CEOLDO, Pietro
Nato a Padova il 27 genn. 1738 da Antonio e Pasqua Tentori, studiò filosofia e sacra teologia sotto la guida di alcuni gesuiti e poi di Alberto Calza e Giovan Domenico Stopin. Ordinato sacerdote (1762), entrò nel 1766 al servizio di Alessandro Papafava, vescovo titolare di Famagosta, e anche dopo la morte di questo (24 febbr. 1770) rimase presso quella famiglia, alternando l'attività pastorale nel duomo, presso cui ottenne ben presto una cappellania residenziale, alle funzioni di segretario e istitutore dei giovani Francesco e Alessandro Papafava. Nell'atmosfera tranquilla e apparentemente immobile della Padova settecentesca il C. sembrava avviato ad una serena esistenza di studio e di dedizione agli interessi dei Papafava, quasi incurante del turbinoso ribollire delle idee illuministiche che dalla Francia stavano penetrando nelle classi colte della vecchia Repubblica. Non all'università e alla sua secolare tradizione culturale né agli ambienti vivaci e raffinati del nascente illuminismo padovano andavano le simpatie del severo e ortodosso C., che invece approfondì i giovanili studi di storia ecclesiastica con l'amicizia e l'assidua frequentazione di due prestigiosi esponenti dell'erudizione municipale, Giuseppe Gennari e Giovanni Brunacci. Il primo lo indirizzò alla conoscenza e all'assimilazione della grande lezione del Muratori, lo introdusse nel circolo degli eruditi veneti del tempo e gli fu prodigo di consigli nel suo lavoro di ricerca e nelle tormentate vicende della sua vita; il secondo gli fece da guida nelle difficili indagini tra l'immensa e ancor disordinata documentazione degli archivi padovani. Quando il Brunacci morì prima di aver completato la sua monumentale Storia ecclesiastica di Padova, il C. si affrettò a trascriverne fedelmente un esemplare pervenutogli fortunosamente in casa Papafava e scrisse nel 1792 un ampio Discorso preliminare, (Padova, Arch. priv. Papafava, ms. 18; altre copie nella Bibl. civica, ms. B. P. 381), tutto pervaso di caldo entusiasmo per quel "pezzo originale, un monumento prezioso, un capo d'opera di patria storia", e tuttora strumento indispensabile per la conoscenza della biografia dell'autore e della contrastata genesi dell'opera.
Nei primi anni di permanenza in casa Papafava il C. era stato costretto a "dar bando ed alli divertimenti, ed alle carte antiche" ma nel 1769 gli "empij" decreti della Deputazione ad pias causas che sopprimevano e secolarizzavano la vecchia badia di S. Stefano di Carrara lo richiamarono quasi per caso a un più severo e immediato impegno storiografico. Già da tempo andava riordinando l'archivio Papafava, arricchendolo di medaglie, codici e diplomi, destinati a costituire le solide basi di minuziose ricerche sull'origine e sviluppo della casata, ma forse mai si sarebbe deciso a dar ordine e struttura organica alle sue fatiche archivistiche ed antiquarie se la sua vita non fosse stata drammaticamente sconvolta dall'improvvisa irruzione della "polemica" e delle dissacranti esperienze illuministiche. Essendo state cedute l'abbazia e la chiesa di S. Stefano al cavaliere Erizzo desideroso di ridurle allo stato laicale e di alienarle, il C. si affrettò ad acquistarle e riadattarle al culto e quasi contemporaneamente concepì l'idea di tracciarne la lunga storia strettamente legata alle vicende politiche dei Papafava.
Mentre il C. rimaneva chiuso nel suo angusto mondo di erudizione locale, la società circostante mutava con rapidità, tracciando un solco di incomprensione e di ostilità tra le vecchie generazioni e i giovani fautori delle nuove idee "francesi". Le empie "massime moderne" che così ferocemente l'amico Gennari andava bollando nelle sue amare annotazioni giornaliere, stavano penetrando anche a Padova, contaminando l'ambiente dell'università e frazioni non trascurabili della nobiltà e della borghesia già largamente rappresentate nella loggia massonica scoperta dagli Inquisitori nel 1772. Proprio nella famiglia Papafava le idee francesi di eguaglianza e libertà avevano attirato la stessa contessa Arpalice, vedova del conte Giacomo, colta e vivace animatrice di un salotto frequentato dai più accesi simpatizzanti della Francia giacobina. In una casa divenuta ormai centro di riunioni di uomini come Gerolamo Polcastro, marito di Caterina primogenita di Arpalice, i de Lazara, i da Rio, Simone Stratico, Gerolamo Dottori, Luigi Savonarola, tutti i futuri capi della Municipalità democratica, il C. si trovava sempre più a disagio, isolato, contestato, relegato al ruolo di antiquato e retrogrado difensore di idee e valori ormai vecchi e superati.
Furono anni amari per il C. che, ascoltando con angoscia le notizie sulla Rivoluzione francese, si incupì progressivamente per la "malvagità de correnti tempi", osservò con terrore la travolgente avanzata delle armate napoleoniche che demolirono in pochi mesi il secolare edificio della Repubblica. Passati rapidamente gli "infausti mesi" dell'"odiata Tirannide Democratica", il C. tirò un sospiro di sollievo ("refulsit sol") durante la breve dominazione austriaca per ripiombare nella più nera disperazione di fronte ai rinnovati successi delle armate napoleoniche accolti con entusiasmo dalla "Gazza domestica" (Arpalice Papafava) che egli considerava la causa prima del traviamento "democratico" dei due orfani Francesco e Alessandro.
Il triennio 1799-1802 fu per il C. un vero calvario: secondo lui la "moderna filosofia" aveva traviato le coscienze dei cristiani, la costituzione cisalpina si era sostituita alla Sacra Scrittura nelle regole dell'umano operare e un corrosivo spirito di irreligiosità travolgeva le basi stesse della vita sociale trasformando il popolo in "un ammasso di leoni, di tigri, di fiere". Di fronte all'aperta adesione di Arpalice e dei suoi figli alla Municipalità democratica e poi al governo napoleonico il C. consumò il suo definitivo distacco dalla famiglia Papafava: "occupati in produzioni o di amena letteratura o di brillante filosofia", Francesco ed Alessandro sdegnavano di leggere gli "scartafacci" del C. sulla loro casata e, incuranti di una fatica erudita che ripercorreva nove secoli di "distinta continuata nobiltà", preferivano rivolgersi col cuore e col braccio all'astro dell'Europa futura, Napoleone Bonaparte. Respinta dai Papafava l'offerta della chiesa di S. Stefano, che il C. aveva fatto restaurare, e accolto con gelida indifferenza l'Albero della famiglia Papafava, frutto di decennali ricerche, nel marzo del 1800 egli venne anche allontanato dalla casa presso cui aveva passato gli anni migliori della sua vita e si ritirò a vita strettamente privata dividendo il suo tempo tra gli studi nella Biblioteca del seminario e lo scrupoloso adempimento dei suoi doveri sacerdotali.
Le sue opere storico-erudite nascono in questo ambiente agitato da contrasti ideologici e politici e anche nella loro tormentata vicenda esteriore testimoniano in modo emblematico la fine dell'Ancien régime in un uomo della vecchia generazione che si sente più vittima che protagonista dei nuovi tempi. L'Albero della famiglia Papafava, edito a Venezia nel 1801, è nelle intenzioni del C. opera di pura erudizione destinata a ricostruire le vicende biografiche della casata, purgandola dalle leggende e dall'accusa di non discendere veramente dai Carraresi; ma nella prima redazione manoscritta, ora conservata alla Bibl. del seminario (cod. 274), non rinuncia a una polemica astiosa e oscuramente allusiva contro la contessa Arpalice, ritenuta il genio malefico della famiglia, e causa di tutte le disgrazie. L'uso sistematico dei Rerum e degli Annali del Muratori, degli scritti e delle fonti del Verci, del Brunacci, del Gennari e soprattutto del ricchissimo archivio di casa Papafava, fa dell'Albero una completa e minuziosa ricostruzione delle vicende storico-biografiche della famiglia, tutt'ora fonte preziosa per la storia dei Carraresi in età medievale e moderna. Anche le Memorie della chiesa ed abbazia di S. Stefano di Carrara nella diocesi di Padova (Venezia 1802) vengono alla luce dopo un iter travagliato e non privo di polemiche e contrasti. Il manoscritto conservato nella Biblioteca del seminario (cod. 273; un esemplare a stampa postillato dal C. è nel cod. 275) contiene numerose annotazioni di sapore biografico, duramente polemiche sia contro Arpalice Papafava e le "massime francesi" da lei inculcate ai figli, sia contro il governo della Repubblica veneta, responsabile di numerosi atti di tradimento contro la famiglia dei Carraresi ed "empio anticipatore" delle soppressioni napoleoniche con le famose leggi del 1764-1766. Al governo austriaco da poco restaurato a Venezia non potevano piacere la denuncia troppo accesa della politica giurisdizionalistica del governo della Serenissima, di cui Vienna mirava a recuperare e valorizzare uomini e tradizioni, né tanto meno una troppo dura polemica contro la Municipalità democratica e la Repubblica cisalpina, capace di riaprire contrasti e inquietudini dannose per l'ordine pubblico e così l'opera venne ampiamente censurata dal revisore Benedetto Volpi. A parte lo spirito polemico, peraltro molto attenuato nella versione a stampa, le Memorie si presentano come una densa e documentata dissertazione erudita sulle vicende dell'abbazia e della chiesa dalle lontane origini medievali (1027) alla definitiva soppressione del 1769 e sono condotte dal C. con il consueto rigore filologico e col ricorso ampio e intelligente a tutte le più importanti e sicure fonti allora conosciute.
Forse il C. meditava di ampliare e completare ulteriormente tanto l'Albero quanto le Memorie, come testimoniano molti suoi appunti ed annotazioni conservati nel seminario e nell'archivio di casa Papafava, ma una cecità completa sopravvenuta nel 1804 gli precluse un ulteriore impegno di studio e di ricerca. Sempre nella Bibl. del seminario di Padova si conservano del C. due sonetti (ms. 648 e ms. 1607-XV) e una raccolta di lettere a lui indirizzate (cod. 271). A Padova, da cui sembra mai si sia allontanato, morì il 30 sett. 1813.
Fonti e Bibl.: Padova, Bibl. del seminario, cod. 552: G. Gennari, Notizie giornaliere, f.1293; Giornale dell'ital. letteratura (Padova), 1802, p. 303; 1803, p. 145; 1804, p. 85; Nuovo Giornale de' letterati (Pisa), 1802, n. 8, p. 152; n. 9, p. 246; 1803, n. 6, p. 104; Novelle di letteratura, scienze, arti e commercio (Napoli), 1803, nn. 36-37, p. 142; G. Gennari, Annali della città di Padova, II,Bassano 1804, p. 73; G. Moschini, Della letter. venez. del sec. XVIII fino a' nostri giorni, I,Venezia 1806, pp. 60-61; A. Comin, Elogio del sig. abate dr. P. C. fu beneficiato della cattedrale di Padova, in Giorn. dell'ital. letter.,1814, n. 38, p. 143; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, I,Padova 1832, pp: 243-245; G. Cittadella, Storia della dominazione carrarese in Padova, Padova 1842, pp. XII-XIII; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni. Studii storici. Appendice, Venezia 1857, p. 30; Y. Toffanin, Il dominio austriaco in Padova dal 20 genn. 1798 al 16 genn. 1801, Padova 1901, pp. 16-17; P. Preto, P. C. (1738-1813) tra Ancien Régime e Rivoluzione, in Fonti e ricerche per la st. eccles. padovana, VII (1976), pp. 13-32; Dizionario biografico degli Italiani, XIV, s. v. Brunacci, Giovanni, pp. 518-523.