COLLETTA, Pietro
Nacque a Napoli il 23 genn. 1775 da Antonio, avvocato, e da Maria Saveria Gadaleta, terzo di sette figli. Di indole vivace e ribelle, fu poco seguito dai genitori. A tredici anni si iscrisse alle scuole pubbliche, ove ebbe tra gli insegnanti P. L. Castriota per il latino e Gennaro Minzele per la matematica, e si segnalò tra gli alunni migliori. Nel 1794 fu mandato con un fratello presso lo zio Filippo Maria Colletta a Postiglione (Caserta), dove, forse, prese lezioni dal giurista Niccolò Fiorentino. Tornato a Napoli, i genitori lo posero in una scuola di diritto, ma il C. preferì la carriera delle armi, che si prospettava rapida e brillante. In seguito alla Rivoluzione francese il governo borbonico stava rafforzando l'esercito, e non bastando gli allievi del Collegio militare ai quadri di artiglieria e genio, arruolò tra gli ufficiali anche giovani borghesi non abbastanza ricchi per comprare i gradi; il C. nel dicembre 1794 fece domanda per l'Accademia militare, il 20dello stesso mese supero l'esame con un lusinghiero giudizio, e il 27 ottenne l'ammissione.
Il 23 luglio 1796 uscì dall'Accademia col grado di alfiere e fu inviato al corpo reale in qualità di alunno; dal 1° novembre fu assegnato al reggimento "Regina" di artiglieria, dove restò dopo la nomina a tenente (20 giugno 1798). Durante la campagna del novembre-dicembre '98 fu incaricato delle funzioni di aiutante maggiore del corpo di artiglieria; partecipò allo scontro di Civita Castellana, quindi fu impiegato nella difesa di Capua e rientrò a Napoli il 19 genn. 1799.
Aderì con poco entusiasmo alla Repubblica, di cui vide la debolezza. Conservò il grado di tenente, e forse prese parte alla spedizione dello Schipani. All'arrivo dei sanfedistì fu tra i difensori di Castel Nuovo: rendendosi conto della situazione, consigliò la resa.
Caduta la Repubblica, in un primo tempo restò nascosto, poiché anche i fratelli si erano compromessi e la casa paterna, era stata assalita durante la reazione. Quindi si presentò al brigadiere Menichini, incaricato di riorganizzare il corpo di artiglieria, ma non fu riammesso; anzi, arrestato dopo poco, restò rinchiuso nelle carceri di Castel dell'Ovo per cinque mesi. Scagionato da false testimonianze, nell'aprile 1800 era libero; però, elencato tra gli ufficiali "intinti di giacobinismo", fu escluso dalla riammissione nell'armata e da ogni sussidio. Per vivere esercitò la professione di architetto. Nel 1803 fu inviato dal governo a Fondi per il prosciugamento di quelle paludi. Nel 1805 un terremoto che colpì Napoli gli diede occasioni di lavoro.
Fu per lui un periodo di incertezza morale, deturpato da una smodata passione per il gioco e da non degni amori. L'arrivo dei Francesi nel 1806 lo fece rinascere "a nuova vita". Non legato alla caduta dinastia, poteva abbandonarsi "a tutto l'impeto dei desideri e dell'ambizione", confortato dalla fiducia nella stabilità del nuovo regime. In un momento in cui nel Mezzogiorno si auspicava un governo forte, capace di attuare le riforme da tempo richieste, "quella conquista, compiuta senza guerra, senza sangue, senza danni [parve al C.] un dono benigno della Provvidenza" (Aneddotipiù notevoli della mia vita, in Storia, a cura di N. Cortese, I, pp. II, 14).
Per evitare l'anarchia nella capitale il C. al momento della fuga del Borbone si armò con altri gentiluomini, che formarono pattuglie e tennero tranquilla la città fino all'ingresso dei Francesi, il 14 febbraio. Quindi aderì al nuovo regime, impegnandosi attivamente. Si fece subito apprezzare dal corso Cristoforo Saliceti, potente ministro della Polizia, tanto che fu sul punto di essere posto a capo di una provincia. Fu tra i fondatori e redattori del Monitore napoletano, che iniziò le pubblicazioni il 1° marzo 1806. Ripresa la carriera delle armi, il 3 marzo fu reintegrato nel grado di tenente della compagnia artefici, e partecipò all'assedio di Gaeta; il 21 luglio fu promosso secondo capitano del genio e subito dopo primo capitano; il 9 agosto fu prescelto come aiutante di campo del generale Parisi, preposto al genio; il 14 agosto fu nominato giudice del Tribunale di Terra di Lavoro e dei due Principati, con sede a Napoli (uno dei quattro tribunali straordinari creati per "giudicare privatamente dei delitti contro la pubblica sicurezza"). Giudice rigoroso, fu tacciato di partigianeria verso i nuovi governanti.
Tra l'altro il tribunale straordinario fu chiamato a decidere una questione riguardante il Saliceti. Nella notte tra il 30 e il 31 genn. 1808 crollò un'ala del palazzo abitato dal ministro, che rimase ferito con alcuni familiari; il Saliceti vide nel fatto un attentato alla sua vita, mentre i suoi avversari attribuirono il crollo a un fatto accidentale. Il C. prima dimostrò che il palazzo era stato minato, quindi istruì la causa e fu il relatore contro i presunti rei nel giudizio che si concluse con sei condanne a morte.
Diventato ricco per il cumulo degli stipendi e i proventi del giornale, si diede a spendere "in esterne apparenze, come voleva il malnato desio di grandezza e celebrità" (Aneddoti..., p. 17); continuava ad essere dedito al gioco e ad amori con giovani dame, potenti presso re Giuseppe, dopo aver coltivato una relazione con una matura e ricca gentildonna. Tutto ciò contribuì a renderlo oggetto di invidia, gelosia, accuse di arrivismo. Fu mal vista, perciò, la promozione a tenente colonnello del genio, con il mantenimento dellecariche di giudice e di aiutante di campo, concessagli da Giuseppe Bonaparte il 20 maggio 1808 poco prima della partenza da Napoli, su proposta del Saliceti, in quel tempo anche ministro della Guerra. Ma il C. continuò la sua ascesa sotto Murat, né gli nocquero il declino politico e poi la morte del Saliceti (dicembre 1809). Era stato il Saliceti a metterlo in evidenza presso il nuovo re, presentandogli un piano del C. per attaccare Capri (tenuta dagli Inglesi), che fu approvato dal sovrano e permise la conquista dell'isola nell'ottobre 1808.
Nel successivo novembre il C. prese in moglie la ventiduenne Bettina Gaston, figlia di un colonnello, vedova del capitano Pietro Zelada, dal quale aveva avuto un figlio, Federico. Abbandonata la vita dissipata, il C. fu buon marito ed amò come figlio proprio il figliastro, che tenne con sé anche dopo la morte della Gaston, avvenuta nell'estate del 1813.
Poco dopo il matrimonio, il 19 nov. 1808, il C. fu inviato in Capitanata per sovraintendere al riordinamento delle legioni provinciali, e si fermò a Foggia nel dicembre 1808-gennaio1809; dal 31 dicembre, soppressi i tribunali straordinari, era cessato dalle funzioni di giudice. Nello stesso anno era uscito dalla redazione del Monitore. Il 10 marzo 1809 fu nominato da Murat suo aiutante di campo. Per ordine del re si recò in Calabria per studiare le condizioni delpaese e le cause del persistere del brigantaggio; nell'aprile-maggio fu ancora in Calabria per organizzarvi le legioni provinciali. Il 9 giugno fu incaricato di portare istruzioni al generale Pignatelli Strongoli, impegnato nella conquista di Ponza. In occasione della spedizione anglo-borbonica, apparsa in un primo momento molto pericolosa, il 14 giugno fu mandato in Calabria con dispacci per le autorità militari e civili, quindi prese il comando del corpo di avanguardia; il 21 fu richiamato a Napoli, dove il 10 luglio fu incaricato di preparare un piano per la difesa della capitale. Svanito il pericolo, il 9 settembre fu nominato aiutante generale, e, restando ufficiale di ordinanzadel re, intendente della Calabria Ultra, una delle province più estese (nel 1817 fu divisa nelle province di Reggio e Catanzaro) e la più agitata per la vicinanza della Sicilia.
Il C. ritenne che la nomina fosse stata suggerita dai suoi nemici per allontanarlo dalla capitale, e cercò di evitarla, ottenendo solo la promessa che la missione sarebbe stata limitata a due anni. In realtà le condizioni dell'estrema Calabria richiedevano alla guida della provincia un uomo dotato di conoscenze militari e amministrative, di grande resistenza al lavoro, di spirito di iniziativa: qualità possedute dal C., che, per giunta, ambizioso, animato dal desiderio di distinguersi, esercitò le cariche affidategli con estremo zelo, con un'opinione forse troppo alta dell'importanza delle funzioni compiute. Dai carteggi burocratici, dalle numerosissime relazioni, solo in parte rintracciate (il C. nella veste di funzionario statale ebbe la penna molto facile e presentò in ogni occasione esaurienti memoriali, ricchi di dati, osservazioni, proposte), emerge la tendenza ad una valutazione eccessiva della propria opera, cosa che lo spinge ad impegnarsi a fondo.
Esercitò le funzioni di intendente con autonomia rispetto al potere centrale, rifiutando di confinarsi nel ruolo di mero esecutore di ordini, e, viceversa, diresse la provincia con mano ferma, richiedendo dai subordinati la precisa esecuzione delle sue disposizioni, ed avocando a sé ogni decisione. Preoccupato di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, curò in particolare l'amministrazione comunale (impostata con nuovi criteri dai Napoleonidi), fece eseguire con buoni risultati le operazioni di leva, opponendosi fermamente alle disposizioni del governo, lasciò libero il commercio del grano anche in momenti difficili, favorì lo sviluppo dell'istruzione pubblica, cercò di dare lustro ed importanza a Monteleone (Vibo Valentia), allora capoluogo della provincia; si occupò dell'organizzazione delle legioni provinciali e delle guardie civiche, contribuendo alla repressione dei brigantaggio, per la quale il 27 sett. 1810 furono dati pieni poteri al generale Manhès, che agì con spietata ferocia.
Nel 1810 la Calabria fu la base dei fallito tentativo murattiano di invasione della Sicilia: il C. fu vicino al re, tradusse i proclami e ne curò la pubblicazione, provvide ai bisogni delle truppe raccolte per la spedizione. Era più che mai impegnato nell'attività di intendente, tanto che si prospettava un piano di lavoro per gli anni avvenire, quando il 22 febbr. 1812 fu richiamato nella capitale e nominato direttore generale del corpo d'ingegneri di ponti e strade.
Si dedicò al nuovo compito con l'abituale fervore: per suo impulso fu tracciata e fatta in parte la difficile strada per la Calabria, furono continuate quelle di Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, ne furono cominciate e progettate altre; a Napoli ebbero inizio le strade di Posillipo e dei Campo di Marte a Capodichino; fu studiato un piano per la valorizzazione dei porti; fu proposto un piano cinquantennale per la bonifica e la messa a cultura dei terreni paludosi del Regno. Il C. migliorò anche l'organizzazione amministrativa del corpo.
Promosso maresciallo di campo il 27 giugno 1813, il 29 dello stesso mese ebbe il comando del genio dell'armata attiva, del quale curò l'organizzazione. Quando Murat rientrò a Napoli abbandonando l'armata francese in ritirata dalla Russia, il C. fu, probabilmente, tra coloro che lo spinsero a tentare di unire l'Italia sotto il suo scettro e ad intavolare trattative con lord Bentinck e con l'Austria. Dopo Lipsia consigliò al re di abbandonare la causa napoleonica e fare l'interesse dei Napoletani "fermando pace ed alleanza coi re di Europa, tenendo unito l'esercito in Italia, dando al suo popolo commercio libero con l'Inghilterra, migliorando le istituzioni civili, revocando le persecuzioni di polizia, riducendo in uno le parti divise dello Stato" (Storia, cit., II, p. 405).
Iniziando la campagna d'Italia, il 22 novembre Murat gli ordinò di porre il quartier generale a Bologna, di studiare il terreno in Emilia e Toscana, di riferire sui movimenti del nemico e sullo spirito pubblico, di stabilire buone relazioni con le autorità locali e soprattutto con i generalì rimasti a Bologna, ai quali avrebbe dovuto tenere discorsi vaghi sull'aiuto che gli Italiani potevano avere dalle truppe napoletane, di far visita al Fouché (inviato da Napoleone per distogliere Murat dall'accordo con l'Austria), se ancora a Bologna. Le istruzioni dimostrano in quale conto il re tenesse il C., che fu vicino al sovrano durante le operazioni militari, fino alla sospensione delle ostilità nell'aprile '14; tra l'altro preparò il piano per l'attacco di Castel Sant'Angelo e Civitavecchia (nel gennaio '14 ancora in mano ai Francesi), e dal marzo al luglio riordinò ed ampliò il corpo del genio.
Nominato consigliere di Stato il 26 apr. 1814, il 26 maggio fu chiamato a far parte di una commissione incaricata di studiare il miglioramento dell'amministrazione comunale. Il 25 dicembre ebbe il titolo di barone. Il 22 ottobre era stato nominato primo ispettore del genio; invitato a scegliere tra questa carica e la direzione dei ponti e strade, il 18 novembre diede le dimissioni da quest'ultima, diventate effettive nel gennaio 1815.
Nel Consiglio di Stato Propose, senza successo, che nel Mezzogiorno fosse adottato il sistema metrico decimale; fu, probabilmente, tra i pochi che si opposero alla naturalizzazione dei francesi venuti al seguito di Giuseppe e Gioacchino.
Intanto si era riunito il congresso di Vienna. Per rafforzare la sua posizione di fronte alla diplomazia europea, il Murat sollecitò dai generali, dalle autorità civili, da amministrazioni e comunità indirizzi di fedeltà: anche il C. ne firmò alcuni. Forse fu tra coloro che all'inizio del '15 progettarono, di concerto con agenti inglesi, un'iniziativa in Toscana intesa a dar vita al moto per l'indipendenza italiana. Al profilarsi della guerra, il C. consigliò al re di concedere la costituzione e tenersi fuori dalla lotta. L'11 marzo gli scrisse prospettandogli le difficoltà della situazione internazionale, la debolezza delle forze su cui poteva contare, l'utilità di mantenersi, fedeli ai nuovi alleati, l'opportunità di non entrare in guerra, o almeno di attendere lo sviluppo degli avvenimenti. Non si sa se la lettera, ritrovata tra le carte di Tito Manzi, a, cui il C. ne aveva inviato copia per avere un parere sulla convenienza di un tal passo, fu effettivamente inviata.
Scoppiata la guerra nel marzo 1815, il C. fu di nuovo accanto al re quale comandante del genio. Il 25 marzo in un consiglio di guerra ad Ancona suggerì di mantenersi sulla difensiva; l'8 aprile partecipò alla battaglia di Occhiobello, dove gli fu ucciso il cavallo, e il 3 maggio a quella di Tolentino; nel consiglio di guerra tenuto a Macerata nella notte seguente prese la parola per primo riconoscendo che la situazione era disperata.
Nell'estremo tentativo di evitare l'insurrezione nel Regno, Murat lo inviò a Napoli col principe di Cariati per dare la costituzione; fu riunita una commissione che discusse ed approvò il testo, datato Rimini 30 marzo, ma divulgato a Napoli il 20 maggio 1815. Era troppo tardi, come era tardi per l'apprestamento alla difesa dei forti della capitale e delle zone di frontiera, per cui si adoperò il C. negli stessi giorni. Questi, nominato il 17 maggio tenente generale, il 19 fu chiamato a far parte della reggenza, e, col generale Carrascosa, fu incaricato dal Murat di trattare con gli Austriaci l'accordo, raggiunto il 20 con la convenzione di Casalanza: in essa, tra l'altro, si riconoscevano alcuni importanti provvedimenti presi durante il "decennio", si confermavano gradi, onori e pensioni ai militari, con la garanzia austriaca si concedeva il perdono per l'opera svolta contro i Borboni. Di contro, i negoziatori parvero curarsi poco degli interessi della caduta dinastia.
Come gli altri generali, il C. passò automaticamente nell'esercito borbonico. Troppo in vista nel passato regime, fu esonerato dal comando del genio, e per qualche tempo ebbe cariche di secondaria importanza: nel 1815 membro della commissione per la compilazione del nuovo codice militare (un suo Progetto di un Codice penale militare, datato Napoli, 18 ag. 1816, è pubblicato in Opere inedite e rare, I, pp. 365-391), presidente della commissione di esame "degli ufficiali concorrenti al servizio dello Stato Maggiore", presidente della commissione del vestiario dell'esercito, nel 1816 presidente del consiglio di revisione. Dal 10 genn. 1818 tornò ad una carica importante con la nomina a comandante generale della IV divisione, comprendente il Salernitano e la Basilicata. Si impegnò con il solito zelo per la repressione del brigantaggio, per l'organizzazione della milizia provinciale, per il buon esito della leva. Rendendosi conto della diffusione della carboneria, ritenne impossibile opporsi ad essa e consigliò al governo di venire incontro alle sue richieste in modo da averne l'appoggio; questi consigli non furono seguiti. Nel giugno 1820 il C. avvertì prossima la rivoluzione e chiese mezzi straordinari per reprimerla, ma non fu creduto e fu esonerato dall'incarico.
Nel luglio, allo scoppio della rivoluzione, era nella capitale. Partecipò al consiglio tenuto nella reggia in cui fu deciso di concedere la costituzione, e fu incaricato di portare la notizia a Salerno, alle truppe schierate contro gli insorti. Il 10 luglio fu nominato direttore generale del genio, il 16 membro della giunta di scrutinio degli ufficiali superiori, il 22 agosto giudice ordinario dell'Alta Corte militare, il 16 settembre primo ispettore generale del genio.
Intanto il C. su L'Amico della Costituzione del 23 luglio aveva pubblicato anonimo un lungo articolo, La storia di Napoli dal 2 al 6luglio 1820 (subito ristampato a parte), in cui definiva la rivoluzione "una grande riforma politica" operata "senza che alcuna delle garanzie sociali [fosse] distrutta, o lesa, o minacciata", osservava che la carboneria in precedenza era diventata la "sede del malcontento" e che il governo nessun provvedimento aveva preso, faceva la cronistoria del movimento insurrezionale, portato a termine senza che avvenisse alcun delitto, riconosceva la moderazione mostrata dai carbonari, che avevano diretto nella nazione "il desiderio di un miglioramento politico" e dopo la vittoria erano rientrati nelle ordinarie occupazioni, affermava che "la grande opera" doveva essere consolidata: l'opuscolo era espressione del pensiero dei "murattiani" che avevano preso il potere ed intendevano svolgere una politica di moderate riforme, mettendo da parte la carboneria, promotrice della rivoluzione e portatrice di esigenze più avanzate.
Ancora su L'Amico della Costituzione, dal 23 agosto al 18 ottobre, in sette puntate subito raccolte in opuscolo (Napoli 1820), il C. pubblicò Pochi fatti su Gioacchino Murat, narrazione della vita del sovrano dalla partenza da Napoli fino allo sbarco a Pizzo, al giudizio e all'esecuzione. Scopo della rievocazione era sfatare l'accusa di un agguato teso al re da ministri borbonici e generali del "decennio", accusa apertamente rivolta anche al Colletta. Ne nacque una vivace polemica: le accuse, dimostrate poi infondate furono più volte ribadite, a conferma dell'avversione cui egli stesso era fatto segno.
Ai primi di ottobre Florestano Pepe aveva domato in Sicilia la rivoluzione separatista scoppiata nel luglio, ottenendo la resa di Palermo a condizioni ritenute a Napoli troppo larghe, e quindi annullate dal Parlamento. Il Pepe fu richiamato, e il 14 ottobre il C., fu nominato comandante generale delle armi nell'isola, conservando la carica di primo ispettore del genio. Egli intese la sua come una missione di pacificazione: si adoperò per ristabilire l'ordine pubblico, chiese provvedimenti per la crisi economica in cui era caduto il paese, propose (invano) al governo centrale una serie di misure per venire incontro, almeno nell'amministrazione, alla richiesta di autonomia della Sicilia ed evitare che nei Siciliani si consolidasse l'ostilità verso Napoli e il desiderio di indipendenza.
Sostituito con decreto dell'8 dicembre, rientrò a Napoli nel gennaio 1821. Il 25 febbraio ebbe l'interim del ministero di Guerra e Marina, tenuto dall'ormai anziano generale Parisi. In previsione dell'intervento austriaco contro il regime costituzionale, agì attivamente per preparare l'esercito ed apprestare fortificazioni; tentò ancora di organizzare la difesa dopo la disfatta di Antrodoco. In questo periodo pubblicò l'opuscolo Riconoscenza e memoria militare sulla frontiera di terra del Regno di Napoli (Napoli 1821), una relazione datata 9 febbr. 1815, quando il C. era ispettore generale del genio. Caduto il regime costituzionale, il C. fu esonerato dall'incarico di ministro con decreto del 15 marzo emanato da Firenze da Ferdinando I e comunicato a Napoli il 23 dal governo provvisorio; il 29 fu esonerato dalla prima ispezione del genio. Ritenendo di avere agito nella legalità di un regime sanzionato dal re e nel pieno accordo col vicario, il principe Francesco, il C. non si allontanò dalla capitale. Invece fu arrestato nella notte tra il 20 e il 21 aprile per ordine del principe di Canosa (che in quei giorni aveva assunto la direzione del ministero di Polizia), e rinchiuso in Castel Sant'Elmo. Senza essere sottoposto a regolare processo, fu condannato all'esilio in territorio austriaco con Gabriele Pepe, Giuseppe Poerio, Luigi Arcovito, Pasquale Borrelli e Gabriele Pedrinelli.
Gravemente ammalato, chiese ed ottenne di fare il viaggio per terra a sue spese, poi preferì imbarcarsi con i compagni di sventura su una nave che partì da Napoli il 6 agosto e, dopo una sosta a Brindisi, giunse a Trieste il 4 settembre. Lì gli esuli si divisero; il C. e il Pepe furono destinati a Brünn (odierna Brno), in Moravia. Durante il viaggio il C. si fermò per un giorno a Vienna, dove fu ricevuto dal Metternich. Giunto a Brünn il 23 settembre, alloggiò col Pepe in una locanda, e prese casa per suo conto nel novembre, quando fu raggiunto dal figliastro Federico Zelada e dalla cognata Maria Michele Gaston.
Già il 6 settembre aveva scritto da Trieste di aver chiesto invano un permesso di venti giorni per attendere in quella città "il mio caro Federico", l'unione col quale era "inseparabile dal mio riposo", ed aveva disposto che il figliastro lo raggiungesse a Brünn. Il giovane e la zia, che aveva voluto accompagnarlo, restarono col C. fino alla sua morte. Il C. ebbe a cuore l'educazione di Federico, al quale a Brünn fece personalmente lezione di matematica, filosofia e latino, procurandogli, allora e in seguito, gli insegnanti necessari per una preparazione completa, e preoccupandosi della sua sistemazione, ma dal giovane, svogliato nello studio e poco amante del lavoro, ebbe delusioni ed amarezze. Ebbe, invece, grande conforto dalla cognata, da cui fu assistito con affettuosa dedizione nella malattia che lo travagliò sempre più gravemente, conducendolo alla tomba.
Dal momento dell'arresto il C., ritenuto facoltoso (anche la polizia di Brünn raccolse la voce che il C. fosse ricco e che addirittura avesse un conto aperto presso la casa bancaria viennese Scheidlein), non aveva ricevuto stipendio o emolumenti. In effetti il C. aveva un patrimonio di una certa entità (egli stesso nel testamento del 3 luglio 1821 dichiarò beni per 36.000 ducati, gravati da debiti per 11.000 ducati), minore di quello che avrebbe potuto accumulare un uomo che aveva occupato cariche importanti e ben remunerate (ma il C. aveva sempre condotto una vita brillante), ma pur sempre notevole. Si trattava, però, di beni che, detratti i pesi, davano una rendita modesta; come risulta dal carteggio col fratello Nicola, che ne curò gli interessi a Napoli. Ridotto in difficili condizioni finanziarie, supplicò invano i governanti borbonici perché riprendessero il pagamento dello stipendio e lo aiutassero in altro modo; quindi nel gennaio '22, col Pepe, si rivolse direttamente al Metternich, che minacciò il governo napoletano di rimandare in patria gli esiliati se non si fosse provveduto al loro mantenimento. Così al C. fu concesso un sussidio di 8 fiorini al giorno, salvo il diritto ad ipoteca o a sequestro dei beni; per le vivaci proteste del C. il pagamento fu iniziato nell'agosto del 1822 senza pensiero di rimborso.
Il sussidio rese meno precarie le condizioni economiche del C., ma non gli permise di mantenere il tenore di vita che riteneva confacente alla sua posizione; quando si trasferì in Toscana, per l'elevato costo della vita, e soprattutto per la cura della salute, fu costretto a chiedere prestiti al fratello Nicola. Nel 1826 gli venne incontro il re Francesco I, che gli concesse una tantum un, sussidio di 300 ducati (ridotti a 270 per le tasse), e comprò per 13.000 ducati parte di una sua villa a Capodimonte; migliorarono le disponibilità del C., che impiegò a buone condizioni la somma rimastagli dopo il pagamento dei debiti ed un prelievo per sé, ma dal '28 le spese per una vita più comoda lo fecero ricadere in ristrettezze, tanto che nel '31, alla vigilia della morte, pensava di vendere altre proprietà.
Nel settembre del 1822 (la comunicazione ufficiale al C. è del 6 dicembre) il governo napoletano permise agli esiliati di scegliersi la dimora più gradita, vietando, però, il ritorno in patria e decretando la cessazione del sussidio. La scelta definitiva spettava all'Austria, e il C. indicò Firenze e Roma. Ottenuto il permesso di stabilirsi a Firenze, come desiderava, partì da Brünn col Pepe e con i familiari il 1° marzo 1823, il 4 giunse a Vienna (dove si trovavano Ferdinando I ed il principe Ruffo, presidente del Consiglio, e fu ricevuto da quest'ultimo), il 23 arrivò a Firenze. Ivi, dopo qualche difficoltà da parte del governo toscano, restio ad accogliere gli esuli, mise casa, sempre in compagnia del figliastro e della cognata. Di tanto in tanto dimorò nella villa del Capponi a Montughi, che fini col prendere in fitto, e dal '27 passò a Livorno i mesi più freddi dell'anno.
Sperò ancora nel ritorno in patria o almeno nella concessione del terzo dello stipendio, specialmente dopo l'ascesa al trono di Francesco I, che era stato vicario nel nonimestre costituzionale; da lui ottenne solo un aiuto economico, non la riabilitazione. Fu vano un ultimo tentativo del giugno '31 per ottenere da Ferdinando II il terzo dello stipendio, e almeno l'acquisto della parte della villa di Capodimonte non comprata da Francesco I.
Col tempo nel C. si era andato attenuando il desiderio di tornare in patria. A Firenze si era legato in stretta amicizia con Gino Capponi e Pietro Giordani; circondato di grande stima, si era inserito nella fiorente vita culturale toscana; collaborava all'Antologia (Sul disegno del terreno nelle carte topografiche, 1825 [XVIII], c, pp. 102 ss., e la lunga recensione Sulla storia delle campagne e degli assedii degli italiani in Ispagna dal 1808 al 1813... di Camillo Vacani, 1826 [XXIII], c. pp. 1 ss.) e frequentava il gabinetto di lettura del Vieusseux; era stato chiamato a far parte dell'Accademia dei Georgofili (1824), ove lesse Alcuni pensieri sulla economia agraria della Toscana (pubblicati in Antologia, 1825 [XVI], a, pp. 12-31), della Società toscana di geografia, statistica e storia naturale (1826), dell'Accademia pistoiese di scienze, lettere ed arti (1827), dell'Accademia labronica di scienze, lettene e arti (1828), ove pronunciò il Discorso intorno alla storia de' Greci moderni (pubblicato in La Giovine Italia, serie di scritti intorno alla condizione politica e letteraria d'Italia..., fasc. 2, Marsiglia 1832) e Alcuna proposizione adatta allo stato economico della Toscana, ed allo stato industriale della città di Livorno (in Opere inedite o rare, II, pp. 97-115). A Firenze conobbe anche Giacomo Leopardi, ne comprese il dramma e cercò di aiutarlo, facendosi promotore della sottoscrizione (accettata nell'aprile del '30, che assicurò al recanatese per un anno un assegno mensile. Il C. venne frequentemente in soccorso di esuli meridionali bisognosi.
Durante la permanenza in Toscana principale cura del C. fu la stesura e la elaborazione stilistica della Storiadel Reame di Napoli, dalla quale si attendeva la fama.
L'aveva cominciata a Brünn, lavorando nel 1821-22 alla redazione del nono libro (il più attuale, perché riguardante il "nonimestre costituzionale"), col proposito di farlo leggere esclusivamente al Metternich, cui era grato per la protezione accordata agli esuli. A Firenze iniziò sistematicamente la stesura dell'opera, in dieci libri (I: regno di Carlo Borbone; II: regno di Ferdinando IV, 1759-1790; III, regno di Ferdinando IV, 1791-1799; IV: Repubblica partenopea; V: regno di Ferdinando IV: 1799-1806; VI: regno di Giuseppe Bonaparte; VII: regno di Gioacchino Murat; VIII: regno di Ferdinando I, 1815-1820; IX: regno di Ferdinando I, reggimento costituzionale; X: regno di Ferdinando 1, 1821-1825). Si dedic prima ai libri dal VI al X, rielaborando profondamente il IX, quindi ai primi cinque; a completamento dell'opera si proponeva di scrivere la Vita di Ferdinando I, le Congetture sull'avvenire tratte dalla storia narrata nei suoi libri, gli Annali del regno di Francesco I.
Diede grande importanza all'elaborazione formale. Prima del '21 il C. non solo aveva scritto ampie relazioni, aveva dato alla stampa opuscoli, era stato socio dell'Accademia Pontaniana (Napoli), dell'Accademia Florimontana degl'Invogliati (Monteleone), dell'Accadernia Ionia (Corfù), ma aveva studiato con passione i classici latini ed aveva tradotto pagine di Sallustio (parte del Bellum Iugurthinum), Seneca (libro IV del De beneficiis), Cicerone (l'orazione Pro Ligario) ed i primi sei libri degli Annali di Tacito: tutte queste traduzioni, cadute in mano della polizia borbonica andarono perse tranne il libro IV degli Annali (pubblicato in, Opere inedite o rare, II, pp. 5-68);a Firenze si dedicò allo studio della lingua per perfezionare il suo stile, modellato su Tacito, e curare l'eloquio. Alla revisione formale della Storia collaborarono anche con consigli alcuni suoi amici, come G. B. Niccolini, e principalmente il Capponi e il Giordani, i quali lessero i libri man mano che venivano terminati.
Nel marzo del '31 il C., ritenuto dalla polizia promotore di una cospirazione tendente a strappare al granduca la costituzione, ebbe rintimazione di lasciare la Toscana, ma l'intervento di autorevoli amici e soprattutto le sue precarie condizioni di salute indussero il governo ad annullare il provvedimento. Morì a Firenze l'11 nov. 1831, e fu sepolto nella cappella di famiglia di Gino Capponi, nella villa di Varramista.
Ad occuparsi della pubblicazione della Storia fu ancora il Capponi. Nei primi mesi del '31 il C.aveva pensato di pubblicare l'opera a Parigi, e ne aveva iniziato la stampa in pochi esemplari presso un tipografo fiorentino, per rendeme più agevole la lettura ad eventuali editori; vedendo approssimarsi la morte diede al Capponi "la preghiera ed il carico" di correggere la Lettera ai suoi amici, ancora abbozzata, scritta come premessa, di rivedere gli ultimi tre libri, privi della correzione finale, e di interessarsi della pubblicazione. La Storia (attesa e già da molti lodata, poiché il C. ne aveva letto più volte brani a letterati ed amici) apparve nel 1834a Capolago, preceduta dalla Notizia intorno alla vita di P. C., di Gino Capponi (celatosi nell'anonimato), in cui era anche inserita la maggior parte della lettera introduttiva del Colletta. Seguirono numerose ristampe e traduzioni, testimonianza dell'interesse suscitato. Nella seconda parte il C. aveva ricostruito vicende ancora controverse, esprimendo giudizi sull'operato di generali ed uomini politici viventi. Si rinfocolarono polemiche appena sopite, per ritorsione furono riprese le antiche accuse al C. di arrivismo, incompetenza, favoritismo. Una immediata smentita venne dal Canosa (Epistola ovvero riflessioni sulla moderna Storia del Reame di Napoli del Generale P. Colletta, Capolago 1834), che contestò punto per punto la parte che lo riguardava. Tra le altre repliche di contemporanei, notevoli per l'acredine che li animò i Discorsi critici sulla Storia del Reame di Napoli del General Colletta di un antico uffiziale, pubblicati anonimi a Lugano nel 1835-36dal generale Francesco Pignatelli Strongoli in tre opuscoli, nel primo dei quali il Pignatelli narrava la vita del C. in contrapposizione alla biografia premessa all'edizione di Capolago: l'intonazione era denigratoria, i fatti presentati nella maniera più sfavorevole al C., giudicato negativamente sotto ogni aspetto, la Storiaera ritenuta traboccante di calunnie verso le persone contro le quali il C. nutriva odio privato. Ad una confutazione politica della seconda parte della Storia, apparsa pericolosa al governo napoletano per la chiara intonazione antiborbonica, provvide, con mediocri risultati, Andrea Cacciatore (Esame della Storia del Reamo di Napoli di P. Colletta dal 1794 al1825, Napoli 1850).
Al di là dei risentimenti personali e delle preoccupazioni politiche, le riserve, espresse anche in seguito, avevano un fondamento. Anzitutto sono frequenti nella Storia inesattezze anche gravi, benché non siano da imputare a malafede o a superficialità del C., che fece tutte le ricerche allora possibili, preoccupandosi di procurarsi una documentazione precisa. In molti casi, però, la conoscenza della verità era preclusa dal segreto che circondava l'opera dei governi assoluti, come appare evidente per gli anni dal '21 in poi, per i quali il C. ignora la parte avuta dall'Austria nella determinazione della politica interna napoletana.
D'altra parte manca all'opera un disegno complessivo che riscatti l'andamento cronachistico della narrazione. con una valutazione globale delle alterne vicende del Regno. Essa rispecchia i limiti dell'esperienza del C., formatosi in quel "decennio" che resta il suo punto di riferimento ideale e gli offre il modello di uno Stato forte, capace di realizzare il progresso civile, a cui (secondo le sue convinzioni) fanno ostacolo da un lato la rivoluzione, dall'altro i governi reazionari. Ed è tanto forte nel C. l'amore per l'ordine, che egli loda la paternalistica saggezza con cui è retta l'Austria e non intende le ragioni ideali che animano i moti costituzionali e nazionali.
Ispirata più agli ideali illuministici del Settecento che a quelli liberali dell'età romantica (Croce la colloca tra la "storiografia anacronistica"), la Storia vuole avere un intento educativo, vuole distinguersi da opere anche notevoli che "oggi sono magnifica letteratura, ma non istoria, delizia di chi legge, non istruzione" (lettera al Capponi, Livorno, 2 genn. 1829). In questo sta il suo valore: in effetti il C. trasfonde nei suoi libri l'esecrazione per la tirannide con un impegno civile che dà calore alla narrazione e determina la popolarità dell'opera anche oltre gli anni più fervidi del Risorgimento.
Opere: Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, preceduta da [G. Capponi], Notizia intorno alla vita di P. C., Capolago 1834; [Firenze] 1846, "con una notizia intorno alla vita dell'Autore" scritta dal Capponi; La Storia del Reame di Napoli, "ridottaad uso delle scuole secondarie ed annotata da F. Torraca", Firenze 1890 (nuova ediz. con presentazione di N. Cortese, Firenze 1968), Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, con introduzione e commento di C. Manfroni, Milano 1905; Storia del Reame di Napoli, revisione degli autografi, introduzione e note di N. Cortese, Napoli 1951-57: edizione fondamentale per la ricostruzione del testo e delle fonti e per la ricchezza delle note, che correggono ed integrano la narrazione del C.; di minore importanza le edizioni con introduzione di C. Francovich, Firenze 1962, e di A. Bravo, Torino 1975.
Quasi tutti gli scritti minori sono in Opere inedite o rare, Napoli 1861 (tra gli scritti non citati sono da ricordare la memoria Campagna d'Italia del 1815, I, pp. 1-194; il Cenno storico sulla Rivoluzione napoletana del 1820, I, pp. 253-284 e le Lettere filologico-militari intorno al Dizionario militare di Giuseppe Grassi, I, pp. 497-547). N. Cortese ha curato una raccolta di Lettere e scritti inediti di P. C., Napoli 1927.
Fonti e Bibl.: Sulle carte del C. si veda di N. Cortese, oltre a Lettere e scritti inediti, citate nel corso della voce, Nuovi docum. sulla vita e sulle opere di P. C., in Studi in onore di R. Filangieri, Napoli 1959, III, pp. 353-367. Per la biografia del C. vedi la Notizia di G. Capponi nell'ediz. della Storia del 1846; la Vita di P. C., di M. D'Ayala nelle Opere inedite, cit., II, pp. III-XXXVIII; N. Cortese, La vita di P. C., in Rass. stor. del Risorgimento, VII (1920), pp. 657-675; Id., P. C. e la sua Storia del Reame di Napoli, Aquila 1924; Id., P. C., in Enc. Ital., X, Roma 1931, pp. 747-48. Delle repliche e precisazioni dei contemporanei ricordiamo solo oltre all'Epistola di A. Capece Minutolo, principe di Canosa (ora in S. Vitale, Il principe di Canosa e l'Epistola contro P. C., Napoli 1969), e ai Discorsi di F. Pignatelli Strongoli (ora in N. Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell'Impero: F. Pignatelli principe di Strongoli, Bari 1927, II, pp. 277-296); [P. Borrelli], Saggio sul romanzo stor. di P. C., in Appendice alla Bibliografia di P. Borrelli, Coblentz [ma Napoli] 1840, pp. 87-161, e [Id.] Conte Radowski, Casi memorabili antichi e moderni del Regno di Napoli ricavati dagli autografi del fu conte Radowski, Coblentz [Napoli] 1840; G. Pepe, Memorie intorno alla sua vita, Parigi 1847. Principali confutazioni di intonazione filoborbonica, dopo l'Esame di A. Cacciatore, P. Calà Ulloa, Intorno alla Storia del Reame di Napoli di P. C. Annotamenti, Napoli 1877. Esauriente rass. delle ediz... della Storia, con le traduzioni, la fortuna dell'opera, le repliche e i giudizi critici fino al 1920, delle ediz. delle opere minori, dei contributi al carteggio, delle biografie e i sussidi biografici fino allo stesso anno in N. Cortese, Saggio di bibliografia collettiana, Bari 1917; e Id., Aggiunte al saggio di bibliografia collettiana, in Boll. del bibliofilo, III (1921), pp. 138-148. Delle opere sul C. precedenti al 1920 ricordiamo solo G. Oxilia, La moralità di P. C., Firenze 1902. Vedi inoltre B. Croce, Storia della storiogr. italiana nel sec. decimonono, Bari 1921, I, pp. 84-89; G. De Ruggiero, Il pensiero politico merid. nei secc. XVIII e XIX, Bari 1922, pp. 234-241; G. M. Monti, P. C. in esilio, Bari 1932; E. Benedetto, La Toscana nel 1831 e gli ultimi giorni di P. C., in Rass. stor. del Risorg., XXII (1935), pp. 452-494; N. Cortese, La condanna e l'esilio di P. C., Roma 1938 (importante raccolta del carteggio e di documenti relativi al C. dal 1821 alla morte); G. M. Monti, L'esilio di P. C. nella sua corrisp. familiare inedita, in Rass. stor. del Risorg., XXV (1938), pp. 795-824, 927-968; G. G. Ferrero, Prosa illustre dell'Ottocento, Torino 1939, pp. 79-129; N. Cortese, Le note di G. Pepe alla Storia del C., in Rass. stor. del Risorg., XXVI (1939), pp. 675-682; L. Pescetti, P. C. in Livorno, in Boll. stor. livornese, VI (1940), pp. 14-29; A. Natta, Il moderatismo di P. C., in Belfagor, III (1948), pp. 300-314; N. Cortese, La Prima rivoluz. separatista siciliana, 1820-21, Napoli 1951; M. Meynaud, A propos de La Storia delReame di Napoli di P. C., in Revue des études italiennes, IX (1962-63), 1, pp. 126-156; D. Uhlir, L'epilogo dell'interv. austriaco contro Napoli nel 1821e l'esilio dei murattisti napoletani C. e Pepe in Moravia, in Historica, XVII (1964), 8, pp. 89-100; G. Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. La restauraz. a Napoli dal 1821al 1830, Bari 1970, pp. 110-111; N. Cortese, La storiografia merid. del primo Ottocento, in Atti del Convegno sul tema Napoleone e l'Italia, Roma 1973, pp. 461-469; A. Scirocco, P. C., in Arch. stor. per le prov. napol., s. 4, XIV (1975), pp. 25-36; A. Bulgarelli Lukacs, Rete stradale e le opere pubbliche nel Mezzogiorno in un inedito rapporto di P. C., in Arch. stor. per le prov. napol., s. 4, XVIII (1979), pp. 325-343.