BONANOME, Pietro Cesare
Nacque nella prima metà del sec. XVIII, in una famiglia originaria di un villaggio della montagna che sovrasta Bellagio.
Secondo il consigliere De la Tour, che nel governo teresiano ebbe funzioni di ispettore alle manifatture, il padre del B. s'era trasferito a Corno intorno al 1732 per impiantarvi una manifattura di sete. Como era già allora un centro serico di qualche importanza, vantando un certo numero di filatoi che lavoravano la seta grezza prodotta nei dintorni, ma l'industria della tessitura vi era appena agli inizi e faticava a farsi strada. Il vecchio B., che mirava a fabbricare stoffe di un genere un poco più complesso e impegnativo di quello liscio ed estremamente povero in cui era più facile cimentarsi, dovette far giungere dall'estero non solo gli attrezzi indispensabili, ma anche gli operai che solo gradatamente poterono venire sostituiti con mano d'opera comasca. Egli morì intorno al 1761, ma già da un pezzo aveva passato le redini dell'azienda al figlio.
Fin dal 1749 il B. compare, infatti, in una supplica che quattro manifattori di Como rivolgono al Magistrato milanese, lamentando le continue vessazioni cui li sottoponevano i fermieri milanesi ogni volta ch'essi entravano nella capitale con un carico di seterie.
Per estendere il proprio giro d'affari, in quei tempi d'acceso protezionismo, il B. cercò di strappare alle autorità locali e centrali ogni sorta di privilegi, esenzioni fiscali e premi in denaro, in cambio dell'impegno assunto di volta in volta di introdurre nel paese questa o quella manifattura. Il Consiglio generale della città gli aveva già concesso diverse agevolazioni, fra cui l'immunità dalla tassa di mercimonio e da numerosi dazi civici; ma allorché il B., che produceva "amoerri" e "terzanelle" all'uso di Torino e di Lione, si offrì di aggiungere a questi generi i rasi e i "lustrini" alla maniera di Lione e d'Inghilterra, a condizione che gli venisse concessa la relativa privativa ventennale, onde ripagarsi dalle forti spese cui sarebbe andato incontro importando macchine ed uomini da nazioni lontane, la maggiore autorità cittadina non credette di poter accedere alla sua richiesta. Per nulla scoraggiato, e convinto di offrire un'opera di interesse generale, il B. si rivolse allora direttamente a Vienna e nel 1753 ottenne quanto Como gli aveva ricusato. Forte di questa concessione, poté imprimere alla sua impresa uno sviluppo eccezionale.
Il B. non infranse completamente le strutture tecniche ed economiche intorno alle quali l'industria serica cominciava ad estendersi in Como, ma cercò piuttosto di inserirvisi. Il manifattore di seta non era allora, come divenne invece più tardi, un imprenditore che nell'ambito della propria fabbrica possedesse macchine proprie, e impiegando mano d'opera salariata provvedesse alla tessitura della seta, alla tintura e ad altre operazioni che dal filato - o meglio ancora dalla seta grezza - portano al tessuto finito. Egli era piuttosto un mercante, e la sua impresa semplicemente un "bureau de commande". Il mercante badava a collocare la merce (preferendo anche qui muoversi su ordinazione, per essere coperto dai rischi della vendita), ma non aveva telai di tessitura, o ne aveva in numero assai ridotto. Per la tessitura del panno si rivolgeva ad operai indipendenti, occupati a domicilio e da lui retribuiti a opera, oppure ad artigiani, che nella loro bottega raggruppavano un certo numero di telai, facendo lavorare a loro volta qualche salariato e sedendo essi stessi al telaio allorché i committenti premevano con le ordinazioni. Centinaia di telai erano così disseminati nel centro di Como e soprattutto nei sobborghi della città. Allo stesso modo non esistevano a Como tintorie annesse a botteghe di tessitura, ma unicamente tintorie private che servivano tutta la clientela locale.
Il sistema, così diffuso nell'industria tessile dell'età precapitalistica, presentava innegabili vantaggi, poiché adeguava facilmente la dimensione dell'impresa del mercante manifattore alle mutevoli esigenze della congiuntura e gli consentiva soprattutto di svolgere un buon giro d'affari anche disponendo di modesti mezzi finanziari; ma aveva pure gravi inconvenienti poiché un ulteriore sviluppo del setificio e del lanificio, e poi del cotonificio, reclamava che la lavorazione si svolgesse in un ciclo stretto ed armonico, sotto il controllo diretto del fabbricante.Il B. ebbe certamente la consapevolezza della necessità di avvicinare e dirigere i diversi momenti della produzione serica, e, se badò ad allargare la propria iniziativa, moltiplicando le vendite e mobilitando sempre nuove maestranze a domicilio, si preoccupò anche di imprimerle un nuovo indirizzo.
Allorché la visitò il De la Tour nel 1767 (un anno dopo la morte del B.), l'impresa comasca era in pieno rigoglio. Essa consisteva principalmente in uno stabilimento nel quale battevano una trentina di telai, ma che ne teneva operosi più di un centinaio presso diversi artigiani cittadini: in totale una maestranza di seicento persone era occupata nella tessitura. Il B. aveva impiantato anche quattordici mulini per seta, dieci dei quali ad acqua, e quindi relativamente moderni, che filavano e ritorcevano le sete impiegate dai suoi tessitori, e due tintorie cittadine erano esclusivamente al suo servizio. Dopo aver tentato numerosi generi (incoraggiato dal fatto che la Lombardia doveva importare dall'estero quasi ogni sorta di seterie) la ditta aveva deciso di specializzarsi per l'esportazione, e nel 1767 non produceva che "amoerri" lisci di ogni specie, peso e colore, e "lustrini" d'ogni qualità. La sua merce veniva avviata alle filiali estere dell'impresa commerciale Greppi, specie ad Amsterdam, e alle grandi fiere di Dresda, Francoforte e Lipsia, donde si irradiava nei paesi tedeschi, raggiungendo anche le più lontane piazze della Moscovia. Il B. aveva introdotto inoltre una manifattura di calze fatte ad ago all'uso di Napoli, per le quali consumava annualmente mille libbre di seta. È indubbio quindi che, nel complesso, egli avesse raggiunto una posizione egemonica nell'industria di Como, che contava un numero abbastanza elevato e crescente di fabbricanti, nessuno dei quali tuttavia poteva stargli alla pari. Oltre che a Como operò anche a Mantova, fondando un opificio serico in società coi fermieri di quella città, capeggiati da Antonio Greppi.
Il B. morì nei primi mesi del 1766. Infatti una circolare a stampa, datata 1º apr. 1766, annunciava che in seguito alla sua scomparsa la ditta passava sotto l'insegna dei suoi due figli, Pietro Ignazio e Luigi, e di Pietro Caligari con il concorso di Giacomo Mainoni e della fabbrica di seterie dei fermieri generali di Mantova.
Due anni dopo la visita del De la Tour, l'impresa degli associati comaschi aveva compiuto altri progressi, portando a trentaquattro i telai propri ed a centoventi quelli fatti lavorare nelle botteghe disperse. Ma a quel momento la sua parabola era giunta al punto culminante. E già nel 1777 il nuovo visitatore Odescalchi in una sua relazione riferiva di aver notato segni di crisi nell'opificio che i soci avevano installato nella località di Como denominata Darsena del Governatore. Poco tempo dopo il complesso si sciolse, e il Greppi lamentò che la perdita ripartita fra i soci raggiungesse la forte somma di 100.000 zecchini.
Fonti e Bibl.: Molti riferimenti al B. sono sparsi nelle cartelle del Fondo AntonioGreppi, presso l'Archivio di Stato di Milano; Como, Bibl. Civica, ms. 1774: G. Pecis, Osservaz. al nuovopromemoria della città di Como; G. Rovelli, Storia di Como, III, Como 1803, p. 59; E. Greppi, Saggio sulle condizionieconomiche del Milanese verso il 1780, in Annali di statistica, s. 2, XIX (1881), pp. 76 ss.; Relaz. sull'industria,il commercio el'agricoltura lombardi del '700, a cura di C. A. Vianello, Milano 1941, pp. 91-93, 253; B. Caizzi, Storia del setificio comasco, Como 1957, passim.