DE GREGORIO, Pietro
Nacque a Messina, presumibilmente intorno al 1480, da Giovanni, giureconsulto, e da Contessa (Tissa) Saccano. Nella famiglia, conosciuta e attiva in Messina fino dal Trecento, si contavano a ogni generazione senatori e giudici. Il padre, Giovanni, possedeva alcuni diritti di natura feudale su case in Messina, diritti che, morto il primogenito Tommaso, furono ereditati dal secondo figlio, Giacomo. Il D., terzogenito, fu invece avviato agli studi giuridici. Secondo il Gallo si sarebbe laureato allo Studio di Bologna insieme con Tommaso Donato, altro noto giurista messinese; il Mongitore, seguito dal La Mantia, riferisce invece che studiò a Pavia, allievo di Giasone del Maino.
Rientrato in patria nei primi del sec. XVI, inizia la sua ininterrotta carriera nella magistratura. Giudice, nel 1504 e nel 1505, della corte stratigoziale (tribunale messinese di primo grado) nel 1507 è nominato ad vitam maestro notaro e archivario della stessa. Nel 1509 è giudice della Gran Corte, supremo tribunale civile e penale del Regno. Nel 1512 viene chiamato a sostituire nella carica di protonotaro del Regno Aloisio Sanchez, che accompagnava a Tripoli il viceré Moncada: nel 1513 è nuovamente giudice della corte stratigoziale (e lo sarà ancora nel 1528): negli intervalli esercita l'avvocatura.
Nel 1516, mentre è giudice della Gran Corte e quindi membro di diritto del Sacro Regio Consiglio, viene a trovarsi coinvolto nei drammatici avvenimenti di cui è protagonista il viceré Ugo Moncada. Ma in ogni caso, in quanto giurista di vasta esperienza e profonda dottrina (sembra che già negli anni giovanili avesse composto i tre brevi trattati sulla vita milizia, sulla dote di paraggio e sui giudizi feudali), sarebbe stato chiamato a prendere posizione nelle controversie, anche dottrinali, agitate in questo periodo.
Si inquadra in questo contesto l'episodio saliente della vita pubblica del D.: la missione a Bruxelles presso Carlo V, ricordata da storici, cronisti e biografi. Ècertamente un incarico delicato, che dà la misura della stima e del prestigio che egli ormai godeva nella sua città e tra gli esponenti delle alte magistrature del Regno. Comportando la rappresentanza ufficiale della "nobiltà" messinese, costituisce altresì, in un certo senso, una sanzione ufficiale delle sue aspirazioni, in quanto discendente di una famiglia che da secoli faceva parte del patriziato urbano e come tante altre tendeva, attraverso la magistratura e gli uffici pubblici, all'acquisizione di un titolo nobiliare. Per quanto riguarda la sua posizione personale, oggi sappiamo che il D. era sostenitore, anche dal punto di vista teorico e dottrinale, del baronaggio, ma questa ideologia, rivelatasi molto più tardi, solo quando furono date alle stampe le sue opere giuridiche, non era nota ai contemporanei, che anzi lo ritenevano uno dei più fidi sostenitori e consiglieri del Moncada. Il D. infatti ebbe una parte di rilievo nel favorire presso l'alta burocrazia la formazione di un fronte antibaronale in appoggio al viceré. Ma nella sua scelta politica entrava in gioco ancora un altro elemento, la sua origine messinese: affermando la propria fedeltà al Moncada, identificava i suoi personali interessi con quelli della sua città, nuovamente impegnata in una ulteriore fase della secolare contesa che da secoli contrapponeva le due maggiori città dell'isola.
I particolari dell'episodio sono noti. La crisi, manifestatasi in Sicilia ai primi del sec. XVI con tentativi di rivolta fomentati da tensioni di carattere sociale, politico ed economico, era culminata, con la clamorosa rivolta anti Moncada e con la fuga del viceré in direzione di Messina. Era l'occasione che la città aspettava per prendere, se possibile definitivamente, il sopravvento su Palermo. Per non compromettere l'esito della manovra che si tentava presso il sovrano, il partito filofrancese fu messo a tacere, così come fu precipitosamente composta una ennesima controversia sorta tra nobili e popolari. Dopo le elezioni delle magistrature annuali, che si erano tenute ai primi del 1516 in una atmosfera apparentemente tranquilla, fu deciso di inviare a Bruxelles presso re Carlo due rappresentanti della città per prestare giuramento di fedeltà al nuovo sovrano e ricevere assicurazioni circa l'osservanza dei privilegi della città.
Dovendo l'ambasceria rispettare la tradizionale divisione della popolazione messinese in nobiltà e popolo (il popolo, costituito da borghesi più o meno facoltosi, veniva istituzionalmente rappresentato nelle magistrature elettive), il D. fu designato a rappresentare i nobili, e Francesco La Fonte i popolari. La loro missione non era di carattere puramente diplomatico, in quanto erano stati anche incaricati di cercare di ottenere dal sovrano alcune nuove grazie. Esse concernevano i sistemi di amministrazione della giustizia e di elezione dei pubblici ufficiali, immunità ed esenzioni nel campo del commercio e delle fiere e mercati; si chiedeva inoltre che i monasteri benedettini, e in particolare quello di S. Placido di Calonerò, si unissero sotto la Congregazione cassinese, e che fosse soppresso il S. Uffizio, a causa delle violenze messe in atto dai suoi corrotti ufficiali. A conclusione, la città chiedeva al sovrano di confermare il D. giudice della Gran Corte e di lasciare il Moncada in Sicilia come viceré.
Francesco La Fonte morì durante il viaggio e il D. restò solo a rappresentare la città. L'ambasceria messinese fece il viaggio insieme con il viceré Moncada che Carlo V aveva richiamato nel frattempo a Bruxelles.
Le cronache riportano il testo del discorso che il giurista messinese pronunciò davanti al sovrano il giorno 16 dicembre di quell'anno. Ricco di citazioni dotte e di reminiscenze classiche, nella sostanza è un discorso abile e intelligente, con il quale l'autore non tralascia di fare i propri interessi, poiché ricorda la parte avuta nel voto del Sacro Regio Consiglio che riconosceva la legittimità della permanenza in carica del Moncada, benché fosse intervenuta la morte del sovrano che gli aveva conferito l'incarico. In favore della sua città, comunque, il D. faceva notare che essa si era rifiutata di accogliere la richiesta dei baroni ribelli di convocarvi un Parlamento, ritenendo che non sarebbe stato legittimamente riunito senza la presenza del viceré, e che aveva dato ospitalità al Moncada costretto a lasciare Palermo. Come unica grande città rimasta fedele ai sovrani legittimi era invisa a quasi tutta l'isola, tanto da essere costretta a rifornirsi di vettovaglie depredando le navi. Infine, re Carlo avrebbe dovuto ricordare che solo la fedeltà di Messina aveva evitato che si verificassero in Sicilia e nel Napoletano ribellioni gravi e decisive per le sorti dei regni spagnoli.
Carlo V in effetti sapeva bene quale importanza avesse la Sicilia per il mantenimento dei suoi domini meridionali. Le grazie richieste vennero concesse; il 25 marzo 1517 il D. giurò fedeltà a Carlo e Giovanna a nome di Messina e del suo distretto, mentre i sovrani si impegnavano a rispettare i privilegi e le immunità cittadine; quindi ritornò a Messina insieme con il conte di Monteleone, inviato in Sicilia con il titolo di luogotenente generale.
Fu nominato ancora giudice della Gran Corte, come richiesto, e ricevette una "merced" di 100 onze. Nel 1519, mentre era avvocato della Gran Corte, fu incaricato del sindacato degli ufficiali della città di Catania. Si trattava ancora di un incarico di fiducia, ma il D. probabilmente preferì rinunciare alla possibilità, che gli si apriva, di raggiungere i vertici delle magistrature centrali, perché troppi interessi suoi e dei familiari lo richiamavano verso la città di origine.
A Messina in quegli anni sia il D. sia il fratello Giacomo vennero regolarmente eletti l'uno giudice, l'altro senatore e così un De Gregorio fu sempre presente nel Senato o nella corte stratigoziale. Interessante a questo proposito un documento sottoscritto nel 1518 da 88 rappresentanti di famiglie nobili della città: essi si impongono una tassa sulle merci inviate nelle Fiandre che sarà versata in elemosine destinate ad abbellire la cappella della Madonna della Lettera nella cattedrale di Messina. Tra i firmatari compaiono il D. e Giacomo, che sono ormai gli unici rimasti a rappresentare in città la famiglia in parte impiantatasi altrove. Un ramo è a Taormina, dove sul finire del Quattrocento un Tommaso De Gregorio possedeva alcuni diritti feudali, mentre ai primi dei Cinquecento un Nicolò, cugino del D., fu investito del feudo di Vigliaturi in territorio di Castroreale. Il D. era ancora giudice della Gran Corte nel 1524, quando ottenne il posto di giudice e assessore della secrezia di Messina (la secrezia era l'ufficio che riscuoteva le imposte indirette, e aveva alcune competenze giurisdizionali), che gli venne conferito ad vitam, con facoltà di farsi sostituire. Ma il D. si affrettò a chiedere al viceré la licenza di rientrare a Messina per prendere possesso del nuovo ufficio.
In quest'epoca egli aveva ormai realizzato l'aspirazione a inserirsi tra la nobiltà feudale, avendo effettuato nel 1512 l'acquisto del feudo Gallizzi, per la somma di 6.700 fiorini. Il venditore, Giovanni Branciforte conte di Mazzarino, si era però riservato il diritto di riscatto e, in previsione di ciò (in effetti Gallizzi sarebbe stato riscattato nel 1530 da Artale Branciforte), il D. comprò nel 1524 la baronia di Pietra d'Amico, parte del feudo di Motta Sant'Agata, comprendente il castello e i "marcati" di Giardinelli, Ganzaria e Racanili. Già appartenuta a Federico Abbatelli Cardona conte di Cammarata, dichiarato traditore e giustiziato nel 1523, era in seguito passata al cancelliere Mercurino Gattinara e da questo fu venduta al D. con atto notarile del 6 luglio 1526, per il prezzo di 2.800 onze.
Antonio De Gregorio ne prese materialmente il possesso in rappresentanza del padre, ricevendo in consegna anche le chiavi del castello. Neppure questo feudo sarebbe rimasto a lungo nella famiglia, in quanto nel 1540 Niccolò Barresi, che aveva acquistato dalla Real Corte l'ius luendi, avrebbe acquistato la baronia, per la quale aveva offerto la somma di 3.200 onze.
Il D. morì a Messina il 21 sett. 1533, affidando per testamento alla moglie Eufrosina la tutela dei figli minori, ed esonerandola dal rendiconto della tutela, sempre che nel frattempo non fosse passata a seconde nozze. Antonio dovette premorire al padre; infatti erede universale di tutti i beni (che in pratica consistevano nella sola baronia di Pietra d'Amico) è Giovanni Pietro. Il giuramento per l'investitura di Pietra d'Amico venne prestato, a nome del nipote minorenne, da Giacomo De Gregorio, all'epoca senatore di Messina. Giovanni Pietro in seguito stabilì la propria residenza a Palermo e nel 1544 ottenne il privilegium nobilitatis, accompagnato dal titolo di don.
Non si sa in quale periodo il D. abbia composto le sue non numerose opere, tutte pubblicate postume.
L'unica della quale si conosce l'epoca di composizione è il trattato De concessione feudi, completata nel febbraio 1521: vi è menzionata l'elezione a imperatore di Carlo V, appena avvenuta ("Rex noster Carolus... aliis superioribus diebus fuit Romanorum imperator electus et coronatus"). Come si è accennato, sembra che i brevi trattati De vita militia, De dote de paragio e De iudiciis causarum feudalium siano opere giovanili.
Tutti i lavori furono pubblicati tra la fine del XVI e i primi del XVII secolo, alcuni a cura del pronipote, anch'egli noto giurista e trattatista, Garsia Mastrillo. Anzitutto i trattati giovanili, stampati nel 1596 appunto con le note del Mastrillo; è in quello sui giudizi feudali che viene sostenuta la tesi, oggetto degli attacchi portati al D. nell'epoca dell'Illuminismo, che le cause dei baroni siciliani non si dovessero portare fuori dal Regno se non con il consenso delle parti.
Ancora il Mastrillo pubblicò cum additionibus, nel 1598, il De concessione feudi tractatus dedicandolo a Baldassare Gomez, consultore del viceré, e premettendovi un breve indirizzo alla città di Messina, patria del giurista, nel quale ricorda di avere disseppellito dall'oblio ("a tenebris") questa e le altre opere citate. Anche nel trattato sul feudo si sostenevano teorie che avrebbero portato all'episodio del rogo ordinato dal viceré Caracciolo; e cioè che i vassalli dovessero obbedienza ai baroni prima che al sovrano, e che ai baroni fosse consentito di ridurre all'obbedienza, anche con la forza, i vassalli che volessero passare al Demanio. Ma soprattutto vi era sostenuta una tesi circa l'origine del feudalesimo in Sicilia, che sarebbe stata ripresa dai giuristi dei secoli successivi, anche non favorevoli al baronaggio, e che faceva risalire il sistema dei feudi nell'isola in epoca anteriore alla conquista normanna, addirittura all'età bizantina.
Nel 1609 uscirono, sempre a cura del Mastrillo, i Commentaria ad bullam apostolicam Nicolai V et regiam pragmaticam Alphonsi regis de censibus, nei quali l'autore trattava della legittimità dei contratti di censo e di mutuo con interesse. In questi anni uscirono anche le prime edizioni del Tractatus de usuris et censibus (1597), del De appellationibus (1599) e delle Allegationes (1600), opera questa ricordata solo da alcuni dei biografi. Viene ancora ricordata una Genealogia della famiglia Carbone, della quale non si hanno altre notizie; quanto all'orazione tenuta nel 1516 davanti a Carlo V, il testo si conservava manoscritto nell'archivio del comune di Messina, nell'incendio del quale andò distrutto. Esso comunque è riportato dal Gallo nei suoi Annali.
All'epoca dei viceré Caracciolo e Caramanico, diffondendosi e professandosi anche in Sicilia dottrine illuministiche, non potevano non essere notate le teorie apertamente antiregaliste contenute nelle opere del De Gregorio. Come riferisce il Villabianca nel suo Diario, il23 apr. 1783 fu affisso in Palermo un bando del viceré Domenico Caracciolo che vietava a chiunque di tenere nella propria biblioteca le opere del giurista concernenti materia feudale (De iudiciis causarum feudalium e De concessione feudi), prescrivendo, sotto pena di 500 scudi di ammenda e di 5 anni di carcere, di consegnarle entro quattro giorni al presidente della Gran Corte Stefano Airoldi. Contemporaneamente si disponeva che "per perpetua detestazione e abominazione" due esemplari di ciascuna venissero pubblicamente bruciati.
Ciò fu eseguito il successivo 8 maggio nella piazza palermitana dei Quattro Canti. Interessante la motivazione della condanna, proferita, d'altronde, su conforme parere della Giunta dei presidenti e consultori: le dette opere contenevano "ragioni e sentimenti quanto incoerenti ed erronei, altrettanto fallaci e sciocchi, anziché sediziosi ed ingiuriosi alla sovranità". Il bruciarne i due esemplari sarebbe servito a istruire il popolo "de' suoi indispensabili doveri verso il sovrano, e del rispetto e fedeltà dovuta dagli stessi baroni a Sua Maestà". Ma siccome la stessa Giunta aveva fatto notare che il D. era autore qualificato in materia feudale e molto consultato nella pratica giudiziaria, il viceré incaricò l'Airoldi di farlo ristampare "corretto e spurgato dalle dinotate false, stomachevoli e sediziose dottrine". Sembra però che questa revisione non sia mai avvenuta.
Naturalmente il D. non godette alcuna simpatia presso la storiografia illuministica. Carlo Pecchia ad esempio, dedicando al Caracciolo la sua Storia civile e politica del Regno di Napoli (Napoli 1783) condannava con sdegno le "massime sediziose" contenute nelle sue opere, ed esprimeva la sua soddisfazione per il rogo ordinato dal viceré. Bisogna dire che ancora nell'Ottocento, ma da angolazione opposta, viene espresso un altro giudizio negativo, questa volta da Isidoro La Lumia, autore delle note Storie siciliane. Troppo condizionato dalle istanze risorgimentali del suo tempo, il La Lumia, che intendeva rappresentare nel viceré Ugo Moncada la figura classica del tiranno, coinvolge nell'esecrazione i suoi consiglieri, e tra essi il D. che avrebbe "prostituito" gli studi e l'ingegno al servizio dei dominatori stranieri. E questo certamente in contrasto con una serena e obiettiva valutazione circa il posto che giustamente la critica oggi assegna al D. tra i giuristi siciliani del Cinquecento e il contributo da lui apportato agli studi, specie nel campo del diritto feudale.
Opere: Tractatus de vita militia; De dote de paragio; De iudiciis causarum feudalium, cum addictionibus... D. Garsiae Mastrilli, Panormi, apud Io. Ant. de Francisci, 1596; altra ediz. del Tractatus de vita militia con un trattato sulla stessa materia di Andrea Capani, Neapoli, typis Jacobi Gaffari, 1642; De concessione feudi tractatus, cum addictionibus D. Garsiae Mastrilli, Panormi, apud Io. Ant. de Francisci, 1598; altra edizione: Coloniae 1608 (una edizione del 1578, segnalata da qualche autore, secondo l'Evola invece non sarebbe mai esistita. Il Narbone dà notizia di un'edizione Maguntiae 1600). De appellationibus, Francofurti, apud Fischerum, 1599; Allegationes, Panormi, ex Fontana, 1600; Ad bullam apostolicam Nicolai V et regiam pragmaticam Alphonsi regis de censibus commentaria, cum addict. D. Garsiae Mastrilli, Panormi, ex typographia Antonii de Francisci, 1609 (altra edizione: Panormi, typis Francisci Ciotti, 1622); De usuris et censibus, Panormi 1622. Il Tractatus de usuris anche Parisii et Francofurti, apud Petrum Fischer, 1597, e, secondo il Narbone, con il trattato di Alfonso Villagut sulla stessa materia, Neapoli 1598; Genealogia familiae Carbone (di quest'opera non si ha notizia certa); Oratio habita per Petrum de Gregorio u. i. d. oratorem nobilissimae civitatis Messanae coram Cath. Maiestate D. n. Regis Caroli V in pleno consilio Brusselis 15 decembris 5º Indit. 1516 (si conservava manoscritta nell'Arch. della città di Messina).
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