DE MARTINO (Di Martino), Pietro
Fratello di Nicola Antonio, nacque a Faicchio (Benevento) il 31 maggio 1707 da Cesare e Agata Ferrari.
Compiuta la primissima istruzione nel seminario di Cerreto, seguì presto a Napoli i più anziani fratelli Angelo (che era nato nel 1699) e Nicola Antonio. Poco si sa della sua formazione, che avvenne comunque all'ombra dei fratelli: fu anch'egli allievo di Agostino Ariani e poi di Nicola De Martino.
I suoi studi si svolsero perciò in parallelo con quelli di un'altra allieva illustre di Nicola, Faustina Pignatelli, con la quale egli mantenne un intenso scambio intellettuale di cui una prima traccia si trova nella risoluzione di un problema inverso sulle "annualità" da lui letta all'Accademia delle scienze di Bologna l'11 dic. 1732. Il problema, propostogli da Eustachio Manfredi tramite Eustachio Zanotti ("cui in hoc Scientiarum Instituto communes sunt curae Astronomicae"), venne subito riproposto epistolarmente dal D. alla Pignatelli. La relazione espone così tanto la soluzione del D. quanto quella di Faustina (attraverso un riassunto delle numerose lettere scambiatesi), in modo da mettere in risalto la raggiunta padronanza di alcune tecniche matematiche da parte della giovane patrizia napoletana. E molto stretta fu la loro collaborazione ancora qualche anno più tardi, a proposito della polemica sulle forze vive che li appassionerà entrambi (la Pignatelli, come ricorderà il D., si mise anche in contatto - dopo aver pubblicato una piccola nota negli Acta eruditorum del 1734 - con J.-J. Dortaus de Mairan e G.-E. du Châtelet).
Con l'arrivo a Napoli di Celestino Galiani il partito newtoniano assunse decisamente forma e consistenza, prima con l'istituzione di ufl'Accademia delle scienze (1732) e subito dopo con la riforma dello Studio pubblico. In vista dell'istituzione di una cattedra di astronomia e nautica, il D. veniva inviato a Bologna per perfezionarsi, soprattutto nella pratica strumentale, con Eustachio Manfredi. Il D. giunse a Bologna alla fine d'aprile del 1732. Di questo periodo resta solo l'osservazione di un'eclisse lunare (con un telescopio di "8 piedi" fornito di micrometro) del 28 maggio 1733, la cui relazione è pubblicata nei Commentari di Bologna (II, 3, pp. 113 ss.). Con gli amici bolognesi il D. conservò ottimi rapporti e da loro (soprattutto da F. M. Zanotti), che seguirono costantemente lo sviluppo dei suoi studi, sarà sempre ricordato con rimpianto. Allo Zanotti (e suo tramite all'Accademia, di cui era socio) sottoporrà, per esempio, la dissertazione sulla controversia Descartes-Fermat e, in seguito, avrà con lui un nutrito scambio epistolare (ricordato da entrambi nelle rispettive opere sull'argomento) sulla controversia delle forze vive. Ritornato a Napoli e preso possesso della nuova cattedra nel frattempo istituita (1734), la sua attività si alternò tra insegnamento nello Studio pubblico (tra gli allievi Felice Sabatelli, che ne prenderà il posto) e ricerca, ma non si ha notizia di pratica astronomica concreta ad eccezione dell'osservazione di un'aurora boreale (1739) da lui comunicata agli amici bolognesi (Iacopo Bartolomeo Beccari ed Eustachio Zanotti) che sapeva interessati all'argomento. Nel 1735, istituita l'Accademia di marina, gli fu affidata la cattedra di matematica.
In funzione esclusivamente didattica pubblicò l'opera Degli elementi della geometria piana composti da Euclide Megarese e tradotti in italiano, ed illustrati..., Napoli 1736 (rapidamente esauritosi e ristampato fin all'800 inoltrato), che significativamente si apre col noto passaggio galileiano del Saggiatore relativo ai caratteri matematici in cui è scritto il libro dell'Universo.
Si noti come l'adesione al testo euclideo costringa il D. a dare numerose spiegazioni delle varie "sorti di principi" (definizioni, domande, assiomi). Così a proposito della def. IV ("La linea retta è quella, la quale si distende egualmente fra li suoi termini", definizione passabilmente oscura e filologicamente incerta), pur non seguendo la via di G. A. Borelli (e più tardi di Legendre) di assumere come definizione della retta la proprietà di minimo espressa dal noto postulato archimedeo (post. I di Sulla sfera e il cilindro), ilD. fa rilevare esplicitamente "che Archimede Siracusano, ha definito la linea diritta così: Èla più breve di tutte quelle che si distendono da un punto ad un'altro punto". Un'altra caratteristica didattica della Geometria è che ogni proposizione del quinto libro è prima dimostrata e poi esemplificata "co' numeri".
Successivamente pubblicò le Nuove istituzioni di aritmetica pratica, Napoli 1739 (l'edizione più diffusa è però la ristampa, a spese di Stefano Elia, del 1758; non si è, invece, trovata traccia di un'edizione del 1738 cui accenna l'Amodeo: tra l'altro l'imprimatur, revisore G. Pasquale Cirillo porta la data "28 mensis Aprilis 1739")Anche quest'opera si esaurì rapidamente e fu tanto favorevolmente accolta da meritare numerosissime ristampe, tra cui una, a Torino, nel 1762.
Tra queste due opere didattiche si colloca la migliore (è indiscutibilmente la principale opera di diffusione in Italia del pensiero di Newton) produzione a stampa del D.: le Philosophiae naturalis institutiones libri tres, Neapoli 1738.
Come chiaramente indica il titolo. l'opera è divisa in tre parti: il primo libro, esplicitamente improntato ai Principia newtoniani (di cui parafrasa interi capitoli, a cominciare dalle "Regulae philosophandi"), è dedicato alla dinamica e alla struttura della materia. Mutuando dal fratello Nicola lo stile di far precedere la trattazione dei vari argomentì da ampie introduzioni storiche, mediante le quali si confrontano le varie teorie scientifiche, l'intento del D. è fin troppo evidente: operare una netta demarcazione con la tradizione scientifica napoletana, attaccandone due aspettì significativi, il cartesianesimo ed il corpuscolarismo. Il largo spazio che il D. dà al problema della divisibilità infinita della materia (capitoli 6 e 7 della sezione I) mostra sia l'interesse della questione ai fini del dibattito locale, sia l'interesse dell'autore verso la teoria newtoniana delle flussioni che egli usa disinvoltamente, per esempio nei due capitoli (il terzo della sezione Il e il quarto della sezione III) dedicati rispettivamente alla polemica sulle forze vive ed alla controversia Descartes-Fermat sulla rifrazione della luce. Su questi capitoli egli richiama (cfr. "Monita quaedam" al lettore) l'attenzione ritenendoli, giustamente, come quelli in cui maggiore è stato il suo contributo originale. In netto contrasto con quell'indirizzo che si andava delineando in Europa (J. T. Desaguliers, P. vari Musschenbroek ecc.) e in Italia (soprattutto F. Algarotti) che vedeva la divulgazione della fisica newtoniana in senso prevalentemente descrittivo ed empirista, il D. sembra indicare un giusto equilibrio tra il newtonianesimo sperimentale dell'Ottica e quello più matematizzato dei Principia. Fedele alla sua premessa "d'associare l'esperienza alla ragione e questa con quella" (p. 2), egli non presenta soltanto un elenco di esperienze: nel corso del trattato, invece, la matematica e la fisica si intersecheranno continuamente. La via indicata dal D. si muoveva dunque in direzione opposta a quella che, negli stessi anni, cominciava a perseguire Giuseppe Orlandi che, al momento di ricevere l'incarico dell'insegnamento della fisica, scriveva al Galiani: "marcerò sempre per quanto mi sarà possibile con esperienze", preparando così il terreno all'effizione napoletana (1745) degli Elementa physicae di Musschenbroek, in cui la via sperimentale sostituiva quasi del tutto le dimostrazioni matematiche. Il secondo libro, De mundo coelesti, èdedicato al sistema del mondo: esso rappresenta, come ha notato Casinì (p.214), "un eccellente compendio di astronomia newtoniana". Dopo un inizio prudente e tutto sommato ortodosso (p. 9), accettare il sistema copernicano come l'ipotesi più comoda ed utile per capire e spiegare i fenomeni celesti, il D. fa emergere chiaramente la sua vera posizione liberandosi in fretta dell'ipotesi della terra immobile col definirla (p. 40) "falsa et absurda". Egli espone poi le diverse parti (teoria delle comete, aberrazione etc.) con notevole attenzione alle novità più recenti in modo da offfire al lettore un panorama di informazioni davvero notevole. Solo per fare un esempio, si veda con quale coraggio il D. osi proporre ai suoi lettori, a proposito della questione della forma della Terra (oggetto, allora, di vivaci dibattiti tra cassiniani e newtonianì), un metodo del suo maestro non ancora verificato: "Ultimamente il chiarissimo Astronomo Eustachio Manfredi grande splendore ed ornamento dell'Italia ha trovato un nuovo sistema mediante il quale si può, definire la vera forma della Terra. Questo metodo consiste nell'uso delle parallassi lunari osservate da diversi luoghi della terra...". Il terzo libro, infine, De mundo terrestri, è interamente dedicato alla fisica terrestre (ancora sulla forma e dimensione della terra, fossili, "meteore" varie, ecc.).
A parte le inedite Institutiones logicae (cui però, tra i biografi, accenna solo il Porto, p. 22) che, se realmente furono scritte, vanno considerate irrimediabilmente perdute, gli anni 1740-41 vedono il D. impegnato nella pubblicazione delle due ultime opere: De luminis refractione et motu, Neapoli 1740 e De corporum quae moventur viribus, ibid. 1741. Gli argomenti delle due operette, rispettivamente la controversia Descartes-Fermat sulla rifrazione della luce e quella delle forze vive, mostrano il D. fortemente impegnato a cimentarsi con le grandi controversie di respiro europeo.
La prima diesse, una brevissima "lucubratio" di sole diciassette pagine, è quasi tutta dedicata alla presentazione storica della questione: la puntuale esposizione delle posizioni dei due principalì protagonisti viene accompagnata da un breve riassunto della preistoria del problema (da Aristotele a Snell) per riferire poi la posizione dei più recenti, da Leibniz a Huygens, da Varignon a Wolff. P. de Fermat, ammettendo contrariamente a Descartes che la velocità della luce è più grande nell'aria che nell'acqua, era riuscito a dimostrare che la traiettoria dei raggio rifratto era anche quella che rendeva minimo il tempo di percorso. Il suo principio di "econornia naturale" conduceva dunque alle leggì corrette della rifrazione solo se si assume che la velocità della luce sia minore nei mezzi più densi, ciò che era manifestamente contrario ai principi cartesiani ed alle ipotesi newtoniane. A parte qualche svarione, si capisce che il vero obiettivo del D. è il "principio di minimo" così come espresso da Fermat, verso cui è fortemente critico. Egli, percorrendo un itinerario culturale molto vicino a quello che di li a poco seguirà P. L. Moreati de Maupertuis con molto maggiore fortuna, afferma che quello che è minimo, nella rifrazione, è la somma dei prodotti della lunghezza dei cammini percorsi per le rispettive velocità.
Analoga è la struttura della seconda opera, sulle forze vive, anch'essa fondamentalmente storica: oltre alle posizioni di Descartes e Leibniz, il D. espone con molti dettagli la teoria di Giovanni Bernoulli, quella di Jacopo Hermann ed il classico esperimento di Giovanni Poleni. Dopo aver ampiamente descritto due suoi esperimenti (pp. 77-84), che derivano da quello di Poleni (esperimento "tanto ammirato che quasi gli faceva cambiare parere"), egli dà di tutti gli esperimenti un'interpretazione strettamente matematica, concludendo con lo schierarsi a fianco dei newtoniani e dei cartesiani: "mi piacque seguire il parere secondo cui la forza dei corpi è proporzionale alla stessa velocità". Il D. riporta infine (cap. XIX) la posizione di un "doctissimus, idemque amicissimus Vir" (che G. Orlandi, nella nota di p. 175dei primo tomo della seconda edizione napoletana - 1751 - della Fisica di Musschenbroek, rivela essere il fratello Nicola) tendente a ridurre la controversia ad una mera confusione nominalistica tra quantità di moto ed energia.
Un legame che accomuna le due operette in esame è l'ostinata insistenza del D. a voler dimostrare (anche con l'uso della logica proposizionale) che "da un'ipotesi falsa non puo mai ricavarsi un'affermazione vera" . Questo tipo di posizione, che era servito nell'opera sulla rifrazione a spiegare come Fermat fosse pervenuto alla giustificazione corretta della legge di Snell, portò il D. al centro di una vivace polemica con R. G. Boscovich. Egli infatti, attaccando direttamente la tradizione matematica gesuitica sull'argomento (Clavio e Tacquet), aveva sostenuto che Fermat commise due errori che si elidono a vicenda: quello del "minimo di tempo" e quello della velocità della luce nei vari mezzi. Boscovich risponderà non solo rinnovando note critiche alla teoria degli indivisibili della tradizione galileiana, ma ricordando al D. come suo fratello Nicola fosse pervenuto, nella Statica, ad un risultato corretto a partire da un'ipotesi falsa.
Dopo il 1741 non si hanno più notizie sul D., che morì di tubercolosi a Napoli all'inizio del 1746, come ricorda Antonio Genovesi nella sua autobiografia inedita (in Zambelli, p. 849).
Fonti e Bibl.: Faicchio, Chiesa di Maria Santissima Assunta, Liber baptizatorum, vol. 1696-1733; R. G. Boscovich, De natura, & usu infinitorum, & infinite parvorum, Romae 1741, pp. 4 s.;Id., De viribus vivis dissertatio, Romae 1745, pp. VI-IX;G. G. Origlia, Istoria d. Studio di Napoli, II, Napoli 1754, pp. 284, 295;M. Barbieri, Notizie istor. dei mattematici e filosofi del Regno di Napoli, Napoli 1778, pp. 198 s.; V. Ariani, Memorie della vita e degli scritti di A. Ariani, Napoli 1778, p. 106;P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie, VI, Napoli 1811, pp. 187 s.; G. Porto, Cenni biografici di alcuni uomini ill. di Faicchio, Piedimonte d'Alife 1875, pp. 19-23;F. Amodeo, Vita matematica napoletana, I, Napoli 1905, pp. 83-88; P.Zambelli, La formaz. filosofica di A. Genovesi, Napoli 1972, pp. 813 ss., 849e passim;P. Nastasi, I primi studi sull'elettricità a Napoli e in Sicilia, in Physis, XXIV (1982), 2, pp. 241, 252;V. Ferrone, Scienza natura religione, Napoli 1982, pp. 409-502e passim;A. Brigaglia-P. Nastasi, Bologna e il Regno delle due Sicilie: aspetti di un dialogoscientifico (1730-1760), in R. Cremonta-W. Tego, Scienze e letteratura nella cultura italiana del Settecento, Bologna 1984, pp. 211-32; P. Casini, Newton e la coscienza europea, Bologna 1983, pp. 212- 15;A. Brigaglia, La concezione del "vero" matematico e del "vero" fisico in 'sGravesande e in R. Boscovich e la sua influenza nell'Italia meridionale, in Atti del III Congresso nazionale di storia della fisica, Palermo 1983, pp. 422-53.