Pietro della Vigna (o Vigne; Petrus De Vinea o De Vineis)
Nato certamente a Capua, intorno al 1190, di famiglia disagiata (il padre fu giudice, ma non è certo che lo fosse anche prima che il figlio ascendesse alle sue alte cariche), compì i suoi studi universitari a Bologna, dove trascorse alcuni anni, se non proprio mendicando (come afferma Guido Bonatti), certo in gravi strettezze economiche, anche se parzialmente alleviate, a quanto pare, da sussidi fornitigli dall'università stessa o dalla città di Bologna. Era trentenne quando, intorno al 1220, Berardo, arcivescovo di Palermo, lo raccomandò all'imperatore Federico II, che lo accolse nella sua corte come notaio e scrittore della cancelleria imperiale. Qui P. ebbe modo di distinguersi presto, se già nel 1225 era giudice della Magna Curia, carica che mantenne fino al 1247; ma le funzioni da lui effettivamente esercitate appaiono, fin dall'inizio, assai più estese e importanti di quelle giuridicamente connesse alla carica stessa.
Par certo che abbia collaborato attivamente anche alla formulazione delle leggi contenute nel cosiddetto Liber augustalis (1231). Di maggior peso risulta, in ogni modo, la sua attività di carattere politico e amministrativo. Almeno fin dal 1239 i documenti mostrano come P. tenesse praticamente, se non ufficialmente, e sia pure in collaborazione con Taddeo di Sessa, la direzione della cancelleria imperiale: un incarico che comportava non soltanto l'esame e il controllo della corrispondenza e degli atti di governo, ma anche l'autorizzazione a decidere direttamente sulle questioni che non richiedessero in modo specifico l'intervento personale dell'imperatore. Non meno ampia e intensa la sua azione come diplomatico di fiducia di Federico II in numerose e delicate occasioni, concernenti, in particolare, gl'inquieti rapporti con il Papato e con le città dell'Italia settentrionale. Dopo aver partecipato al convegno per la pace di San Germano (1230), fu inviato da Federico II come ambasciatore a Gregorio IX, durante le lotte con la lega lombarda, prima nel 1232-1233 e poi nel 1237, e più tardi, nel 1243, come plenipotenziario presso Innocenzo IV; nel 1245 assisté alle conferenze di Foggia con i patriarchi di Antiochia e di Aquileia; e infine, nel 1245, si recò in Francia presso Luigi IX per invocarne la mediazione in favore del principe svevo. Né va dimenticato che nel 1234 era stato mandato in Inghilterra per concludere il matrimonio dell'imperatore con Isabella, sorella di Enrico III.
Il culmine di questa eccezionale carriera fu raggiunto da P. nel 1247, quando, morto Taddeo di Sessa, venne nominato " imperialis aulae protonotarius et regni Siciliae logotheta ": titoli che non tanto attribuivano nuove funzioni al potente ministro, quanto piuttosto consacravano ufficialmente quelle, che egli da tempo concretamente esercitava, di primo segretario e portavoce ufficiale dell'imperatore. Appena due anni dopo, tuttavia, nel febbraio 1249, durante un soggiorno della corte a Cremona, egli fu privato di tutte le sue cariche, arrestato e infine accecato. A più severe condanne e pene egli stesso si sottrasse uccidendosi nell'aprile del medesimo anno.
Sul modo e sul luogo del suicidio le testimonianze antiche sono tutt'altro che concordi. La tradizione più diffusa, che P. si uccidesse, mentre era imprigionato nella rocca di San Miniato, battendo il capo contro il muro della cella, è contraddetta da altre tradizioni che invece indicano come luogo del suicidio Pisa, e più particolarmente la chiesa di San Paolo a ripa d'Arno, contro la quale egli si sarebbe gettato sfracellandosi la testa, o quella di Sant'Andrea in Barattularia, dove, secondo alcuni, sarebbe morto al solito modo, rompendosi il capo contro il muro, mentre, secondo altri, vi sarebbe stato portato già morente per essersi buttato giù dal muletto che lo trasportava. E si può ricordare anche la voce, riferita (e rifiutata) da Benvenuto, che egli si fosse precipitato da una finestra del proprio palazzo di Capua sulla strada dove in quel momento stava passando l'imperatore col suo seguito.
Più grave, e tuttora non bene chiarita, la questione delle cause che provocarono l'improvvisa disgrazia del ministro. Non solo, infatti, mancano in proposito documenti diretti veramente espliciti, ma anche le versioni riferite dai cronisti contemporanei o immediatamente successivi appaiono estremamente varie e spesso contraddittorie, soprattutto per quanto riguarda le accuse, a torto o a ragione, mosse a P.: " unus dicebat ", riferisce per esempio Benvenuto, " quod ipse erat factus ditior principe; alius quod ascribebat sibi quicquid imperator fecerat prudentia sua; alius dicebat, quod ipse revelabat secreta romano pontifici "; ma si parla anche della sua complicità in un tentativo di avvelenamento realmente effettuato da un medico ai danni dell'imperatore; e persino di rivalità amoroso con lo stesso Federico II. L'innocenza di P., vittima incolpevole del rancore personale di Federico II o di una congiura di palazzo organizzata dai nobili della curia imperiale, invidiosi della potenza di un uomo di umili origini come il capuano, è sostenuta già da alcuni cronisti anteriori a D., come Salimbene e Ricordano Malispini; e questa tesi, vigorosamente ribadita nel XIII dell'Inferno e quindi da tutti i commentatori antichi della Commedia, è accolta, anche se con diverse sfumature, dalla maggior parte degli studiosi moderni come lo Huillard-Bréholles, il D'Ovidio e il Davidsohn: e, più recentemente, il De Stefano, il Casertano, lo Schneider.
Non sono mancati, tuttavia, altri storici, soprattutto tedeschi, che, attraverso nuove analisi delle fonti più antiche, e in particolare di due lettere indirizzate dall'imperatore al luogotenente del regno di Sicilia, hanno ritenuto di dover accogliere la tesi della colpevolezza di P.: affermando che, se non un vero e proprio reato di alto tradimento, egli avrebbe però compiuto estese frodi finanziarie, tali da mettere in pericolo l'esistenza stessa dello stato (Hampe, Kantorowicz); ovvero avrebbe abusato del proprio potere, accusando e facendo condannare, con prove false o insufficienti, persone delle cui sostanze intendeva appropriarsi, con grave pregiudizio di quell'ideale di giustizia che l'imperatore poneva a fondamento del proprio governo (Baethgen).
L'indiscutibile rilievo della figura politica di P. non deve far dimenticare l'altro fondamentale aspetto della sua personalità, quello letterario, documentato soprattutto dal suo epistolario, capolavoro dell'artificiosa prosa latina caratteristica dell'ambiente federiciano. Spetta ad alcuni studiosi moderni, come il Kantorowicz, il De Stefano, il Di Capua e soprattutto il Paratore, il merito di aver individuato le varie componenti che vengono a intrecciarsi nello stile di questo epistolario: dove, accanto all'influenza dei modelli della curia pontificia, che P. poteva conoscere non solo direttamente, ma anche attraverso gl'insegnamenti della fiorente scuola retorica esistente proprio a Capua, si possono riconoscere suggestioni della nuova ars dictandi francese, assimilate sia attraverso la scuola bolognese, sia, più probabilmente, per il tramite della prosa cistercense, e, più particolarmente, di s. Bernardo; echi più marginali, ma non trascurabili, della poesia erotica elegiaca del secolo XII e anche di classici come Ovidio e Giovenale; e infine confluenze con la tecnica fiorita e lambiccata della sezione arabica esistente nella cancelleria di Federico II. E si potrà aggiungere che questa complessa opera di contaminazione non dev'essere valutata soltanto sul piano tecnico e più generalmente culturale, ma anche, almeno in alcuni suoi risultati, come strumento di un'arte, proprio nella sua inquieta e complessa artificiosità insieme psicologica e stilistica, a suo modo personale e suggestiva. Minore importanza rivestono invece le poesie latine di P., e le tre canzoni in volgare che gli sono attribuite senza contrasti e che (a parte una certa indipendenza lessicale) non si distinguono per particolari caratteri dalla produzione corrente della ‛ scuola siciliana '.
Per quanto in nessun'altra sua opera ricordi P. come uomo politico o come letterato, D., pur senza farne esplicitamente il nome, gli dedica, collocandolo nel girone dei suicidi (If XIII 31-108), uno degli episodi più ampi e più insigni del suo poema. Per l'interpretazione di questo episodio alcune indicazioni notevoli si possono trarre già dai commentatori più antichi. Il loro interesse per il personaggio dantesco è dimostrato anche dalle copiose notizie che essi forniscono sulla sua figura storica, variamente discutendo sul modo e sul luogo della sua morte e sui motivi della sua disgrazia, e riaffermandone concordemente (come si è detto) l'innocenza dalle colpe attribuitegli. Ma suggerimenti più precisi (anche se rimangono senza svolgimento) si rintracciano in quei commentatori quando essi cercano di spiegare le ragioni della pietà manifestata dal poeta verso il dannato (v. 84): sia che le ripongano in una simpatia personale di D. verso un uomo che egli sentiva simile a sé stesso per cultura, per virtù e per la sorte sventurata; come l'Ottimo (" per cagione della scienza che fu in Piero delle Vigne, e che concordò con lui in più condizioni, l'autore li portò pietade ") o il Boccaccio (" è possibile l'autore questa pietà tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello 'nfortunio dello spirito, ma per sé medesimo, il qual conosceva similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie, delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state ne gli eran predette come di sopra apare "); o si richiamino a motivi dell'etica classica, come Benvenuto (" autor bene fingit se compati isti, quia multi viri illustres armis, scientiis et virtutibus devenerunt ad hoc, quod se sponte interfecerunt, quorum multi sunt laudati a multis autoribus "), il quale è anche il primo a scorgere, nel discorso in cui P. narra la sua storia, l'eco della sua qualità di dictator (" primo captat benivolentiam... Hic nota quod autor pulchre fingit istum Petrum petere veniam, quia de rei veritate fuit prolixus in suo dictamine "); sia che invece propongano un'interpretazione allegorica, come il Buti (" la sensualità di D. era mossa a compassione dalla pena di Pier delle Vigne, e perciò dice a Virgilio, cioè alla ragione che sta contenta alla giustizia di Dio, che domandi di quel che creda che soddisfaccia alla sensualità "). Qualche altra pagina degna di nota si può trovare anche negl'interpreti successivi, nel Cesari, ad esempio, che per primo imposta il confronto tra l'episodio dantesco e quello virgiliano di Polidoro, sottolineando, sia pure su un piano retorico e linguistico, la maggiore " efficacia " e " naturalezza " del primo.
Solo nel saggio desanctisiano del 1855, tuttavia, si ha la prima analisi veramente organica: analisi esplicitamente fondata su criteri romantici (il gusto del ' fantastico ' e del ' patetico '; l'attenzione concentrata sul ' grande ' personaggio), ma vivacemente articolata in una ricca serie di notazioni psicologiche e anche stilistiche. Ponendosi per primo il problema del rapporto tra la parte dell'episodio dedicata alla descrizione della selva dei suicidi e quella in cui compare e parla il dannato, il De Sanctis vede l'una e l'altra come i due momenti successivi di una " situazione ", quella dei suicidi trasformati in pianta, che " per rispetto all'immaginazione è fantastica, per rispetto al sentimento è patetica ". Proprio quando il " fantastico " è giunto" al suo estremo " con la potente invenzione del ramo da cui escono " non solo gemiti ma sangue e voce ", allora nasce il " patetico ", affiorando nelle stesse parole dello spirito, nella " pietà " che scaturisce dalla sua dolente e sdegnata protesta (" Anche Virgilio fa parlare la sua pianta... Ma in Dante è un ignoto che parla ad un ignoto e la pietà scaturisce da una fonte ben più profonda. È una pietà tutta umana... È una pietà che ha la sua radice nel fondo stesso della situazione, quale si sia l'uomo che parli "). Questo patetico si precisa in un vero e proprio ' dramma ' nel secondo discorso di P.: un dramma al centro del quale P. si manifesta, " se guardiamo allo stile ", come " un carattere ricchissimo, una compiuta persona poetica ": come un uomo fondamentalmente " debole " e un po' vanitoso, piuttosto squisitamente gentile ed educato che forte (" Non solo egli si esprime con delicatezza ma con grazia ed eleganza, da uomo colto, ingegnoso e finamente educato: con antitesi, con metafore, con concetti, con frasi a due a due "), ma pur capace di movimenti sinceri e schietti (" di sotto alla veste del cortigiano spunta l'uomo "), quando con un " linguaggio semplice ed eloquente.., raccomanda quella parte di sé che gli rimane ancora uomo, la sua memoria ". E il patetico rimane, " anzi si accresce ", colorandosi di una " mestizia ineffabile ", nell'ultima parlata di P., che " non ha niente di didattico ": in essa infatti " non vi è pensiero, ma azione, narrata con una vigoria ed efficacia di stile insolita. Le parole sono molto comprensive e risvegliano parecchie idee accessorie. Nel disvelta si sente non solo la separazione, ma la violenza e lo sforzo contro natura; nel balestra non solo il cadere, ma l'impeto e la rapidità della caduta e l'ampio spazio percorso; nella parola finestra si sentono i sospiri e i lamenti e il pianto che esce fuori per quel varco. E perché tanto affetto e vivacità nella spiegazione di un fatto? Perché è un suicida che spiega la pena del suicidio, e narrando la storia dell'anima suicida ricorda insieme la sua propria storia ".
Era necessario indugiare su questa interpretazione desanctisiana non solo per il suo valore intrinseco, ma anche perché, per quasi un secolo, i critici successivi, dal Novati al Medin al D'Ovidio al Parodi al Croce, dal Rossi al Grabher al Momigliano, procedono in sostanza nella direzione ed entro gli schemi da essa segnati. Si può anzi osservare che in tutti questi critici non solo si mantiene ma si accentua, e in qualche caso s'irrigidisce, la tendenza a concentrare l'attenzione sul ‛ personaggio ' di P. e a definirne il ‛ carattere ' o il ‛ Dramma ' indipendentemente dalla struttura teologica del canto e in genere dell'Inferno, e invece in rapporto con la figura storica, politica e letteraria, del capuano e con il giudizio che D., come uomo e come scrittore, poteva dare su di essa. Appunto entro questa tendenza si collocano in particolare le discussioni intorno al contenuto e allo stile del discorso centrale di Pietro. Si è in genere d'accordo nel ritenere che, attraverso quel discorso, D. mirerebbe a una rappresentazione ‛ realistica ' del ministro capuano, riecheggiando proprio alcuni moduli caratteristici dell'artificiosa tecnica della sua prosa epistolare (e vengono segnalate, soprattutto dal Novati e dal Parodi, alcune corrispondenze che sembrano in questo senso significative). Ma mentre secondo alcuni tale rappresentazione sarebbe " a due dita dalla caricatura ", in coerenza con un ritratto generale di P. come uomo (secondo la definizione desanctisiana) " cortese e nobile sì, ma un poco debole e vano " (Parodi); secondo altri, invece, che ricuperano forse le citate indicazioni dell'Ottimo e del Boccaccio, D. si sarebbe proposto soltanto " di far parlare il Della Vigna in modo degno di lui " (Novati), animato come era da una schietta ammirazione per l'uomo, per lo statista, per lo scrittore, sotto tanti aspetti a lui conforme: " Pietro era... uno degli uomini del suo cuore, una delle figure storiche che più lo attraevano per conformità d'idee o di personali tendenze. Gli piaceva non solo il consigliero di colui nel quale egli venerava il Cesare e l'amico dei dotti e dei poeti, ma il pensatore politico, lo scrittore, il cortigiano salito per mera virtù d'ingegno " (D'Ovidio).
Rispetto a queste interpretazioni e discussioni una vera e propria svolta metodologica è rappresentata dallo studio dello Spitzer, pubblicato per la prima volta nel 1942. Questo critico, infatti, sposta decisamente e polemicamente la sua attenzione dal personaggio di P. all'atmosfera etico-stilistica di tutto il canto: un'atmosfera " di tortura, di scissione, di sdoppiamento ", e insomma di " disarmonia ", rispondente al mostruoso ibrido rapporto uomo-pianta, che, per contrapasso alla loro colpa, D. infligge come pena ai suicidi, e che, sul piano espressivo, sarebbe resa non solo attraverso il " simbolismo fonico " delle parole " aspre " frequenti nella descrizione della selva e nell'episodio degli scialacquatori, ma anche attraverso i complicati e contorti artifici retorici dei discorsi sia di P. sia dell'anonimo suicida fiorentino: anche ammesso che l'attenzione del poeta " fosse attratta dalle caratteristiche stilistiche del funzionario Piero, tuttavia, una volta che la sua immaginazione si era impadronita degli artifici che caratterizzavano quello stile, questi potevano adattarsi ad un disegno più vasto, a rappresentare la loro parte nell'evocazione di quell'atmosfera di disarmonia che pervade tutto quanto il canto "
Questa interpretazione non ha mancato di suscitare notevoli perplessità, soprattutto per l'appiattimento del personaggio di P., che essa finiva per comportare. Ed è significativo che studiosi avvertiti come il Bosco, il Bonora, il Paratore, il Baldelli, polemizzando esplicitamente con il critico austriaco, siano tornati a insistere sul grandioso rilievo che la figura di P. assume nel panorama del canto. All'esigenza (fatta valere nel caso specifico dallo Spitzer, ma rispondente a un orientamento generale assai vivo e diffuso nella più recente critica dantesca) d'intendere e caratterizzare questa figura in modo più libero dagli schemi romantico-realistici e più attento alle ragioni etico-religiose del pensiero e del sentimento di D., appaiono tuttavia sensibili anche quegli studiosi. Così il Bosco afferma che la pietà del poeta per il grande suicida nasce " dal contrasto tra l'ammirata considerazione delle sue benemerenze e della sua statura morale e l'infinita miseria alla quale ora è dannato "; il Bonora chiarisce come " il suo dramma assuma il significato di esempio grandioso della infelicità umana "; il Baldelli precisa che il "peccato e la grandezza di Pier della Vigna sono proprio nel suo disdegnoso gusto, indignazione assaporata, piacere di dimostrare il proprio disprezzo agli invidiosi ".
Così ancora il Paratore, mentre, rifacendosi al De Sanctis e basandosi anche su un nuovo e più ampio confronto fra lo stile del dannato e quello di P. scrittore, vede P. caratterizzato come uomo debole e vanesio e addirittura acre e irritabile, questi atteggiamenti mette però in rapporto con una più generale situazione psicologica, che ha " condizionato quel madornale errore della sua volontà che lo ha condotto al suicidio ". Ma all'impostazione dello Spitzer si richiamano più direttamente, sia pure con importanti limitazioni e precisazioni, altri critici. Tale è il caso dell'Aglianò (" I motivi poetici che caratterizzano questo personaggio non sono soltanto quelli della fedeltà e della disgrazia in cui cadde in seguito a velenose calunnie, ma anche quelli, squisitamente spirituali, dello smarrimento fatale che porta alla disperazione e al suicidio, e della perdita di dignità umana connessa alla soppressione del corpo "); e soprattutto del Sapegno, che, accogliendo dallo Spitzer l'idea generale della corrispondenza tra la contorta e stravolta psicologia dei suicidi e le immagini e i moduli linguistici che caratterizzerebbero lo stile di tutto il canto, riconosce la funzione centrale dell'episodio di P., e in particolare del suo artificioso discorso, proprio come momento essenziale di " uno sforzo di comprendere ", e quindi di giudicare, l'ambiguo e contraddittorio processo spirituale che porta all'aberrazione del suicidio: come Francesca, " attraverso l'analisi che il dannato compie del momento culminante della sua vita, egli acquista coscienza (e con lui il poeta, e quindi il lettore) della prima radice del suo male ", e di conseguenza, della natura e della tragica gravità della sua colpa.
Questo e simili tentativi d'intendere la figura di P. e in particolare la sua ‛ retorica ' come strumenti per la rappresentazione del processo di chiarimento di una colpa specifica potranno sembrare più suggestivi che persuasivi; e potrà anche sembrare discutibile l'affermazione che lo stesso P. partecipi consapevolmente a questo processo di chiarimento. Anche a nostro giudizio, tuttavia, non sembra possibile comprendere il personaggio dantesco nella sua concreta originalità, qualora si prescinda dal contesto etico-religioso in cui esso è collocato, dalla sua qualità, se non proprio di suicida, almeno, più generalmente, di peccatore e di dannato, di solenne exemplum destinato a far meditare il lettore sui grandi temi della colpa umana e della giustizia divina, com'è poi il caso di tutti i ‛ grandi personaggi ' dell'Inferno, da Francesca a Farinata, a Capaneo, a Brunetto Latini, da Vanni Fucci a Ulisse, a Guido da Montefeltro, a maestro Adamo, al conte Ugolino. Per tutti costoro (con l'eccezione, forse, dell'ultimo) D. impiega un procedimento che, pur nelle varie forme che assume di volta in volta, appare sostanzialmente analogo. Egli lascia cioè che il personaggio emerga tra i suoi compagni di colpa e di pena, in un tentativo di giustificare la propria colpa o almeno di presentarsi nella luce più opportuna a suscitare la comprensione o la commiserazione o il rispetto di D.: un tentativo che può anche, in alcuni casi, lasciare il poeta pensoso o pietoso o sbigottito, ma non mai fino al punto che questi sentimenti non vengano riassorbiti e placati nella finale accettazione del giudizio di Dio. Casi del genere sono in particolare quelli di Francesca, di Farinata, di Brunetto Latini, e anche e proprio di P. della Vigna. Come Francesca si stacca dalla bufera dei peccator carnali, come Farinata s'innalza sul paesaggio di tombe infuocate, come Brunetto Latini si separa dalla turba dei sodomiti, così P. si distingue per un momento dallo sfondo terrificante della selva maledetta. Anzi, questa volta, il processo di distacco è più lento e complesso.
All'inizio della scena P. è presentato come uno dei tanti suicidi trasformati in pianta: un gran pruno (If XIII 32; dove l'aggettivo, piuttosto che alludere al fatto che " hic erat inclusa anima magna viri magni " [Benvenuto], sta forse solo in funzione di ramicel [Aglianò]), che reagisce al gesto di D. come avrebbe potuto reagire chiunque dei suoi compagni di pena, insistendo cioè solo sulla dolorosa e pietosa condizione di uomo-pianta che lo accomuna a essi (vv. 33-39 Perché mi schiante schiante?... / Perché mi scerpi?... / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: / ben dovrebb'esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi; dove si noti anche il passaggio dal singolare al plurale); condizione che viene non a caso ribadita obiettivamente dalla famosa similitudine dello stizzo verde (vv. 40-44). Solo quando, dalle parole di Virgilio (vv. 46-54), il dannato apprende che chi ha spezzato il suo ramo è un uomo vivo, destinato a tornare nel mondo sù, e quindi capace di rinfrescare d'alcun' ammenda la sua fama, il suo atteggiamento e il suo modo di esprimersi cambiano. Il discorso (vv. 55-78) con cui egli risponde a Virgilio, e su cui tanto hanno discusso commentatori e critici, è, in realtà, una breve ma elevata ed efficace apologia, in cui, come (per ricordare due casi più simili) Francesca (If V 97-107, 121-138) e maestro Adamo (XXX 58-90), cerca di giustificare la propria colpa e di suscitare la compassione di D., da un lato sottolineando la propria nobiltà spirituale e dall'altro presentandosi come vittima di persone più colpevoli di lui stesso. Se infatti si è suicidato, a questo atto, per cui ora è condannato all'eterna miseria, egli è stato spinto (così intenderei la tormentata terzina 70-72) dal disperato proposito di manifestare in tal modo ai suoi invidiosi accusatori il proprio sdegnoso disprezzo, e insieme dalla speranza di suscitare nell'imperatore, al quale aveva dedicato tutta la vita, la persuasione della propria innocenza: da una reazione insomma ben comprensibile, e in un certo senso inevitabile, da parte di un uomo così ingiustamente e crudelmente ripagato delle sue fatiche e della sua devozione.
Trattandosi appunto di un'apologia, non farà meraviglia che essa sia condotta (come appunto quelle di Francesca e di maestro Adamo) secondo le norme della retorica, sia per quanto riguarda la struttura, articolata in captatio benevolentiae (vv. 55-57), narratio (vv. 58-75) e petitio (che vale anche, se vi si comprendono i vv. 73-75, come una specie di peroratio); sia dal punto di vista stilistico, con le sue metafore preziose (adeschi, inveschi, chiavi / del cor, li sonni e polsi), le perifrasi (Io son colui..., l'ospizio / di Cesare), le personificazioni dell'invidia e della memoria, l'antitesi lieti onor... tristi lutti, le annominazioni e le figure etimologiche (serrando e diserrando; infiammò... 'nfiammati infiammar; animi... animo; disdegnoso... disdegno; ingiusto... giusto). Che poi questa retorica (che investe dunque, contrariamente a quanto si suol dire, non solo la prima parte del discorso, ma anche quella finale, in cui si noti, fra l'altro, pure il parallelismo sintattico-ritmico delle due terzine) trovi riscontro per alcuni aspetti nella retorica delle epistole latine di P., non dovrà essere imputato a una volontà di caratterizzazione storica o realistica o magari caricaturale, ma piuttosto alla vicinanza (documentata da tanta parte dell'opera di D.) tra il gusto stilistico del poeta e quello del dittatore capuano, una vicinanza che (si può certo ammettere) la presenza stessa di P. come personaggio avrà in questo caso contribuito ad accentuare.
Di fronte a quest'apologia la reazione, dichiarata esplicitamente da D. stesso, è la pietà: una pietà che, se non provoca, come nel caso di Francesca, lo svenimento del poeta, gl'impedisce tuttavia di rivolgersi direttamente a P., e lo spinge a chiedere il soccorso di Virgilio (vv. 82-84). È forse troppo sottile e astratta la spiegazione allegorica, che, come si è detto, il Buti (seguito da qualche altro: per es. il Landino, il Vellutello, il Berthier) fornisce di questo momento dell'episodio. Ma non sembra possibile, a nostro giudizio, escludere che la pietà di D. e l'intervento di Virgilio rimandino a un significato etico-religioso di carattere generale; che cioè pongano e al tempo stesso risolvano il problema del giusto rapporto fra l'umana comprensione nei confronti di un peccatore per tanti aspetti degno di commiserazione e anche di ammirazione (e in particolare politicamente e letterariamente vicino al poeta) e l'ossequio razionale alla superiore giustizia di Dio. Una simile interpretazione pare giustificata proprio dal contenuto della domanda di Virgilio (vv. 85-90), attraverso la quale il tema del discorso viene cortesemente ma decisamente spostato dalla considerazione del dramma personale del dannato a quella della pena che lo accomuna agli altri suicidi, secondo un procedimento analogo a quello seguito negli episodi di Farinata (If X 94-120), Brunetto Latini (XV 100-124) e maestro Adamo (XXX 91-129), anche se in questi è D. che interviene direttamente. A tale spostamento si adegua perfettamente la risposta di P. (vv. 93-108), a proposito della quale si possono richiamare le acute osservazioni, anche stilistiche, del De Sanctis, ma rovesciandone la caratterizzazione riassuntiva già citata.
La particolare originalità e poeticità di quella risposta consiste, in realtà, non nel fatto che P., " narrando la storia dell'anima suicida ricorda insieme la propria storia ", ma, al contrario, nel configurare quella che è, e sarà, anche la tragica esperienza personale di chi parla, come esperienza di ogni anima suicida, nel ricondurre la propria colpa e la propria pena, senza più eccezioni o giustificazioni, entro gli schemi immutabili attraverso i quali la giustizia divina giudica e colpisce chiunque si sia privato del proprio corpo. Non a caso, in questo suo ultimo discorso, P. non solo abbandona i modi stilistici della sua precedente apologia, ma neppure parla mai in prima persona; e non a caso in esso il tema della selva, simbolo insieme della colpa e della pena di tutti i suicidi (dopo essere stato significativamente richiamato in alcune espressioni della domanda di Virgilio: spirito incarcerato...; in questi nocchi; e soprattutto nei vv. 91-92, che introducono la risposta del dannato: Allor soffiò il tronco forte, e poi / si convertì quel vento in cotal voce) torna dominante, fino a raggiungere il culmine della sua tragica impersonale solennità nell'immagine apocalittica: e per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi, / ciascuno al prun de l'ombra sua molesta.
Bibl. - Sulla figura storica di P. rimane fondamentale A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de P. de la V., Parigi 1865; ma si vedano anche le opere generali di K. Hampe, Deutschen Kaisergeschichte im Zeitalter der Salier und Staufer, Lipsia 1909; E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlino 1927-1931 (traduz. ital. Milano 1941); A. De Stefano, La cultura alla corte di Federico Il imperatore, Palermo 1938; e anche R. Morghen, in Enc. Ital., sub v.; e, con specifico riferimento al giudizio di D., oltre il saggio del D'Ovidio cit. più avanti, F. Schneider, Kaiser Friedrich Il und P. von V. im Urteil D., in " Deutsches Dante-Jahrbuch" XVIII (1948) 230 ss.; F. Baethgen, D. und P. des V. (1955), in Medievalia, II, Stoccarda 1960, 413-441; U. D'Aquino, Una chiosa su P. delle V., in D. e l'Italia meridionale, Atti del Congresso nazionale di studi danteschi, Firenze 1966, 105-110; e, per questioni particolari: G. Rondoni, Dove si uccise P. delle V., in " Boll. Accad. Euteleti di San Miniato ", agosto 1919; A. De Stefano, La disgrazia di P. delle V., in " Athenaeum " n.s., II (1924) 188-195; A. Casertano, Un oscuro dramma politico del secolo XIII. P. delle V., Roma 1928. Sulla sua opera letteraria e in particolare sul suo stile epistolare: F. Di Capua, Lo stile della curia romana e il " cursus " nelle epistole di P. delle V. e nei documenti della cancelleria sveva, in " Giorn. Itai. Filologia " II (1949) 97-116; E. Paratore, Alcuni caratteri dello stile della cancelleria federiciana (1950), in Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma 1965, 117-163; e anche, E. Monaci, Su P. delle V., in " Rendiconti Accad. Lincei " s. 5, V (1896) 45-51; e per le poesie volgari, Contini, Poeti I 120-128; II 810.
Sull'episodio dantesco di cui P. è protagonista (oltre i commenti antichi e moderni), si vedano: A. Cesari, Bellezze della D.C. di D.A. Dialogo quinto (1824), Napoli 1866, 78-85; F. De Sanctis, P. delle Vigne (1855), in Lezioni e saggi su D., Torino 1955, 245-260; F. Novati, P. delle V., in Con D. e per D., Milano 1898; poi in Freschi e mini del Dugento, ibid. 1925, 55-81; L. Pietrobono, Il canto XIII dell'Inferno, in " Rassegna Nazionale " 1 settembre 1902, 29-46; N. Vaccalluzzo, Boezio e P. delle V. nella D.C., in Miscellanea di studi critici in onore di A. Graf, Bergamo 1903, 222-233; A. Monti, in Lect. Genovese u 37-70; A. Medin, Il canto XIII dell'Inferno, in Due letture dantesche, Padova 1906 (ristampato da solo a Firenze, s.d.); G. Cavazzuti, Esposizione del canto XIII dell'Inferno di D., Modena 1906; F. D'Ovidio, Il canto di P. delle V., in Nuovi studii danteschi, Milano 1907, 143-333; E. Capra Cordova, Il canto XIII dell'Inferno, Caltanissetta 1907; Parodi, Lingua 349-351; B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 79; I. Sanesi, Polidoro e P. delle V., in " Studi Medievali " n.s., V (1932) 207-216; G. Patroni, L'episodio virgiliano di Polidoro e i dantisti, in " Rend. Ist. Lombardo Scienze e Lettere " LXXI (1938) 59-72; L. Olschki, D. and Peter de Vigea, in " Romanic Review " XXXI (1940) 105-111; L. Spitzer, Speech and Language in Inferno XIII (1942), in Romanische Literaturstudien, Tubinga 1959, 544-568 (traduz. ital. in Lett. dant. 223-248); S. Aglianò, Lettura del canto XIII dell'Inferno, in " Studi d. " XXXIII (1955) 143-186; C. Angelini, Il canto XIII dell'Inferno, Firenze 1961; L. Pietrobono, Il canto XIII dell'Inferno, Torino 1962; M. Camilucci, Il canto di P. delle V., in Letture dell'Inferno, Milano 1963, 115-139; M. Cappuccio, Interpretazioni dantesche: Virgilio e P. della V., in " Palaestra" 1965, 305-327; M. Fubini, Rileggendo "La poesia di D." di B. Croce (1965), in Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napoli 1966, 143; E. Bonora, Il canto XIII dell'Inferno, in " Cultura e Scuola " IV (1965) 446-454; E. Paratore, Analisi retorica del canto di P. delle V., in " Studi d. " XLII (1965) 281-336 (poi in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 168-220); E. Gilson, Poesie et théologie dans la D.C., in Atti del Congresso internaZ. di studi dant., Firenze 1965, 213-219; U. Bosco, Il canto dei suicidi, in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 255-273; I. Baldelli, Il canto XIII dell'Inferno, in Nuove lett. H 33-45.