COSSA, Pietro
Nacque a Roma il 25 genn. 1830, da Francesco, benestante di Arpino, e dalla torinese Marianna Landesio. La nascita avvenne nel palazzo Avila, in via del Governo Vecchio; il battesimo il giorno dopo, a S. Lucia del Gonfalone. Mortogli il padre, fu educato dallo zio Filippo, sacerdote e professore di teologia, che si vantava discendente di Baldassarre Cossa o Coscia, l'antipapa Giovanni XXIII, e disegnava per il nipote la carriera ecclesiastica.
Le notizie biografiche sono poco consistenti. Proseguì gli studi nel seminario di Segni, quindi all'Apollinare a Roma (si vanterà d'aver iniziato in questo periodo l'attività letteraria con commediole recitate coi compagni di collegio), infine al Collegio Romano, da cui fu espulso (1845) poiché "accusato di eresia e di italianità troppo spinta". Dopo un breve momento di adesione alla politica di Pio IX (di cui è prova il sonetto Alla clemenza della Santità di Nostro Signore papa Pio IX, Roma 1848), partì per la Lombardia (1848) combattendo nella prima guerra d'indipendenza, indi (1849) ritornò a Roma, militando nella Repubblica Romana. Ivi rimasto dopo la caduta del governo repubblicano, venne incarcerato per diciotto mesi. Diede per qualche tempo lezioni private per poi emigrare in America (1851); dopo un breve ritorno in Italia, fu di nuovo nel 1854 nel Perù e nel Cile, ove visse cantando nei cori o, qualche volta, in parti di solista (don Basilio nel Barbiere di Siviglia, Silva nell'Ernani, ilduca Alfonso nella Lucrezia Borgia)e componendo drammi storici, liriche, libretti d'opera (Margherita Pusterla e Niccolò de' Lapi, entrambi per la musica di V. Persichini; poi: Ettore Fieramosca, Spartaco, La battaglia di Benevento).
Rientrato in Italia (1857), visse per qualche tempo a Torino presso parenti della madre, per poi stabilirsi definitivamente a Roma, come professore di lingua italiana e storia nella scuola tecnica di S. Francesca Romana (poi scuola tecnica "Metastasio"). A questo periodo risalgono i primi drammi poetici editi (Mario e i Cimbri, Firenze 1864; L'ultimo degli Incas, Siena 1866; Puschin, Roma 1870), la sua affiliazione alla massoneria, la collaborazione con la compagnia del Bellotti, la prima raccolta di liriche (1865), la redazione di articoli e brevi saggi sul Romano, in cui apparvero, nell'ottobre 1870, alcune puntate del romanzo Ilgladiatore. Dopo Porta Pia divenne regio commissario nei comuni della provincia di Roma; furiere maggiore in un battaglione della guardia nazionale; precettore in casa dei principi Dei Drago.
Con il Nerone (prima rappresentazione al Valle di Roma, maggio 1871; seconda rappresentazione al teatro Re Vecchio di Milano, gennaio 1872; a stampa, Roma 1871), il suo nome cominciò ad affermarsi, e si riprendono sulle scene drammi precedenti, sempre d'argomento storico, e che erano passati quasi sotto silenzio: Beethoven (Milano 1872, l'unico dramma in prosa), I Monaldeschi (ibid. 1874), Sordello (ibid. 1874); o se ne danno di nuovi: Ludovico Ariosto e gli Estensi (al Municipale di Ferrara, 26 maggio 1875, inedito) accanto ad una commedia, Plauto e il suo secolo (ibid. 1876) e il poema drammatico Cola diRienzo (al Valle di Roma, 1874; a stampa, Roma 1879; musicato dal Persichini). Nel 1876 veniva eletto consigliere comunale (ma non rieletto nel 1880). Frattanto continuava l'intensa attività drammaturgica, confortata dall'amicizia e dalla collaborazione di F. Pasta, E. Rossi, V. Marini, A. Emmanuel, A. Tesseri. Si susseguono: la commedia Messalina (al Valle, 3 genn. 1876, da cui l'omonimo ballo di L. Danesi; a stampa, Torino 1876), la tragedia Giuliano l'Apostata (1877), il poema drammatico Cleopatra (al Valle, 25 nov. 1877; a stampa, Torino 1879), il dramma IBorgia (al Gerbino di Torino, dicembre 1878; a stampa, ibid. 1881), il dramma Cecilia (al Manzoni di Milano, 1º dic. 1879;a stampa,Torino 1885; sarapiù tardi ripreso dalla Duse nel 1886, e messo in musica da Orefice nel 1902), il poema drammatico I Napoletani del 1799 (al Manzoni di Milano, 14 genn. 1881). Recatosi a Livorno per una replica dei Napoletani, vimorì dopo brevissima malattia il 30 ag. 1881 in una stanza dell'albergo Giappone. Ebbe a Roma il 2 sett. imponenti funerali in rito massonico, aspramente attaccati dalla stampa clericale.
Lasciò incompiuto il Silla, che sarà rappresentato al Valle il 24 genn. 1882 in occasione d'una manifestazione commemorativa (edito nell'Annuario del Circolo filologico, diNapoli, a. 1894-95). Tra le varie composizioni liriche converrà citare almeno: Nel patriofesteggiare il VI centenario di Dante Alighieri (Firenze 1865); Poesie liriche, aggiuntovi Mario e i Cimbri (Milano 1876); Poesie liriche inedite (Roma 1886); Nella monacazione di Albina Napoli (in La Scintilla, Venezia, 6 ott. 1895). Pubblicò inoltre: Scritti vari (Firenze 1880); interessante è la Lettera all'editore Siegfrid Samosch del 19 nov. 1880, pubbl. in La Rassegna nazionale, 16 ott. 1892.
Della prima produzione drammatica lo stesso C. non si dichiarava, più tardi, soddisfatto; gli appariva troppo "alla maniera alfieriana, non avendo io ancora né l'audacia né l'abilità di liberarmi delle pastoie aristoteliche", e inoltre poco adatta alla rappresentazione scenica. In realtà non l'osservanza alle tre regole, né la ricca eco alfieriana vengono a costituire il difetto più vistoso del Mario e i Cimbri, odel Sordello, del Monaldeschi o del Puschin (ovviamente è impossibile reperire il menomo elemento di scenicità o d'originale taglio drammaturgico), quanto piuttosto la supina obbedienza alla tradizione delle tragedie storiche romantiche, ad esclusione dell'inavvertibile Manzoni, o persino dei romanzi storici, che si trasferisce nell'ingorgo retorico del Mario o negli incredibili echi danteschi e provenzaleggianti del Sordello, ovvero indugia su argomenti più moderni (pur sempre in una estrinseca emulazione dei toni foschi e truci della alfieriana Maria Stuarda, replicata nella torva crudeltà di Cristina di Svezia, persecutrice violenta e gelosa dei Monaldeschi). Ilsenso meno disattraente del C. giovane è dato cogliere piuttosto nella coraggiosa scelta di protagonisti quasi contemporanei: l'avventurosa, ardente e tumultuaria vita di Aleksandr Púškin, combattuto tra l'amore per la povera zingara Maria e la passione per la moglie Natalia, gelida e adultera, e precipitante verso il fatale duello col Dantès, ovvero la febbre creativa di Beethoven, sprigionante la forza necessaria, dunque proprio l'energia "romantica", per sedare la consapevolezza dell'infelicità e della solitudine. Questi elementi restano però impacciati dall'eccessivo intrico d'intrecci amorosi o di contrapposizioni "eroe" (sia Púškin sia Beethoven) e "fato avverso", identificato in figure spregevoli di tormentatrici o di cortigiani invidiosi, turgidamente espresse e fatte muovere sulla scena con macchinosità.
Il Nerone è, indubbiamente, frutto d'una concitazione drammaturgica più intensa e concentrata. Anchequi è d'obbligo la discendenza dall'Ottavia alfieriana, ma è interessante il fondale della polemica anticlericale (Nerone = papi), sorgente dal momento storico, la fine del potere temporale, mescidato abbastanza abilmente con le fonti storiche, gustate senechianamente, e romanzesche (Dumas padre), e centrato con una certa felicità più sugli aspetti ciarlataneschi e grossolanamente arroganti del tiranno di Roma, che sulla personificazione d'un'astratta idea di crudeltà ("Il mio Nerone... è un'altra / cosa; egli è lieto sempre e buono mai. / Ei volentier frequenta co' ghiottoni / la taverna, è cantor, pugillatore, / scolpisce, guida cocchi, e fa il poeta"; dice il prologo per bocca del buffone Menecrate); più sulla spregiudicata attediata licenziosità dei sensi (studiata con un'attenzione che tende a volgere al "verismo") che non sulla tirannia politica; più sui sordidi capricci e le follie che non sulla lucida coscienza del delitto. Cosicché i presupposti senechiani e alfieriani finiscono per scendere al livello del farsesco pastiche, sangue - divertimento, e perdono ogni menoma credibilità storica (del che erano ben consapevoli i contemporanei, Trevisani o Castagnola, pur ammirati dalla sovrabbondante onda oratoria che si prestava al magniloquente gusto dei grandi attori dell'epoca, come anche della successiva, sino ad Ermete Zacconi; e costituirà il punto centrale dei ritratto crociano: "Il capriccio domina sovrano in quel cervello di maniaco che non ha scopi chiari e non volontà precisa. Onde è in lui qualcosa di fanciullesco"), per privilegiare i gesti teatrali, la gaudente follia stridente di risa e di grida, la marcatura pesante dell'endecasillabo gonfio e tonitruante posto a contrasto con le esili note languide della schiava Egloge o della liberta Atte.
Eppure i timbri squillanti d'un'eloquenza iperromantica del Nerone o le sue cadenze più tardoromantiche (quella "poesia lieve" che è stata osservata, in mezzo alle tensioni pseudo-veristiche, nella "noia" del protagonista "per ogni cosa" e che "lo spinge ad affogare nelle gozzoviglie la sua amarezza, e il suo senso di vivere in un'età di decadenza") non si ritroveranno negli eccessi passionali della Messalina, sospinta da una scatenante passione per il giovane Silio, o della Cleopatra, di realizzazione ancora più bassa, ovvero nello scenario popolaresco del Plauto o nelle tesi spietate del Giuliano l'Apostata (se non deviate, come di consueto, nella storia amorosa di Maria e di Paolo). Interessa di più, anche e soprattutto rispetto al Cola di Rienzo e ai Borgia, la penultima pièce cossiana, I Napoletani del 1799, corrusco e ora sì storicamente "veristico" affresco di vita popolare e di ardori politici, tra le bande dei cardinal Ruffo e gli eroi libertari della Rivoluzione, la folla della plebe partenopea e Domenico Cirillo, il re Ferdinando e Nelson, Mario Pagano e lady Hamilton, la sanguinaria spavalderia di fra' Diavolo e la cavalleresca gentilezza del colonnello Romei. Il poema drammatico si muove con una rapidità di ritmi e di tagli scenici insolita nel C., tra un vociare rabbioso dell'apparato popolano e i secchi dialogati dei nobili inglesi o partenopei, fruendo d'inserti suggestivi (come quelli legati alle diverse figure di Domenico Cimarosa e di Mario Pagano), in un amalgama drammaturgico alimentato da una sincera e irruenta passione civile e patriottica, la quale vede l'ispirazione del C. trovare finalmente spazio e respiro nei personaggi "positivi" della Rivoluzione, non più pseudo-eroi ripetitivi dei modelli alfieriani, ma trasposizioni concrete di eroi ed eroine del Risorgimento in un'aura storica appena d'un po' più antica, e magicamente affascinante.
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