CASTELLI, Pietro
Nacque a Roma tra il 1570 e il 1575 da Francesco e Diana de Giorgi. Compì gli studi di medicina nel Collegio della Sapienza sotto maestri insigni come Andrea Bacci per lo studio delle piante medicinali, Marsilio Cagnati per la medicina teorica e A. Cesalpino, giunto a Roma nel 1592, per la medicina pratica e la botanica. Profonda fu l’orma che l’insegnamento del Cesalpino lasciò su di lui, che cita assai spesso il maestro come un’autorità indiscussa in varie questioni mediche. Anche il C., come il Cesalpino, divenne ippocratico, ma non al punto da disprezzare le esperienze che ogni buon medico può compiere direttamente. Iniziò a scrivere un commentó ad Ippocrate (Hippo cratismateria medica), rimasto manoscritto secondo l’Allacci, e anche più tardi la sua devozione per Ippocrate, come anche per il Cesalpino, non venne mai meno. Conclusi gli studi, nell’anno 1594 il C. divenne professore di botanica (o, come allora si diceva, maestro dei semplici), carica che esercitò a Roma per quarant’anni, anche se il titolo di professore venne da lui assunto solo nel 1630. Forse prima di tale data, pur esercitando l’arte dei semplici in privato, insegnava pubblicamente solo retorica, filosofia e chimica. La protezione del principe Barberini gli facilitò l’ingresso all’università romana, ma poté occupare la cattedra di medicina e botanica solo alla morte di G. Faber, in precedenza supplito temporaneamente da A. Nanni. Continuava tuttavia l’insegnamento privato, cioè la preparazione degli allievi che dovevano sostenere esami sui semplici all’università. Successe al Faber anche nella direzione dell’Orto dei semplici fino al 1634, anno in cui si trasferì a Messina. In questo primo periodo romano, oltre alle lezioni universitarie (nel 1627 sui sintomi, nel 1628 sulle urine, nel 1629 sulle malattie infantili, nel 1630 sui libri I e II di Dioscoride, nel 1631 sui minerali), la produzione, del C. è già abbastanza ricca, prevalentemente con opere sulle piante medicinali: Chalcantinum Dodecaporion, Romae 1619, in dodici note polemiche contro il medico R. Minderer sull’uso dell’olio di vetriolo o acido solforico; Defensio antiquorum utentium Arsenico et Sandaraca, ibid. 1619, opera che trovò molti riconoscimenti anche fuori d’Italia; Discorso della duratione delli medicamenti tanto semplici, quanto composti, ibid. 1621, in cui sono messi in rilievo gli errori contenuti nell’Antidotario romano (di questo, il C. non solo scrisse delle Annotazioni, Roma 1632, ma curò un’edizione commentata, stampata a Cosenza nel 1648, in cui riporta i nomi dei primi autori delle varie composizioni medicamentose, mentre un’altra edizione latina e volgare, tradotta da I. Ceccarelli e curata dal C., con l’aggiunta di nuove ricette pubblicate dal Collegio dei medici di Roma, era già stata stampata a Roma nel 1639); Breve ricordo dell’elettione, qualità e virtù dello spirito, e dell’oglio acido del vitriolo, Roma 1621; Pharmaceutica cioè, Arte della spetiaria, ibid. 1622; Theatrum Florae, in quo ex toto orbe selecti flores proferuntur, Parisiis 1622, con 69 tavole molto pregiate; Epistolae medicinales, Romae 1626. Con le epistole De Elleboro, ibid. 1622, il C. con molta erudizione dimostrò, contro l’opinione di G. Manelfo ed E. Cleto, che, ogni volta che negli scritti di Ippocrate si parla dell’elleboro, si fa riferimento a quello bianco, usato dagli antichi per la cura della pazzia, e non a quello nero. L’opera più nota e di maggior impegno di questo periodo fu certamente Hortus Farnesianus, Romae 1625, ch’egli pubblicò sotto il nome dell’amico Tobia Aldini, medico di Cesena e direttore del giardino botanico del card. Odoardo Farnese a Roma.
Si tratta di una descrizione (il titolo esatto infatti è Exactissima descriptio rariorum quorundarum plantarum quae continentur Romae in horto Farnesiano) precisa e minuziosa, anzi a tratti perfino prolissa, ma sempre esatta e propria, delle specie presenti in quel famoso giardino botanico e dei vari organi di esse. Per la prima volta vi si parla dei fiori dell’agave americana e vi viene descritta una specie nuova di acacia detta farnesiana. Assai pregevoli pure le illustrazioni, che il C. usava fare di propria mano, tra cui eccellenti quella del ricino americano, del lauro indiano, del convolvolo portoghese, dell’elleboro.
Altre opere del periodo romano sono Theses philosophicas et medicas, Romae 1627; De abusu phlebotomiae, Romae 1628, col quale, in tempi in cui salassi e flebotomie erano assai praticati, si oppone a un uso troppo generalizzato di essi; Incendio del monte Vesuvio, Roma 1632, per cui fu giudicato buon alchimista; lo scritto didattico De visitatione aegrotantium pro discipulis ad praxim instruendis, Romae 1630; il Discorso dell’elettuario rosato di Mesué, Roma 1631 in cui si parla delle rose adoperate in tale elettuario; Emetica in qua agitur de vomitoriis et vomitu, Romae 1634, che segue la dottrina di Ippocrate, di Galeno e di Paracelso, ma utilizza pure l’esperienza stessa del C.; Tripus Deiphicus, Neapoli 1635, sulla prognosi delle malattie, argomento ripreso in De optimo medico, Romae 1637, Messanae e Neapoli 1637.
Quest’opera conferma il sostanziale ippocratismo del C., corretto da un ragionevole uso dell’esperienza, necessaria per ben osservare e giudicare. Inoltre il buon medico dev’essere fornito non solo di nozioni mediche, ma anche di quelle relative ad altre scienze, come la botanica e la chimica. Un sano empirismo deve guidare il medico sia nelle diagnosi sia negli studi scientifici. Il C. invita ad accettare della dottrina del passato tutto ciò che l’esperienza avrà confermato per vero; solo così sarà possibile ampliare il patrimonio della medicina senza cadere in errore. Quest’opera è in parte autobiografica, in quanto vi sono parecchie notizie sugli studi del C., sulle sue opere, pubblicate e da pubblicare, talvolta con un eccessivo compiacimento.
Lo scritto De qualitatibus frumenti cuiusdam Messanam delati anno 1637, Neapoli 1637, dedicato al Senato di Messina, testimonia che il C. in quell’anno era già in Sicilia, chiamato dal Senato messinese ad insegnare chimica e anatomia all’università nel periodo della sua maggior fioritura; si occupava pero prevalentemente di botanica, contrariamente ai suoi predecessori.
Un gruppo di valenti scienziati, tra cui oltre al C. va ricordato almeno il Malpighi, fece sì che la botanica, da arte di riconoscere i semplici e le droghe vegetali necessari per la confezione di medicamenti, divenisse scienza descrittiva e sistematica, ponendo le basi della botanica istologica. Agli antichi “maestri delli semplici” si sostituirono docenti di gran fama, influenzati dalle dottrine classificatorie di Andrea Cesalpino. Ma non accontentandosi di esse, il C. avvertì l’esigenza dell’allestimento di un orto botanico, a cui contribuì egli stesso recandosi spesso nelle campagne e sulle montagne circostanti a raccogliere semi e piante, nonché fossili, insetti ecc. Per ampliare le sue raccolte utilizzò le sue amicizie, e attraverso una fitta corrispondenza si fece inviare del materiale dai più vari paesi d’Europa, d’Africa e d’America. Lo aiutarono in questo lavoro, tra gli altri, il Severini da Napoli, il Panaroli da Roma, il Wesling da Padova, il Worm dalla Danimarca. Organizzò così un orto dei semplici, il primo in Sicilia e tra i più ricchi d’Italia, e un museo anatomico e di storia naturale, per il quale egli in persona ricostruì molti scheletri di animali.
Nel suo Hortus Messanensis, Messanae 1640, il C. offre una descrizione precisa e minuta delle specie vegetali coltivate, iniziata al solo scopo di fame quasi un registro da far conoscere ad amici o ai cultori della botanica. Ma l’opera venne crescendogli fra le mani e arricchendosi di dati storici e scientifici di gran valore, tanto da costituire l’opera più importante della ricca bibliografia castelliana.
In essa è tracciata la storia della fondazione dell’Orto, i lunghi anni di preparazione e di attesa (ben cinque) prima di ottenere il terreno adatto e un sussidio per iniziare i lavori. Il terreno era stato diviso in quattordici settori, contraddistinti da nomi di santi, a loro volta divisi in aiuole separate da sentieri, tutti convergenti verso una vasca centrale per ciascun hortulus, ove erano sistemate le piante acquatiche. Ciascun settore conteneva una distinta classe di vegetali, poiché secondo il C. ad una completa classificazione, che risente delle dottrine del Cesalpino, erano sufficienti quindici genera: I) Unisemina; II) Univascula; III) Bisemina; IV) Siliquosa; V) Trisemina; VI) Bivascula; VII) Quadrisemina herbacea; VIII) Trivascula; IX) Quadrisemina surculosa; X) Multivascula; XI) Capitata; XII) Corymbifera; XIII) Coronata; XIV) Aculeata; XV) Capillaria, Musci et Aquatica. La disposizione delle piante, che erano suddivise in base alle affinità in natura, seguiva un criterio razionale, tassonomico, che preludeva al concetto di famiglia e aboliva la distinzione tra piante erbacee e piante legnose, servendosi del principio della fruttificazione o di altri criteri (disposizione dei fiori, loro forma, ecc.) e rifiutando disposizioni troppo empiriche, come il raggruppamento di tutte le piante fornite di spine. Quest’opera, ancora informata qua e là ad un teleologismo dogmatico e non priva di pregiudizi ed errori, si rifà tuttavia ai giusti principi di una retta educazione scientifica di impronta sperimentale. Nel 1644 l’anatomico danese Thomas Bartholin, in visita nell’Italia meridionale, descrisse con alte lodi l’opera quasi sconosciuta del C. e il suo Orto, che tra le piante più curiose, oltre ad erbe medicinali esotiche di vario genere, vantava perfino il dittamo e il baobab. Lo stesso C. lavorava nell’Orto come fosse cosa sua, seguiva la crescita delle piante e si adoperava in ogni modo per arricchirne gli esemplari. Triste fu la sorte di quest’Orto: passato, alla morte del C., alle cure del Malpighi e del suo discepolo C. Fracassati, alla morte di quest’ultimo iniziò un periodo di decadenza, che si concluse nel 1678, quando, chiusa l’università, fu completamente distrutto, ed i soldati spagnoli vi mandavano i loro cavalli a pascolare.
Insieme al Bartholin, il C. studiò pure la flora dell’Etna, descritta in varie lettere. Tra le altre opere del periodo messinese vanno ricordate: Memoriale per lo spetiale romano, Messina 1638, in cui insegna a raccogliere e a seccare radici, erbe, fiori nel periodo migliore per Roma; Chrysopus, cuius nomina, essentia, usus facili methodo traduntur, Messanae 1638, un trattato sulla storia naturale e sull’uso della gomma gotta; De Hyena odorifera zibethum gignente exetasis, Messanae 1638, Francofurti 1668; Opobalsamum examinatum, defensum, iudicatum, absolutum et laudatum, Messanae 1640, e Opobalsamum triumphans, edito in tre diverse edizioni a Roma, Venezia e Basilea nello stesso anno 1640, sulla polemica del balsamo, celebre a quel tempo.
Gli aromatari romani Manfredi e Panuti usavano preparare la teriaca, elettuario allora molto usato, con un balsamo della Mecca portato dal Cairo da Cosmo de Negri, suscitando l’opposizione di molti farmacisti romani. Il papa elesse allora come giudici della lite gli archiairi Collicola e Ubaldini, davanti ai quali si fecero le prove, negative per Manfredi e Panuti. Il C. invece difese questi due medici, sostenendo che il loro balsamo, anche se non risultava molto odoroso, era dotato di molte buone qualità ed era valido secondo la dottrina antica.
Le ultime opere testimoniano anche gli interessi medici del C., legati alle virtù curative delle piante: An Smilax Aspera Europea sit eadem ac Salsa Parilla Americana..., Messanae 1652, in cui sostiene che le differenze tra le due piante sono minime; Responsio chymiae de effervescentia et mutatione colorum in mixtione liquorum chymicorum, Messanae 1654, sulla corteccia peruviana. Dopo una vita più che ottuagenaria morì a Messina nel 1661 e fu sepolto nella chiesa dei francescani.
Noto al suo tempo soprattutto come eccellente semplicista, il C. ebbe il merito di sviluppare e diffondere certi principi botanici del Cesalpino; la sua vasta erudizione gli permise di conoscere non solo le proprietà dei vegetali, ma altresì le loro forme e caratteristiche, e insieme discorrere di mineralogia, di zoologia, di chimica e di tutte le scienze necessarie all’“ottimo medico”, fornito di scienza ed esperienza.
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