PIETRO dell'Aquila
PIETRO dell’Aquila. – Nacque, probabilmente tra il 1273 e il 1279, a Tornimparte (L’Aquila).
Dopo il periodo di noviziato, con tutta probabilità trascorso presso la casa madre dei frati minori dell’Aquila durante l’ultima decade del Duecento, nei primi anni del secolo successivo (1302 o 1303) Pietro si recò a Parigi, ove conseguì il baccalaureato e, successivamente, il dottorato.
Secondo Tommaso da Rossy (Tractatus de Immacolata Conceptione, 1373), Pietro lesse a Parigi le Sentenze di Pietro Lombardo immediatamente dopo lo Scoto (dunque dopo gli anni 1306-07). Il periodo parigino si pone indubbiamente come un momento fondamentale della sua esperienza minoritica. Durante il quale egli si avvicinò alla filosofia tomistica e con tutta probabilità seguì le lezioni dello Scoto stesso, di cui divenne estimatore e imitatore, nonché successore: «Petrus de Aquila […] qui legit hic sententias statim post Scotum» (Tractatus, p. 97). Da questo si deduce che Pietro succedette allo Scoto intorno al 1307-08 quando potrebbe aver raggiunto i 28-35 anni. Sulle Sentenze di Pietro Lombardo e sull’Etica aristotelica egli scrisse in seguito tre opere, il Commentarium super quatuor libros Sententiarum, il Compendium in libros Sententiarum e la Expositio super libris ethicorum Aristotelis.
Le opere filosofiche di Pietro (inedite le ultime due, la prima edita nel 1480 da Peter Drach a Spira, Speier, poi più volte successivamente), gli hanno meritato una collocazione nei repertori eruditi sette-ottocenteschi, ma non hanno avuto diffusione o circolazione, forse a causa della qualità del trattato, o forse per la scarsa originalità del testo. Ancora Tommaso di Rossy ci conferma che, oltre a prendere il posto dello Scoto a Parigi, Pietro «quasi in tutto lo aveva imitato». Che comunque si trattasse di opere apprezzate quanto meno sul piano formale viene testimoniato dal soprannome con cui spesso si identifica lo stesso Pietro (Chiappini, 1961), o il suo trattato su Pietro Lombardo (Tiraboschi, 1823; Sbaraglia (Sbaralea, 1806) ‘Scotellus’, il ‘piccolo Scoto’. A questi lo aveva accostato il suo coetaneo Bartolomeo da Pisa nell’opera De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Iesu (1385-90), affermando che lo scritto dell’Aquilano, opera «satis pulchra et sententiosa», era un riassunto del lavoro di Scoto. In seguito Costanzo Sarnano, nella prefazione all’edizione del 1584 del Commentarium, affermava invece come tale correlazione tra Pietro e lo Scoto fu suggerita non tanto dalla vicinanza delle teorie dei due scolastici, ma dal fatto che «nell’acutezza d’ingegno, ei s’accostasse dappresso a quel teologo, a cui gli scolastici, ritrovatori sempre fecondi di nuovi nomi, han dato quel di Sottile» (Tiraboschi, 1823, p. 123).
Non sembra che Pietro si sia recato nuovamente a Parigi dopo il periodo degli studi. Parecchi anni più tardi, la sua presenza è attestata nuovamente in Italia, ai capitoli generali dell’Ordine, a Chieti (1329) e Todi (1330), ove fu anche lettore (come in precedenza a L’Aquila). Le tappe della sua carriera negli anni successivi sono ben documentate: fu provinciale dei minori di Tuscia dal 1333 o 1334 (quando il 25 maggio, insieme ad altri quattro dottori minoriti, era presente al capitolo generale di Assisi, dove approvò il commento alle Sentenze del Lombardo di Giovanni da Rubio) al 1337 (quando l’8 giugno, comparve in tale veste al capitolo generale di Cahors).
La carica di provinciale fu il riconoscimento di un indubbio prestigio intellettuale, e di buoni appoggi ‘politici’ all’interno dell’Ordine e al di fuori di esso, a ridosso del momento più tormentato per la comunità minoritica toscana, quello della scissione degli spirituali. In questa posizione impegnativa e delicata, egli agì a vario titolo: sia come ‘doctor’ dell’Ordine, impiegato nel vaglio e nell’approvazione dei nuovi testi filosofici e teologici, che nell’amministrazione dei conventi della zona. Merita di essere ricordato un episodio collocabile nel biennio 1332-34, quando Pietro dovette gestire le rimostranze dei confratelli pratesi per le malversazioni dell’allora inquisitore Mino Daddi di San Quirico, di cui si richiedeva la rimozione dall’incarico (provvedimento che Pietro non adottò, lasciando frate Mino a ricoprire il ruolo di inquisitore e a continuare la propria cattiva gestione delle accuse, audizioni e sentenze, condotte tra episodi di corruzione, latrocinio e palese contravvenzione dei voti minoritici).
Il 22 gennaio 1344 Pietro fu nominato cappellano e commensale della regina Giovanna I di Napoli, in virtù dei suoi «doni di profonda scienza, degli atti lodevoli dettati dai suoi discreti costumi, e per altri meriti delle sue virtù». Era una carica di primo piano; ma alla corte angioina tuttavia non dovette trascorrere gran tempo, se lo troviamo impegnato soltanto due mesi dopo (23 marzo) presso il convento francescano di Santa Croce, a Firenze, come titolare dell’ufficio inquisitoriale. Anche la sua permanenza nella città toscana fu breve e piena di contrasti: tra il maggio e il giugno 1346 fu infatti processato per insolvenza da Pierre Vidal, legato di Clemente V (1345-46), e la Collectoria dell’Archivio segreto Vaticano (reg. 421-A) documenta questo momento chiave della sua carriera. Il processo fu celebrato in contumacia; all’arrivo dei messi del legato che si recarono da lui in data 25 e 29 aprile 1346, Pietro era già fuggito a Siena, e Pierre Vidal lo scomunicò dandone notizia pubblica nelle due città.
Il processo, svoltosi nel maggio-giugno 1346, dopo un’indagine iniziata nel 1343 e affidata a Nicola abate di S. Maria di Firenze, si sostanziò di 82 testimonianze (5 di religiosi, 77 di laici) sull’operato di Pietro come inquisitore. Egli fu accusato di appropriazione indebita, corruzione, falsificazione degli atti e plagio; venne vagliata in un primo momento la sua fama publica e in un secondo tempo si procedette a interrogazioni circostanziate dei personaggi direttamente coinvolti negli episodi sotto indagine. Si trattò senza dubbio di un’azione legale non sorprendente: essa si inseriva nella più ampia operazione disciplinare della prima metà del Trecento, finalizzata all’accertamento di colpevolezza di una serie di inquisitori toscani sospettati di non avere corrisposto alla Camera apostolica il terzo degli introiti derivati dalle requisizioni dei beni ereticali, e sconvolgeva dalle fondamenta una consuetudine ormai radicata di gestione dell’ufficio che verteva più sulle confische dei beni che sull’accertamento di eventuali responsabilità eterodosse dei sospetti eretici. In effetti già prima dell’avvento di Pietro alla carica di inquisitore erano consolidatissimi l’uso e abuso del personale di supporto (i familiares) nello svolgimento delle indagini e nell’implementare le sentenze del tribunale, l’applicazione distorta delle fasi della procedura, l’uso di accuse generiche, e la fittissima rete e l’intreccio di finanziamenti, prestiti, e altre pratiche finanziarie che accompagnavano la corresponsione della pena pecuniaria da parte del condannato. Il tribunale inquisitoriale trecentesco era ormai ben lontano dalle faccende della fede; da macchina legale per l’accertamento dell’ortodossia era divenuto un meccanismo il cui fine principale era l’autosostentamento, a servizio di istanze personali, sia del clero sia dei laici. A margine delle responsabilità di Pietro, la storiografia recente ha visto nel processo la conferma del tramonto dell’eresia catara in Firenze, dal momento che, se eretici ci fossero stati, egli non «si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di metter le mani su di essi, non per estorcere modeste multe, ma per mandarli al rogo e confiscarne i beni» (d’Alatri, 1987, p. 66). Dietro l’allontanamento di Pietro da L’Aquila da Firenze, perciò, si stagliavano anni di mala gestione del tribunale inquisitoriale.
Del resto già nei mesi immediatamente precedenti le cronache fiorentine (Villani, Marchionne di Coppo Stefani) forniscono un quadro delle tensioni presenti tra l’inquisitore aquilano e il Comune di Firenze, ricordando un episodio avvenuto il 10 marzo (secondo D’Alatri) e già interpretato da Robert Davidsohn come spia della brama di ricchezze di Pietro. Egli fu coinvolto nella spartizione e vendita dei beni della fallita Società degli Acciaiuoli, debitrice per una cifra consistente nei confronti del cardinale Pietro Gomez. Nominato procuratore da costui, in virtù della sua autorità inquisitoriale Pietro fece arrestare dai messi del Comune e dai famigli del podestà Silvestro Baroncelli, già socio degli Acciaiuoli, appena recatosi nel palazzo dei Priori. L’arresto diede origine a una vera e propria rissa, che culminò nella liberazione di Baroncelli. Nel frattempo Pietro era fuggito a Siena e di lì aveva scagliato l’interdetto contro la città e i suoi governanti.
L’immagine di Pietro persecutore dei ricchi e attratto dai loro beni, più che tutore della corretta interpretazione delle Scritture, combaciava – oltre che con quella dei cronisti – con quella tratteggiata da Giovanni Boccaccio nelle novelle I, 6 e I, 7 del Decameron. Al contrario, la storiografia dei secoli successivi (Lucas Wadding, Girolamo Tiraboschi) è incline a considerare le accuse come mere illazioni dei detrattori che intendevano inficiare la reputazione di Pietro, e il processo ecclesiastico come conseguenza e ritorsione del precedente episodio del marzo 1346 in occasione del quale l’inquisitore aveva turbato equilibri politici e finanziari locali. Ma la lettura del processo delle Collectorie come una mera ‘ritorsione’ non appare giustificata. Troppo circostanziate le accuse (puntuali, documentate e troppo simili a quelle scagliate contro altri inquisitori insolventi) per essere una fabbricazione dal nulla.
I brevi, ma intensi anni fiorentini, oltre a gravare sulla fama postuma del minore, si pongono dunque come gli anni chiave di una carriera in continua ascesa a partire dagli anni parigini, e che finirà però nella semi-oscurità di alcuni episcopati tutto sommato marginali. Clemente VI infatti nominò Pietro vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) con lettera del 12 febbraio 1347, e successivamente di Trivento (Campobasso) con lettera del 30 maggio 1348.
Secondo d’Alatri, Pietro sarebbe morto ad Agnone (Isernia) nell’aprile 1361. Di diverso parere Sbaraglia, che colloca un più generico terminus post quem al 1367, data del rientro a Roma del papato, sulla base di una frase contenuta nel Commentarium: «papa est Rome cum Deo» (Sbaralea, 1806, p. 584), argomentazione tuttavia piuttosto debole.
La rappresentazione della personalità di Pietro, che fu certamente uomo di notevole cultura e preparazione filosofico-teologica e di innegabile rilievo nelle politiche interne ed esterne all’ordine minoritico, risente tuttavia di una forte divaricazione di giudizio, sin dalle testimonianze del suo tempo. La sua figura di studioso – sempre e comunque rappresentato nella luce dell’encomio (Wadding, Tiraboschi, Oliger, Mazzucchelli, Cappelletti) è infatti contrapposta a quella di inquisitore, tratteggiato senza eccezioni in maniera negativa (Villani, Marchionne di Coppo, ma anche nel XX secolo secondo d’Alatri e Biscaro).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio segreto Vaticano, Camera apostolica, Collectorie, n. 421-A (Processus contra Petrum de Aquila inquisitorem heretice pravitatis in partibus Florentinis et contra alios inquisitores Tuscie), cc. 1-46 (altro esemplare in Archivio di Stato di Firenze, Capitoli, XXXVIII, cc. 1-41), n. 246 (Computus brevis Petri de Aquila inquisitoris Florentini), cc. 119-121; Cambridge, MS Corpus Christi 510 (Pietro da l’Aquila, Compendium in libros sententiarum); Perugia, Biblioteca Augusta, MS 654 (Pietro da l’Aquila, Expositio in libri[s] Ethicorum Aristotelis). Pietro da l’Aquila, Commentarium super quatuor libros Sententiarum, Speier, apud Petrum Drach, 1480 (poi Venezia, apud Symonem de Luere, 1501; Venezia, apud Hyeronimum Zenarii, 1585); Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, RIS2, XXX, 1, Città di Castello-Bologna 1903-1955, pp. 225 s.; Bartolomeo da Pisa (†1401), De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Iesu, Ad Claras Aquas 1906; Tommaso da Rossy, Tractatus de Immacolata Conceptione (1373), a cura di C. Piana, Ad Claras Aquas 1954, pp. 1-99; Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, XII, p. 58; Giovanni Boccaccio, Decameron, I, 6; I, 7, a cura di V. Branca, Torino 1992.
G. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, II, Brescia, 1763, pp. 902 s.; N. Papini, L’Etruria Francescana, Siena 1797, p. 11; I.H. Sbaralea, Supplementum et castigatio ad scriptores trium Ordinum Sancti Francisci a Waddingo aliisve descriptis, Roma 1806, pp. 583 s.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Venezia 1823, V, 1, pp. 123 s.; A. Dragonetti, Vite d’illustri aquilani, L’Aquila 1847, pp. 60-66; G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, XX, Venezia 1866, p. 551; R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, I-V, Berlin 1896-1927 (trad. it. Storia di Firenze, Firenze 1977, V, p. 634, VII, pp. 177-179); Bullarium Franciscanum, a cura di C. Eubel, VI, Roma 1902, p. 192, n. 402 (12 febbr. 1347), p. 214, n. 416 (30 maggio 1348), p. 201, n. 426 (4 ott. 1347); I.H. Sbaralea, Scriptores ordinis Minorum, Roma 1906, p. 184; L. Oliger, Peter of Aquila, in Catholic Encyclopaedia, XI, New York 1911; L. Meier, De schola franciscana Erfordensi sec. XV, in Antonianum, V (1930), pp. 137 ss., 194; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze, in Studi medievali, n. s., XI (1933), pp. 187 s., 195 s., 199; F.S. Schmitt, Des Petrus von Aquila Compendium supra librum sententiarum aufgefunden, in Recherches de théologie ancienne et médiévale, XVII (1950) pp. 267-282; A. Chiappini, Fra P. dell’A. ‘Scotello’, O. Min. celebre scolastico del Trecento († 1361), in Miscellanea Franciscana, LXI (1961), pp. 283-310; Mariano d’Alatri, L’inquisizione a Firenze negli anni 1344-46 da un’istruttoria contro Pietro da l’Aquila, in Eretici e inquisitori in Italia, Roma 1987, pp. 41-68; S. Meyer-Oeser, Petrus de Aquila, OFM, in Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexikon, a cura di F.W. Bautz - T. Bautz, VII, 1994, pp. 333 s.