PIETRO d'Ibernia
PIETRO d’Ibernia (de Hibernia, de Ybernia). – Nato probabilmente in Irlanda verso l’inizio del Duecento da famiglia gaelica o normanna, dopo un primo avvio agli studi nella sua terra natale, l’assenza di una università fece sì che abbandonasse l’isola attorno ai 15 anni per proseguire gli studi in una università imprecisata, ove conseguì il titolo di maestro nella facoltà delle arti. Non ci sono prove che si sia successivamente iscritto alla facoltà di teologia.
Il suo interesse per le problematiche medico-scientifiche potrebbe suggerire come sede probabile Oxford, dove quelle discipline fiorivano particolarmente, grazie all’influsso di Roberto Grossatesta. D’altra parte il suo approccio alla logica potrebbe far supporre una frequentazione parigina; e può darsi benissimo che, come parecchi studenti oxoniensi, abbia studiato per qualche tempo nell’una e nell’altra sede. In ogni caso, a partire dagli anni Quaranta del Duecento Pietro era professore (magister in actu regens) di logica e filosofia naturale nello Studio di Napoli, la prima ‘università statale’ europea. Grazie ai legami familiari tra le casate normanne, i contatti tra Italia meridionale, Inghilterra e Irlanda erano frequenti, e questo può essere stato un fattore che agevolò il conseguimento da parte di Pietro di una posizione abbastanza prestigiosa a Napoli.
La notorietà di Pietro è dovuta – per certi aspetti, innanzitutto – al fatto che il giovane Tommaso d’Aquino fu suo allievo, a Napoli, nel periodo 1239-1244. Con ogni probabilità, fu lui a introdurre per primo l’Aquinate allo studio di Aristotele, e forse anche ai commenti di Avicenna e Averroè. Di conseguenza, Tommaso poté orientarsi a un approccio più naturalistico alla problematica filosofica rispetto a quello del suo primo maestro, Alberto Magno, e a quello di parecchi suoi contemporanei. In realtà, oltre a questa spinta iniziale, l’influenza di Pietro sull’Aquinate si rivelò significativa anche alla fine della carriera di quest’ultimo, quando era impegnato nel gigantesco progetto di commento sistematico delle opere aristoteliche. Mentre scriveva, forse Tommaso aveva sul suo tavolo il commento di Pietro sul Peri hermenias; ci sono, in effetti, parecchie somiglianze fra la trattazione di Pietro e l’esposizione dell’Aquinate, e alcune risultano davvero significative. Del resto, Tommaso di quando in quando menziona il testo di Pietro come auctoritas insieme ai commenti di Boezio o di Ammonio, oltre a ricordarlo nel Commento alle Sentenze (I, d. 36, q. 2, a. 3).
La fama di Pietro fece sì che il suo nome venisse ampiamente ricordato nel secolo seguente. Per quanto riguarda l’età sveva, Petrus de Ibernia compare in un certo numero di documenti, ma per lo più si tratta di supposizioni dei copisti piuttosto che di fatti accertati (Delle Donne, 2009). Di conseguenza, è stato messo in dubbio (Robiglio, 2002, p. 110) che Pietro sia stato effettivamente il maestro di Tommaso d’Aquino. Ma contro l’opinione di Robiglio restano le testimonianze di Guglielmo di Tocco e di Pietro Calò. Ciò che è certo, comunque, è che Pietro fu attivo nella regione tra Napoli e Salerno negli anni 1250-65 circa, e le sue opere superstiti concernono la logica e la filosofia della natura, ciò che combacia con quanto affermato da Pietro Calò.
Anche se il punto di partenza dell’interesse per le opere di Pietro risiede nelle indicazioni che se ne possono trarre su ciò che egli insegnò al giovane Tommaso negli anni Quaranta, in realtà, basandosi su prove interne, i suoi scritti sembrano collocabili un decennio più tardi, e sono riferibili a lecturae fatte negli anni Cinquanta e Sessanta. E quantunque si possa supporre una certa continuità con quello che l’Aquinate ascoltò, attualmente Pietro è considerato e valutato in modo più autonomo, e non soltanto nella luce riflessa del suo celebre allievo.
Non c’è dubbio sulla sua apertura e curiosità intellettuale: egli era consapevole degli sviluppi contemporanei ed era in prima linea nell’apprezzare i nuovi insegnamenti che provenivano dalle traduzioni delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, così come delle opere di Maimonide e delle traduzioni dei testi di medicina di Costantino Africano e Isaac Israeli. Su sollecitazione di Federico II, infatti, l’opera del grande pensatore ebreo fu tradotta in latino negli anni Quaranta, come risultato di una collaborazione tra ebrei e cristiani. Questa collaborazione continuò, tant’è vero che sappiamo da Moses ben Salomon di Salerno che egli si incontrò con Pietro de Ibernia (da lui definito «saggio cristiano») e con altri negli anni Cinquanta per discutere le principali opinioni di Maimonide (Sermoneta, 1969, p. 45). Gli sforzi di Mosè si indirizzavano in due direzioni: da un lato, la collaborazione con gli scolastici cristiani nella comparazione, traduzione e analisi di quest’opera fondamentale della filosofia ebraica, e dall’altro nella trasmissione alle cerchie intellettuali ebraiche di ciò che egli aveva imparato dai pensatori cristiani come Pietro de Ibernia, per quanto riguarda i problemi derivanti dalla Guida.
Pietro non mostrava un’attitudine servile rispetto alle sue fonti. Per esempio, per quanto sia debitore del pensiero di Averroè, egli criticò la nozione di un singolo intelletto passivo per tutti gli esseri umani, e rifiutò il determinismo e il dualismo contemporaneo tra Bene e Male, diffuso tra i Catari dell’Italia meridionale. Nel campo della logica, era ben consapevole delle novità apportate dagli artistae parigini (la cosiddetta logica modale) circa la distinzione tra le proposizioni semplici e modali, tra modus significandi e modus intelligendi, cioè tra ciò che le parole significano e il modo nel quale le parole sono comprese. Nell’introduzione al commento sul Perì hermenèias Pietro definì lo scopo della filosofia come la conoscenza della verità di tutte le cose, nella misura in cui, per gli esseri umani, era possibile raggiungere tale verità. Un’influenza aristotelica è innegabile. Essa è chiara anche nel modo nel quale Pietro conduce il ragionamento filosofico, ove – come da parte del suo studente Tommaso d’Aquino – è mantenuta una chiara distinzione tra filosofia e teologia, e il compito di ciascuna è delimitato e precisato.
Di Pietro d’Ibernia sono sopravvissuti tre scritti, che non risulta possibile datare con esattezza. Traditi ciascuno da un solo manoscritto, essi ci fanno intravedere quella che deve essere stata una carriera scientifica brillante e produttiva. Si tratta, in tutti i casi di reportationes di letture effettuate da Pietro. Dal fatto che sia sopravvissuto un commento al De interpretatione di Aristotele, sembra ragionevole dedurre che abbia effettuato una lectura di tutto l’Organon. Quanto al commento del De longitudine et brevitate vitae, esso suggerisce una lettura anche degli altri libri dei Parva naturalia, dopo una lettura del De anima. I frequenti riferimenti alle opere di Aristotele sulla biologia indicano che Pietro probabilmente commentò nel suo insegnamento gli scritti raccolti sotto il titolo De animalibus. Le menzioni ripetute delle fonti mediche indicano un rapporto diretto con la scuola medica della non lontana Salerno. Infine, l’ampiezza della considerazione della quale Pietro fu gratificato dai contemporanei è provata dalla quaestio disputata sull’origine e il rapporto tra il corpo umano e le sue parti (cioè se esse siano fatte per il corpo, o se il corpo sia fatto in funzione di esse), che fu dibattuta in pubblico di fronte a Manfredi di Svevia da parte di diversi docenti dello Studio di Napoli, nell’ambito della quale l’onore del responso definitivo fu affidato a Pietro.
Il testo della Determinatio magistralis di Pietro fornisce una straordinaria istantanea della vita culturale alla corte di Manfredi. La questione fu posta dal re, dibattuta dai maestri e come accennato sopra ‘determinata’ ovvero risolta da Pietro. Nel testo, Pietro attinge principalmente alle idee aristoteliche, ma le mette in relazione con il commento di Averroè. Non poche delle idee presentate potrebbero essere valutate come piaggeria verso il re, ma nessuna più dell’attenzione prestata da Pietro per l’anatomia e le attività degli uccelli da preda, destinate a compiacere Manfredi in quanto editore del De arte venandi cum avibus del padre Federico II. Un fermo immagine significativo della vita dell’ultimo Hohenstaufen, che come il padre promosse la vita culturale del suo regno, e in particolare la riflessione filosofica.
Nel corso della Determinatio, Pietro fa riferimento piuttosto concisamente alla dottrina aristotelica di una sorta di provvidenza naturale, non tanto in ordine alla sopravvivenza dell’individuo quanto piuttosto alla sopravvivenza della specie. Ma il problema dell’esistenza del Male nella natura non contraddice la nozione di un ordo provvidenziale? Questo Male è provato dal fatto che, per sopravvivere, taluni animali uccidono e mangiano altri animali. Pietro sottolinea che la difficoltà del problema ha condotto alcuni a porre due principi costitutivi della realtà, quello del Bene e del Male. È interessante notare che la sua fonte è il commento di Averroè, ove si afferma che tale problema ha indotto alcuni a sostenere che esistono due divinità, una delle quali fa le cose buone, l’altra le cose non buone (tale dualismo non appare meramente astratto visto che abbiamo prove della presenza di Catari in Campania nel Duecento). Pietro rifiuta il dualismo sia sul piano teologico sia su quello filosofico, in quanto eretico e assurdo allo stesso tempo: assurdo perché il Male non può esistere di per sé, essendo una privazione del Bene da cui ha avuto origine la creazione; dunque il Male non può essere separato dal Bene ma individuato (e superato) tramite il Bene, dal momento che tutto ciò che è, in quanto è, è Bene (celebre citazione tratta da Boezio).
Pietro insegnò a Napoli presumibilmente sino alla fine degli anni Sessanta. Si ignora la sua data di morte.
Il suo metodo filosofico era dedicato alla ricerca della verità attraverso una strada indipendente dalla teologia o dalla fede personale. Per quanto alcune sintetiche allusioni lo identifichino come cristiano, nei suoi scritti non fa riferimento alla Scrittura né ai padri della Chiesa. Boezio è menzionato, ma è significativo che Agostino e l’intera tradizione del neoplatonismo cristiano siano assenti. Pietro si colloca in una congiuntura del pensiero medievale dedita al recupero di una corretta comprensione di Aristotele. Per quanto sia talvolta eclettico nella scelta dei materiali, Pietro è stato uno dei pensatori che ha contribuito a un passaggio fondamentale nel processo di riappropriazione della filosofia greca da parte della cultura occidentale.
Fonti e Bibl.: Expositio et Quaestiones in Aristotelis librum De longitudine et brevitate vitae, a cura di M. Dunne, Louvain-Paris 1993; Expositio et Quaestiones in librum Aristotelis Peryermenias seu de interpretatione, a cura di M. Dunne, Louvain-Paris 1996, pp. 3-244; Determinatio magistralis (ex cod. Ampl. F 335), a cura di C. Baeumker, Louvain-Paris 1996, pp. 246-250.
G. Sermoneta, Un glossario filosofico ebraico italiano del XIII secolo, Firenze 1969; A. Robiglio, Neapolitan Gold. A note on William of Tocco and Peter of Ireland’, in Bulletin de la Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale, XLIV (2002), pp. 107-111; M. Dunne, Concerning Neapolitan Gold: William of Tocco and Peter of Ireland, in Bulletin de la Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale, XLV (2003), pp. 61-65; Id., Peter of Ireland, the university of Naples and Thomas Aquinas’ early education, in Yearbook of the Irish philosophical society, 2006, pp. 84-96; F. Delle Donne, “Per scientiarum haustum et seminarium doctrinam”: edizione e studio dei documenti relativi allo Studium di Napoli in età sveva, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo, CXI (2009), pp. 101-225; M. Dunne, Dubitauit rex Manfridus… King Manfred and the Determinatio magistralis of Peter of Ireland, in Translating at the court. Bartholomew of Messina and the cultural life at the court of Manfred, king of Sicily, ed. P. de Leemans, Leuven 2014, pp. 49-64.