Pietro da Figino
Frate francescano, vissuto a cavaliere dei secoli XV-XVI, curatore di alcune edizioni veneziane della Commedia con commento del Landino.
Dai colophon di queste edizioni (Bernardino Benali e Matteo da Parma, 3 marzo 1491; Pietro Cremonese, 18 novembre dello stesso anno; Matteo " di Chodecha " da Parma, 29 novembre 1493; " Piero da Zuanne di Quarengii da Palazago Bergamasco, 11 ottobre 1497; " Bartolomeo de Zanni da Portese ", 17 giugno 1507; Bernardino Giolito de Ferrariis detto Stagnino, 1512 e 1520) si apprende soltanto che P. appartenne all'ordine " de' Minori " e fu " Maestro di Theologia et excellente Predicatore ".
Argomento di lunga controversia è l'identificazione della patria di P.: Figino Serenza in provincia di Como, o Figline Valdarno? P. fu lombardo o toscano?
Milanese (" Petrus Figinus seu de Figino, patria Mediolanensis ") lo dice l'Argelati, il solo che - sulla scorta di schede fornitegli " humaniter " dal canonico Giovanni Andrea Irico - abbia tentato un peraltro sommario profilo bio-bibliografico di P.; e con l'Argelati si accordò lo Gnoli, che attentamente sfogliò l'incunabolo dell'edizione Cremonese, riccamente miniato e abbondantemente postillato, appartenuto di sicuro a P. medesimo, rilevandone il carattere lombardo delle miniature e soprattutto delle postille a penna.
All'origine lombarda di P. è invece decisamente contrario, con accenti che sfiorano talora una mal giustificata acredine, il padre Sarri, il quale, con argomentazioni non sempre rigorose e soprattutto senza considerare l'impronta linguistica delle aggiunte a penna - che dichiara peraltro apertamente di non aver veduto -, rivendica P. a Figline Valdarno, identificandolo anzi, sulla scorta di una notizia del Wadding e su illazioni di altri studiosi francescani - il da Terrinca, il Papini, il Cerracchini -, con frate Pietro Mazzanti teologo e predicatore insigne, successo in Grosseto a Francesco Sansone nella carica di Vicario Generale dell'ordine. Non essendo evidentemente risalito al Wadding, il Sarri (come del resto i suoi predecessori e incredibilmente tutti coloro che fino ad oggi si sono occupati della questione) non poté accorgersi che il " Petrus Mazzantus " da Figline citato dal Wadding visse un secolo prima del P. da Figino curatore di D.; né considerò che la prima notizia che attribuisce al Mazzanti la cura del commento del Landino si trova nel Papini, posteriore di ben mezzo secolo all'Argelati; né tenne in alcun conto l'altra importante notizia registrata nel supplemento della Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium relativa a un manoscritto di 120 fogli intitolato Argomenti sopra tutti i libri dell'opera del divino D., che nel 1745 era posseduto dall'Argelati medesimo (" apud me "), il quale assegnò l'opera a P. probabilmente in base a una rubrica del codice, oggi smarrito.
A riproporre tuttavia la candidatura di un altro frate " Piero da Fighine " verrebbe una lettera del 14 giugno 1483 rintracciata nell'Archivio della Fabbrica di San Petronio a Bologna dal Filippini, che manco a dirlo cade nel medesimo errore di identificare col Pietro Mazzanti del Wadding il firmatario di questa epistola; nella quale, a detta dello studioso, " ortografia e grafia corrispondono perfettamente alle postille autografe dell'esemplare landiniano ".
La proposta del Filippini non è tuttavia accettabile. A parte che né la grafia né l'ortografia della lettera risultano a una più attenta analisi così " perfettamente " corrispondenti alle note autografe dell'incunabolo, non basta certo un " m'aracomando " (e non " mi arrecomando ", come trascrive il Filippini) a decidere della ‛ toscanità ' di tutta la lettera, tanto più essendo la protesi di a ad r fenomeno fonetico abbastanza diffuso in area non toscana. Anche a un esame sommario, le postille dell'incunabolo rivelano invece carattere linguistico decisamente settentrionale: i fittissimi scempiamenti (" magior ", " rabiosa ", " vilana ", " habi ", ecc.), i troncamenti (" tien ", " ben ", " pien ", " commentator ", " apar ", " reprender ", " exposicion ", " opinion ", ecc.), altri fenomeni fonetici e vocaboli dialettali (" stampador ", " coionaria ", " poltronzoni ", " partisanazo ", " disconzate ", " bestionaci ", " non me ne avesse impazato ") appartengono senz'altro, soprattutto se visti in correlazione tra loro, a fonologia e lessico d'area padana.
Si aggiunga poi che il postillatore avverte talora la necessità di spiegare il significato d'un vocabolo toscano, per esempio del mesca di Pd XVII 12: " ma ti mesca è vocabolo thosco, perho che quando el thoscano dimanda bere dice: mesci, e questa exposicion è de Benvenuto da Imola " (c. 308 r); spiegazione che il fiorentino Landino non ha ovviamente ritenuto necessario fornire (" Tu ti hai domenticato a exponer Ti mesca ", lo rimprovera il postillatore).
La forma del toponimo quale si legge nei colophon oscilla tra " Figino " (1491 Benali, 1493, 1497) e " Fighino " (1491 Cremonese, 1512), mai vi appare nelle forme " Figghine ", " Figine " o " Fegghine ": il che, come ben vide lo Gnoli, fa senz'altro escludere si tratti di Figline Valdarno, considerando tra l'altro che questa città è citata nella forma Fegghine proprio nella Commedia (Pd XVI 50) e che quindi un ottimo conoscitore del testo dantesco quale si dimostra il postillatore dell'incunabolo avrebbe senz'altro corretto il Figino del colophon, una forma che avrebbe potuto generare - come ha generato - equivoco sulla sua patria d'origine. È inoltre difficile credere, dato il vivace spirito polemico di cui ripetutamente dà prova, che il postillatore se veramente nativo di Figline avrebbe così passivamente resistito ad apporre qualche nota di commento a fianco della citazione di Pd XVI 50. Si aggiunga poi che " Figino " (o " da Figino ") è cognome milanese, e lo si trova per esempio altre cinque volte citato nell'Argelati (un Gian Pietro Figino è tra l'altro contemporaneo del frate).
Inconsistente appare d'altra parte il dubbio sull'attribuzione delle postille al curatore dell'edizione, giacché l'aggiunta vergata a penna di seguito al colophon (" che saria meglio che non me ne avesse impazato, perché ho lassato molti errori, come ignorante ch'io sono, dico io frate Piero ") ha il valore di una firma; a meno non si voglia supporre che il postillatore - non P., dunque - abbia inteso dar dell'ignorante al frate correttore del Landino assumendone spiritosamente le spoglie. Ma è ipotesi inconsistente, dal momento che non pochi elementi concorrono a sostenere invece l'identificazione di P. col postillatore e l'appartenenza del frate alla regione padana.
La frequente trascrizione in svolazzanti cartigli di motti per lo più endecasillabici che, contrariamente a quanto affermato dal Filippini, non sempre ripetono versi danteschi (per es., a c. 304 r: " Contra virtù vanegia il furor nostro "), il sonetto scritto nell'ultimo foglio di guardia, Non già la perffection de un bel Dessegno, e una sorta di stornello registrato in margine alla c. 343 r (" Amor Amor mio bello / e de fatte a la bella finestra e dora finestra ") potrebbero render credibile l'affermazione dell'Argelati secondo la quale P., se si dedicò a seri studi di teologia, " ab amoenioribus alienus non fuit ", curando particolarmente poeti volgari italiani (" praecipue vero Italorum ").
Non è possibile tuttavia dire se P. abbia curato edizioni d'altri poeti; e a proposito delle dantesche, occorre tra l'altro avvertire che con ogni probabilità le diverse edizioni a lui attribuite non sono che ristampe d'una stessa o di due direttamente rivedute, forse delle due del 1491 o di quella del Benali soltanto.
A concorde giudizio degli studiosi che esaminarono il volume allorché nel 1927 fu acquistato dal governo italiano e donato alla " Casa di D. " in Roma, le miniature appartengono a scuola settentrionale; e questa attribuzione, sottoscritta tra gli altri anche da Mario Salmi, non è stata smentita neppure dai sostenitori di P. da Figline, che hanno perciò dovuto supporre che il frate avesse trovato il volume già miniato da altri.
Che le miniature siano d'ambiente padano è dimostrato anche da un particolare inedito di notevole importanza. Tra le illustrazioni del c. XV del Paradiso vi è un ritratto con la scritta " Divo Fracasso di Marte figlio ": è l'immagine dunque di Gaspare Sanseverino d'Aragona detto Fracasso, figlio di Roberto Sanseverino e di Elisabetta della Rovere di Montefeltro, noto uomo d'armi al servizio di Ludovico il Moro (dal 1493 al 1500), di Cesare Borgia, della Repubblica Veneta (saltuariamente, dal 1509 al 1513, senza però esser mai realmente utilizzato). Per la sua impetuosità e la robustezza fisica, Fracasso era detto anche l'Achille dei suoi tempi, e i veneziani, pur diffidandone, lo giudicavano " il secondo homo de Italia " (Marin Sanudo, Diari, XVI, Venezia 1886, 7).
Poiché il periodo in cui la fama di Fracasso toccò il vertice fu quello ch'egli trascorse al servizio del Moro (Venezia, pur pagandolo, lo tenne sempre in disparte), è lecito dedurne che la miniatura risalga allo scorcio del sec. XV e sia opera, con le altre, di persona vicina alla corte milanese.
Una volta accertato che P. era d'origine lombarda, è lecito supporre che anche le miniature siano opera sua? È possibile interpretare in questo senso la prima quartina del sonetto - nel quale, come ben intese il Filippini, P. induce a parlare il volume medesimo - trascritto sul recto dell'ultima carta di guardia: " Non già la perffection de un bel Dessegno / posto (si de' notar) ne le mie carte, / perché la proffession di sì bell'arte / non è de chi mi tien per caro pegno "; P. si dichiara qui dunque un dilettante di disegno, e vuole che il lettore non si fermi all'apparente eleganza delle figure e apprezzi invece " l'arte e l'ingegno / dil buon comento " (v. 5-6) e " la sentenza dil buon almo Aldigeri " (v. 10). Che le miniature - cento delle quali, una per canto ripetono spesso ampliandole, le xilografie dell'edizione originale - non attingano un alto livello artistico è facile constatazione, che peraltro non ne sminuisce l'importanza documentaria e l'indubbio fascino che emana dalla freschezza della rappresentazione, dall'accurata aderenza al testo dantesco, dalla vivacità aneddotica e dalla sonorità dei colori.
Le postille a penna che P. ha vergato in latino e in volgare sui margini delle carte sono di varia natura. Oltre a indicare sommariamente il contenuto dei canti, il frate aggiunge versi omessi per errore dallo " stampador " e ne corregge refusi e lezioni (per es. la terzina Pd XXIII 59-61; l'evidente lectio facilior " solitario " in esso litare, Pd XIV 93); talaltra segnala carenze del commento landiniano o ne chiarisce alcuni punti che non ritiene evidentemente perspicui a sufficienza (oltre al ti mesca di Pd XVII 12, le notizie su alcune casate che Cacciaguida nomina in XVI 87 ss.: " Qui don Christophalo Landino fa un gran salto senza exponere alcune cose e non tocca l'exposicion sopra la porta "; " La tracotata, idest discordia nello apetito; quotus in latino significa il quanto in ordene. Adunque traquotato è colui che passa l'ordine nel quale deba contenersi "). Più spesso P. tiene a dichiararsi d'accordo col commentatore (" Questo è mirabilmente detto ", " Tutto è benissimo inteso e meglio dichiarito ", " Son vostro ", ecc.); ma talvolta entra in diretta polemica con lui, in termini che vanno dal dissenso generico, come a proposito dell'interpretazione landiniana di Pd X 48 (" Ista exposicio non placet nobis "), alla decisa reprimenda, che tocca punte di aspra polemica allorché a Pg XI 113 ss. il Landino commenta: " Non posso fare che in questo luogo o in alcuno altro non mi dogli: perché vorrei che tanto poeta e di sì mirabel ingegno e doctrina non s'avessi lasciato trasportare da la perturbatione de l'animo inverso la sua patria. Ma è vero el verso d'Homero che Idio non dette mai a un solo ogni cosa ". "Gran coionaria è questa del commentator ", ribatte P., " a reprender il poeta che dica mal di la sua patria tegnosa, se quella non patria ma inferno li fu in vita. [...] Siché, ser Christophalo mio partisanazo, voi disconzate tutta la vostra opera volendo dir che l'auctor nostro divino non habi facto bene a dir il vero de quelli bestionaci firentini (sic) che a quel tempo si trovaro a la ofesa sua ".
Per queste sue caratteristiche umorose, per l'ottima conoscenza dell'opera dantesca, per il buon livello di cultura e, forse, per le gustose quanto ingenue miniature, P. da Figino ha indubbiamente diritto a un suo posto particolare nella storia della fortuna dantesca del sec. XV.
Bibl. - L. Wadding, Annales Minorum (1624), Quaracchi 1932³, IX 236 (" a. 1399 "); F. Argelati, Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium, Milano 1745, I 624, II 1991-92; N. Papini Tartagni, Etruria francescana, Siena 1797, 21; M. Salmi, in " Corriere della Sera " 4 febbraio 1927; T. Gnoli, in "Il Secolo " 20 febbraio 1927; ID., Il D. di P. da F., in " Accademie e Biblioteche d'Italia " I (1927) 20-35; F. Sarri, Frate P. da Figino o da Figline?, in " Studi Francescani " XIII (1927) 94-101 (rist. in " Giorn. d. " XXX [1927] 173-180); F. Filippini, Il D. di P. da F., in " Archivum Romanicum " XIII (1929) 563-569.