PIETRO da Rimini
Pittore riminese documentato nella prima metà del Trecento.
La scritta "Petrus de Arimino fecit hoc [---]" compare sulla croce già nella chiesa dei Morti e ora nella cattedrale di Urbania (prov. Pesaro e Urbino). Secondo una trascrizione cinquecentesca (Moschetti, 1931), un polittico già nella chiesa degli Eremitani di Padova recava l'iscrizione: "Anno Domini MCCCXXIIII mense iunii hoc opus fecit fieri frater Nicolaus de Sancta Cecilia et factum fuit per manus Iuliani [et] Petrucii de Arimino". Il 14 febbraio e il 3 maggio 1338 P. prestò testimonianza a Rimini circa le case ivi possedute dalla canonica portuense di Ravenna (Delucca, 1992; Marchi, Turchini, 1992). Altre testimonianze documentarie risultano meno sicure: la firma Petrus de Arimino e la data 1309 si sarebbero lette su un affresco, distrutto nel corso dell'Ottocento, nella chiesa di S. Marco a Cupra Montana (prov. Ancona; Anselmi, 1906); inoltre, su un S. Francesco staccato da S. Nicolò a Jesi e ora nel convento di S. Francesco a Montottone (prov. Ascoli Piceno) compare la scritta, evidentemente posteriore ma tratta forse da altra parte di un ciclo di affreschi più vasto, "Petrus de Arimino MCCCXXXIII" (La pittura riminese, 1935, p. 46).Sulla base della sola croce di Urbania e dei pochissimi riscontri documentari sopra ricordati, la critica moderna ha raggruppato un corpus di opere su tavola e ad affresco, tra cui il ciclo di S. Nicola a Tolentino, che qualificano P. come il secondo protagonista della scuola riminese dopo Giovanni (v. Giovanni da Rimini). Permangono peraltro dispareri, che vertono tanto sulla consistenza del gruppo stilistico riconducibile alla sua diretta responsabilità quanto sulla seriazione cronologica. Dopo una fase 'restrizionista', volta ad accreditare a P. un limitato numero di opere, tutte connotate da una qualità suprema (Volpe, 1965), si è passati a considerare (Boskovits, 1988) la possibilità che tutte le opere già in qualche modo accorpate tra loro da Crowe e Cavalcaselle (1883-1885), Salmi (1933) e Toesca (1951) rappresentino altrettanti aspetti dell'attività di un unico artista, scalati entro un arco di tempo abbastanza ampio. In questa prospettiva non sono mancati i tentativi di arretrare considerevolmente gli avvii del pittore, sia sostenendo una datazione molto alta (1310 ca.) del ciclo in S. Nicola a Tolentino (Bellosi, 1977; Bisogni, 1987) sia prestando credito alle incerte notizie sopra ricordate, che dimostrerebbero P. già attivo nel primo decennio del secolo (Pasini, 1990; Bellosi, 1994).
In realtà la datazione del ciclo tolentinate, che per ormai generale ammissione rappresenta l'aspetto più arcaico del pittore, deve tener conto di taluni dati incontrovertibili: nella fascia inferiore, contenente le Storie di s. Nicola, è effigiato un miracolo avvenuto in mare a due mercanti nel 1317 e gli elementi decorativi, costituiti da grandi fasce con stilizzati motivi vegetali inframmezzati da busti di santi e, in quella inferiore, da buffe facce che fanno smorfie, confermano una data di esecuzione intorno al 1320, vista la loro desunzione dagli affreschi di Pietro Lorenzetti nel transetto della basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi. La datazione del ciclo è da contenere forse tra il 1317 e il 1325, quando ebbe luogo il processo di canonizzazione di Nicola da Tolentino. Dal punto di vista dell'organizzazione narrativa il ciclo tolentinate, al quale P. attese con ampio ricorso a una bottega eterogenea, costituisce l'esito più ambizioso tra quelli riminesi rimasti (Evangelisti e Dottori nelle vele della volta, e sulle pareti, in tre ordini sovrapposti, Storie di Cristo e Storie di s. Nicola). Le parti autografe rivelano una monumentalità quasi romanica e un'aspra ricerca espressiva (Strage degli innocenti), che sa però già trovare scaltriti accorgimenti narrativi, calati entro eleganti cadenze goticheggianti (Disputa con i Dottori, Nozze di Cana). Sono peraltro i passi di più sofferta e quasi urlata urgenza drammatica a consuonare con la croce firmata di Urbania, che rimane l'unica opera sicura dell'artista e che si propende ad assegnare, insieme alla Deposizione (Parigi, Louvre), alla fase più antica del suo percorso.Le origini del linguaggio di P. vanno ricercate nella grandiosa decorazione del coro di S. Agostino a Rimini, un'impresa dove si è voluto talora ravvisare anche la sua mano e che segna di fatto il passaggio dal giottismo arcaico e solenne di Giovanni da Rimini a quel sentire più umanamente partecipe che caratterizzò in seguito appunto l'opera di Pietro. Incerta è l'appartenenza alla fase giovanile di P. degli affreschi del refettorio di Pomposa (Orazione nell'orto, Ultima Cena, Déesis, Cena dell'abate Guido), sull'arriccio dei quali si legge la data 1318 (Salmi, 1936), ma che, rispetto agli affreschi di Tolentino, propongono un eloquio più nervoso ed elegante e potrebbero spettare dunque a una fase più inoltrata del suo percorso. Sul principio degli anni venti si colloca forse l'unica prova di P. in campo miniatorio: il compimento dei Commentarii in Evangelia, in Actus Apostolorum et in Apocalypsim, lingua gallica (Roma, BAV, Urb. lat. 11), illustrato entro il 1322-1323 per Ferrantino Malatesta (Benati, 1992a, pp. 239-240).Un arricchimento sensibile della cultura di P. dovette essere provocato dal soggiorno padovano, documentato dal ricordo del perduto polittico eseguito nel 1324 per la chiesa degli Eremitani: i suoi riflessi si colgono dapprima negli sbandamenti espressivi degli affreschi (distrutti nel 1918 e documentati da fotografie) con le Storie di Cristo e di s. Prosdocimo del castello dei conti di Collalto presso Susegana (prov. Treviso), collocabili poco dopo la morte del conte Rombaldo VIII, avvenuta il 10 gennaio 1324 (Fossaluzza, 1994), dove, accanto alla riedizione di scene già utilizzate a Tolentino (Disputa con i Dottori, Dormitio Virginis), ne compaiono altre di nuova e sorprendente invenzione, come la Trasfigurazione e il Battesimo di s. Prosdocimo. Le novità apprese dallo studio del Giotto padovano si ricompongono in un universo formale di grande asciuttezza negli affreschi con le Storie di Cristo già nel convento degli Eremitani (Padova, Mus. Civ., Pinacoteca) e negli affreschi nel catino absidale della pieve di S. Pietro in Sylvis presso Bagnacavallo (prov. Ravenna).Gli esiti maturi di P. sono negli affreschi ravennati (S. Francesco: frammenti di Storie di Cristo; S. Chiara: Storie di Cristo e santi; S. Maria in Porto Fuori, distrutta nel 1944: affreschi nell'arco trionfale, nella cappella maggiore e nelle due laterali): la forza espressiva nel ciclo di S. Chiara ha pochi confronti per la capacità di organizzare il racconto entro superfici molto vaste e irregolari, complicate dalla foratura delle finestre. Accanto a questi dipinti, la cui esecuzione sembrerebbe cadere entro gli anni trenta, si collocano anche numerose opere su tavola, connotate da un'analoga tensione emotiva, come per es. le Storie di Cristo, divise tra Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), Madrid (Mus. Thyssen Bornemisza) e Rimini (Fond. Cassa di Risparmio di Rimini), o il dittico di Amburgo (Hamburger Kunsthalle).
Bibl.: J.A. Crowe, G.B. Cavalcaselle, Storia della pittura in Italia dal secolo II al secolo XVI, II, Firenze 1883, pp. 62-66; III, 1885, pp. 46-47; A. Anselmi, Memorie del pittore trecentista Pietro da Rimini, La Romagna 3, 1906, pp. 443-447; A. Moschetti, Studi e memorie di arte trecentesca padovana. Giuliano e Pietro da Rimini a Padova, Bollettino del Museo Civico di Padova, n.s., 7, 1931, pp. 201-207; M. Salmi, La scuola di Rimini. II., RINASA 4, 1932-1933, pp. 145-201: 149-165; id., Nota su Pietro da Rimini, Dedalo 13, 1933, pp. 3-17; La pittura riminese del Trecento, a cura di C. Brandi, cat., Rimini 1935, pp. XXIII-XXV, 46-61; M. Salmi, L'abbazia di Pomposa, Roma 1936, pp. 156-160 (Milano [19662], pp. 161-174); Toesca, Trecento, 1951, pp. 724-726; F. Zeri, Una ''Deposizione'' di scuola riminese, Paragone, 9, 1958, 99, pp. 46-54; C. Volpe, La pittura riminese del Trecento, Milano 1965, pp. 21-31, 43-48; L. Bellosi, Moda e cronologia. B) Per la pittura di primo Trecento, Prospettiva, 1977, 11, pp. 12-27: 22; F. Bisogni, Gli inizi dell'iconografia di Nicola da Tolentino e gli affreschi del Cappellone, in San Nicola, Tolentino, le Marche, "Convegno internazionale di studi, Tolentino 1985", Tolentino 1987, pp. 255-296; M. Boskovits, Da Giovanni a Pietro da Rimini, in La pittura fra Romagna e Marche nella prima metà del Trecento. Gli apporti di Rimini e di Fabriano, "Atti del Convegno, Mercatello 1987", a cura di R. Budassi, P.G. Pasini, Notizie da Palazzo Albani 17, 1988, 1, pp. 35-50: 42-50; P.G. Pasini, La pittura riminese del Trecento, Milano 1990, pp. 90-115; D. Benati, Gli affreschi nel Cappellone di Tolentino, Pietro da Rimini e la sua bottega, in Arte e spiritualità negli Ordini Mendicanti, "Atti del Convegno, Tolentino 1991", Roma 1992a, pp. 235-255; id., Pietro da Rimini e la sua bottega nel Cappellone di San Nicola, in Il Cappellone di san Nicola a Tolentino, Cinisello Balsamo 1992b, pp. 41-71; O. Delucca, I pittori riminesi del Trecento nelle carte d'archivio, Rimini 1992, pp. 108-111; A. Marchi, A. Turchini, Contributo alla storia della pittura riminese tra '200 e '300: regesto documentario degli artisti e delle opere, AC 80, 1992, pp. 97-106: 103; L. Bellosi, Ancora sulla cronologia degli affreschi del Cappellone di San Nicola a Tolentino, in Arte e spiritualità nell'Ordine Agostiniano e il Convento di San Nicola a Tolentino, "Atti del Convegno, Tolentino 1992", Roma 1994, pp. 187-194; G. Fossaluzza, Santa Maria Nova di Soligo, Treviso 1994, p. 100; D. Benati, Disegno del Trecento riminese, in Il Trecento riminese. Maestri e botteghe tra Romagna e Marche, cat. (Rimini 1995-1996), Milano 1995, pp. 29-57: 45-52; M. Medica, Pietro da Rimini e la Ravenna dei da Polenta, ivi, pp. 94-111; id., Pietro da Rimini, Neri da Rimini e altri miniatori, ivi, pp. 190-213.