COTTA, Pietro
Attore, nato a Roma attorno alla metà del sec. XVII, viene generalmente ricordato fra i più celebri del suo tempo, antesignano di quella riforma del repertorio che segnerà la trasformazione del teatro professionistico italiano e la fine della produzione teatrale basata sulla divisione del lavoro drammaturgico fra i diversi attori della compagnia.
La fama di cui il C. godette, però, appare soprattutto postuma, legata a poche notizie e a una tradizione unilaterale. Non fu figlio d'arte, ma né l'età in cui iniziò a lavorare nelle compagnie, né le circostanze che lo spinsero a farlo ci sono note. Il Riccoboni si limita ad un accenno sostanzialmente tautologico scrivendo che il C. entrò nel teatro al tempo in cui "les comédiens avaient encore la liberté d'aller jouer à Rome pendant le Carneval": un punto di riferimento temporale non chiaro (non si intende, infatti, a quale proibizione di recitare in tempo di carnevale il Riccoboni faccia cenno) e che dice poco, perché evidentemente se il romano C. fu attratto dal teatro professionistico dovette esserlo in uno dei momenti in cui le compagnie frequentavano Roma.
La compagnia a cui il C. si aggregò era una compagnia di qualità, quella di Francesco e Agata Calderoni, forse protetta dal duca di Modena, sufficientemente stimata da essere invitata, nel 1687, alla corte di Monaco e più tardi a quella di Bruxelles: una di quelle compagnie, insomma, che seppe liberarsi dalle strettoie del mercato teatrale italiano stabilendosi all'estero, in situazioni protette e cortigiane.
Quando la compagnia Calderoni abbandonò definitivamente l'Italia, il C. era già attore celebre e dirigeva ormai una sua compagnia che agiva prevalentemente nell'Italia settentrionale, soprattutto a Venezia (Mangini). Come attesta il suo nome di lavoro - "Celio" -, il C. rappresentava, nelle commedie create direttamente dagli attori, il personaggio dell'Innamorato. Aveva, però, una particolare predilezione per il repertorio nobile e letterario, rappresentava il Pastor Fido e l'Aminta e infine, con successo, l'Aristodemo del Dottori. È anzi, proprio la rappresentazione dell'Aristodemo a segnare il momento centrale della carriera del C. come capocomico colto, teso alla riforma del teatro professionistico. Ma anche la data di questo episodio, cruciale per la fama del C., è incerta: il Bartoli, senza fornire ragioni, indica l'anno 1699; altri (Bertana, Mangini) indicano più genericamente gli anni attorno al '90; il Courville si limita a riportare senza commenti l'affermazione del Riccoboni, secondo cui il C. avrebbe rappresentato a Venezia l'Aristodemo del Dottori, "gentilhomme de Padoue, qui étoit mort environ quarante ans auparavant".
Il Dottori, però, era morto nel 1686, quarant'anni prima rispetto al momento in cui il Riccoboni stava scrivendo, non certo rispetto alla messa in scena dell'Aristodemo a Venezia ad opera del C. e della sua compagnia. Nel testo del Riccoboni, però, "quarante" può essere (ed è, probabilmente) un errore di stampa per "quatre" e quindi, come argomenta anche il Bertana, si potrebbe individuare nel 1690 una data plausibile.
Da dove viene, invece, il 1699 indicato dal Bartoli? Ha pensato che il C. fosse a Venezia quando c'era Francesco Calderoni, che a Venezia pubblicava, nel 1699, la riedizione d'una sua commedia? Oppure si tratta d'una delle tante date che il Bartoli fissa più o meno casualmente? Oppure si orienta sulle ulteriori notizie di tragedie rappresentate dal C., di cui il Riccoboni riferisce?.
Dopo aver parlato della messa in scena dell'Aristodemo, infatti, il Riccoboni scrive: "Dans le même tems les Collèges de Rome et de Boulogne, aussi bien que les Seigneurs de cette aimable et scavant ville, avoient traduit la plûpart des tragedies des deux Corneille et quelques-unes de Racine". Tragedie di Thomas Corneille furono tradotte e rappresentate da accademici bolognesi nel 1693, nel 1696 e nel 1699, mentre apparvero al Collegio Clementino di Roma nel 1698. Negli stessi anni venivano volte in italiano, sempre a Bologna, ad opera del padre somasco Filippo Merelli, traduttore anche di Thomas, tragedie di Pierre Corneille. Le prime traduzioni e rappresentazioni di Racine avvenivano in casa del marchese Achille Grassi nel 1694, in casa Paleotti, sempre a Bologna, nel '97, e a Roma nel '99, al Collegio Clementino (cfr. Enc. dello Spett., sub voce Corneille Pierre, Corneille Thomas e Racine Jean).
Il C., dunque, avrebbe tratto ispirazione da ciò che stava accadendo nei teatri dei collegi e delle accademie, dove attori letterati e dilettanti traducevano in scena l'opera dei poeti, e avrebbe tentato di conciliare il nuovo gusto alle vecchie regole del mercato teatrale.
Il Riccoboni dice che il C. volle imporre le tragedie anche quando gli spettatori dei pubblici teatri mostravano di non gradirle irridendo l'assurdità di spettacoli teatrali ove c'erano "scènes éternelles, ou il n'y avoit que de paroles".
È attorno a questo solo ed isolato fatto di rappresentar tragedie che si coagula la fama del C. e il suo ricordo presso i posteri. Fama e ricordo d'una figura bloccata in un unico quadro, ricordata ogni volta per la stessa azione culturalmente meritoria, solitaria e perdente.
Il Bartoli, il Rasi, il Courville, il Bertana e poi tutti gli altri che parlano di lui come di un personaggio di primo piano nel panorama teatrale italiano negli anni a cavallo fra i secc. XVII e XVIII non fanno che ripetere, più o meno criticamente, ciò che aveva raccontato, nel 1728, Luigi Riccoboni nel settimo capitolo della sua Histoire du Théâtre Italien. L'unico dettaglio che si aggiunge a ciò che era contenuto nelle pagine del Riccoboni è costituito dalla menzione (cfr. Bartoli) delle due tragedie che il C. pubblicò a Bologna e a Venezia nel 1679 e nel 1697.
Ma queste due tragedie (Il Romolo, Opera scenica di Pietro Cotta detto Celio, Accademico Costante, Bologna 1679, e Peripezie di Aleramo e di Adelasia, ovvero La discendenza degli Eroi del Monferrato, Bologna e Venezia 1697) non servono certo a confermare la fama, tramandataci dal Riccoboni, di un C. difensore del repertorio tragico regolare.
Il secondo dei due testi è detto esplicitamente "tragicommedia", e sia l'uno sia l'altro, invece di far pensare ad un professionista del teatro diverso dalla media del suo tempo, evocano l'immagine di un direttore di compagnia che sa mediare fra i vari gusti del pubblico, non ignorando i desideri degli spettatori colti ma senza dimenticare le esigenze dei normali frequentatori dei teatri e che, avvicinandosi ai generi classici, li piega alle esigenze del mercato teatrale, scrivendo tragedie in cui i versi e la prosa si mischiano o tragicommedie in prosa ad uso cortigiano (la tragicommedia sulla Discendenza degli Eroi di Monferrato è dedicata a Ferdinando Carlo, duca di Mantova e del Monferrato). Adolfo Bartoli (Scenari inediti della Commedia dell'Arte, Firenze 1880, pp. CXXVII-VIII) non ha torto nel definire le opere drammatiche del C. noiosissime, insopportabili e caratteristiche proprio "per mostrare il pervertito gusto del secolo XVII" da cui Riccoboni volesse, invece, distinguere il Cotta.
Né, d'altra parte, le notizie che il Riccoboni ci tramanda possono, a ben guardare, giustificare l'eccezionalità del C. nel panorama teatrale del suo tempo. Dice il Riccoboni che il C. fece rappresentare dalla sua compagnia testi letterariamente nobili, ma sia il Pastor Fido sia l'Aminta erano normalmente presenti nel repertorio delle compagnie italiane, così come apparteneva alla loro normale routine di lavoro la rappresentazione - sia pure saltuaria - di tragedie regolari opera di poeti di fama. Non è vero, infatti, che le compagnie professionistiche italiane recitassero solo commedie all'improvviso. Ciò accadeva - almeno tendenzialmente - quando erano all'estero, ed è in Francia, davanti a quel pubblico a cui il Riccoboni si rivolge nello scrivere la sua Histoire e a cui presenta l'immagine esemplare del C., che il teatro professionistico italiano viene chiuso in quel genere che sarà più tardi identificato come commedia dell'arte. Ma, nel loro ambiente naturale, le compagnie italiane esploravano tutti i generi drammatici: a volte erano addirittura impegnate per contratto a mettere in scena le tragedie dei poeti; in alcuni anni, prima della costituzione d'una drammaturgia classicista in Francia, erano state le uniche compagnie professionali in Europa a praticare, fra gli altri generi, anche quello d'un teatro rigidamente classico (cfr., a questo proposito, N. Barbieri, La Supplica [1634], Milano 1971, p. 54; U. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel Seicento, Napoli 1962, p. 139; F.Taviani - M. Schino, Il segreto della commedia dell'arte, Firenze 1982, pp. 344-353). Se si guardano nel contesto della pratica delle compagnie italiane in Italia, le notizie che il Riccoboni fornisce del C. (eccezionali per chi osservava il teatro italiano nell'ottica francese) cessano d'essere distintive d'un attore dedito ad un'attività sperimentale in anticipo sui tempi.
Come spiegarsi, infatti, il silenzio che circonda il C. che solo il Riccoboni ricorda come attore eccezionale, ma che agì proprio in quegli anni alle soglie del Settecento, in cui il problema della scrittura e della rappresentazione della tragedia e il tema ad esso opposto e correlato degli abusi dei pubblici teatri dominati dal repertorio "all'improvviso" erano al centro degli interessi e delle discussioni dei letterati?.
Il marchese Scipione Maffei, ad esempio, nell'introdurre la raccolta del Teatro italiano (Verona 1723, pp. XI s.), biasima gli usi delle compagnie professionistiche italiane, ignare delle bellezze delle tragedie in versi composte dai nostri poeti nei sec. XVI e XVII e ricorda, come sola eccezione, quella di Luigi Riccoboni, attore e direttore di compagnia che, negli anni precedenti la sua andata in Francia nel 1716, portò sulla scena i versi delle tragedie regolari. Di colui che il Riccoboni indica come suo solitario predecessore - il C. - né il Maffei né altri che si interessi al rinnovamento teatrale che il Maffei patrocina, fanno motto.
Si è detto che il Riccoboni è l'unico ad averci trasmesso notizia del C., e si è detto quanto ciò sia in contrasto con quel che la letteratura successiva al Riccoboni continua senza sospetto ad affermare: e cioè esser stato il C. uno dei più eminenti attori del suo tempo, impegnato in un cosciente e anticipatore tentativo di riforma del teatro.
In questo contrasto si cela il senso della biografia del C.: la biografia di un attore scelto, ad esempio, più con l'intento di creare un precedente che con quello di riconoscere un precursore.
Quando il Riccoboni scrive le pagine dell'Histoire du Théâtre Italien si è appena ritirato dal teatro. Scrive per i Francesi e mostra loro che il teatro degli Italiani non è fatto solo di farse e commedie all'improvviso, e insieme scrive per tutti gli uomini di cultura, e a loro vuol dimostrare che senza una radicale riforma ogni tentativo di migliorare l'ambiente del teatro (il suo repertorio così come la recitazione o la morale degli attori o il gusto degli spettatori) è destinato al fallimento. Ciò che il Riccoboni racconta del C. è quanto capitò a lui stesso: anch'egli fu l'alfiere d'una riforma del repertorio secondo il gusto dei letterati, anch'egli fu obbligato dalle esigenze del mercato teatrale a scrivere tragedie e drammi irregolari, anch'egli fallì, alla fine, nel suo tentativo a causa delle imposizioni del pubblico abituale dei teatri.
Attraverso la nobilitazione della figura del C., il Riccoboni si rappresentava come erede di una tradizione minoritaria, sperimentale e colta del teatro italiano, una eredità che egli avrebbe raccolto anche in termini famigliari: figlio d'umili comici, il Riccoboni ebbe, come seconda moglie, Elena Balletti, di dieci anni più giovane di lui, nipote di quei Calderoni che avevano iniziato all'arte comica il romano Pietro Cotta.
In ciò che il Riccoboni ci tramanda del C. va quindi riconosciuto uno di quei casi che mostrano il desiderio dei comici di costruirsi una storia esemplare da contrapporre ai preconcetti del pubblico. Più che di una notizia biografica isolata su di un personaggio altrimenti quasi dei tutto sconosciuto, le pagine del Riccoboni costituiscono un esempio di agiografia teatrale. Lo dimostra, fra l'altro, il tono stesso della prosa del Riccoboni: egli parla di un attore che agì e ottenne i primi successi nell'ultimo decennio del sec. XVII, negli anni in cui il Riccoboni stesso debuttava come attore divenendo presto direttore di compagnia: una compagnia, per di più, che agiva nella stessa area geografica in cui agiva quella del Cotta. Eppure il Riccoboni racconta di quel suo collega, di poco più anziano, come se parlasse di avvenimenti lontani, usa un tono remoto, lo colloca nell'atmosfera senza tempo delle vite esemplari. A differenza di quel che di solito fa, nelle pagine sul C. egli sfuma tutti i riferimenti spaziali e temporali, mentre precisa i dettagli dell'azione culturalmente meritoria dell'attore e la situa in un paesaggio teatrale desolato, caratterizzato da una decadenza di costumi paragonabile a quella di cui si racconta nelle favole e nelle leggende: non nascevano più - dice - nuove commedie, e gli attori, ignoranti, scostumati, privi di talento, "n'avoient d'autres recours qu'à la source intarissable des polissonneries". È a questo punto che a Roma, "un jeune homme de cette grande ville prit le parti de la comédie et suivit une troupe".
Anche il finale delle pagine dedicate dal Riccoboni al C. conferma il tono agiografico d'una storia esemplare: "Enfin le théâtre étoit en confusion: pendant qu'une personne poussait les comédiens à donner des tragedies, une autre les en dégoutoit en les suppliant de ne les point ennuier: comme faire? Sur ces entrefaites Pietro Cotta quitta le théâtre et se retira". Ancora una volta, il Riccoboni sembra parlare di sé mentre parla del C., e la figura del suo predecessore si conferma essere una figura in gran parte ricostruita e ampliata per fini apologetici ma con un'efficacia sufficiente a farla penetrare, pur senza l'appoggio di altre testimonianze, fra le figure significative del teatro italiano fra Sei e Settecento accreditate dalla storiografia che dal sec. XVIII giunge fino ai nostri anni.
Fonti e Bibl.: Una volta ricordata l'unica fonte di tutte le successive notizie sul C., e cioè le pp. 75-79 de l'Histoire du Théâtre Italien di L. Riccoboni, Paris 1728, non resta che indicare i principali luoghi in cui la figura del C. viene più o meno ampiamente riproposta e discussa senza che però venga penetrata l'indole della fonte di cui si ripetono i dati: F. Bartoli, Notizie istor. de' comici italiani dal 1550 fino al 1781, Padova 1782, sub voce;L. Rasi, I comici ital., Firenze 1897, sub voce; E.Bertana, Il teatro tragico italiano del sec. XVIII prima dell'Alfieri, Torino 1901, p. 5; X. de Courville, L. Riccoboni dit Lelio chef de troupe en Italie (1676-1715), Paris 1943, pp. 17-20; C. Morinello, C. P., in Enc. dello Spett., III, coll. 1632 s.; N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, p. ss; L. Zorzi, Il teatro e la città, Torino 1977, p. 263.