633, "come ha lasciato questi popoli in stato pacifico et tranquillo et la città molto ben tenuta et governata, così lascia a me una norma di proseguir i suoi lodevoli prestigi". Il che autorizza a concludere che il C. meritava d'essere meglio valorizzato dalla Repubblica e a supporre che forse fu personalità troppo libera per non attirarsi inimicizie tali da compromettergli la carriera politica.
Morì a Venezia il 26 apr. 1658.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 55, c. 60v;91, c. 71v; Ibid., Provveditori alla Sanità, 879, alla data di morte; lettere del C. da Cividale e da Capodistria, Ibid., Senato. Lettore rettori Udine e Friuli, filze 18 e 19, e Senato. Lettere rettori Capodistria Maran Grao, filze 25 e 26 e Capi del Cons. dei Dieci,Lettere di rettori e altre cariche, buste 186, nn. 279, 280; 257, nn. 188, 192, 193, 197, 198; copia del testamento del C. del 27 ott. 1616 in Venezia, Civico Museo Correr, mss. P.D. 2500/II, cc. 25v-31r; S. Cella, Albona, Trieste-Padova s.d., p. 210.