CELANO, Pietro di (Petrus comes Celani, Petrus Celanensis, Petrus de Venere)
Nacque verso la metà del sec. XII da Berardo.
Il padre, che nella prima redazione del Catalogus baronum è ricordato ancora come conte di Albe e del quale si ha l'ultima notizia nel 1160, era con molta probabilità discendente dell'ultimo conte dei Marsi Crescenzio (1120), che aveva appunto un figlio di nome Berardo. Non è noto il nome della madre. Il C. dovette nascere intorno al 1150, visto che nel 1189 aveva già una figlia in età da marito e verso l'anno 1200 vari figli maggiorenni.
Nulla si sa della giovinezza del C.: pare che inizialmente gli fosse stato concesso in feudo il castello di Venere presso Pescina che faceva parte della contea di Celano; anche più tardi infatti è ancora ricordato dalle fonti con questo nome. Sulla data in cui gli fu assegnata la contea di Albe si possono fare soltanto ipotesi. La contea era stata tolta intorno al 1160 da Guglielmo I a Berardo per aver partecipato alle rivolte della nobiltà contro la monarchia, e concessa nel 1167 dalla reggente Margherita al barone di Flumeri Ruggero "filius Riccardi". Questo Ruggero già nel 1169-70 era conte di Alife e prima del 1175 fu investito della contea di Andria. È perciò possibile che il C. già intorno al 1170 fosse stato reinvestito dei diritti del padre su Albe. Ancora al tempo di Guglielmo II riacquistò alla sua famiglia la contea di Celano separata da quella di Albe durante il regno di Ruggero II.
Nel 1189, anno in cui il C. è ricordato per la prima volta direttamente, egli univa di nuovo nelle sue mani i feudi della vecchia contea marsicana intorno al lago di Fucino, con Avezzano, Celano e Albe. Secondo il Catalogus baronum essa comprendeva 258 cavalieri obbligati a prestare il servizio militare: dopo la contea di Molise si trattava della più grande signoria feudale del Regno, la cui posizione ai confini dello Stato della Chiesa favoriva enormemente una politica indipendente, sia all'interno che verso l'esterno, del suo detentore.
Indizio importante delle ambizioni espansionistiche del C., che mirava ben oltre i confini della Marsica, sono i matrimoni da lui conclusi o accordati per i suoi figli.
Il C. stesso sposò una sorella (non ne è noto il nome), dei fratelli Gualtieri, Gentile e Manieri di Palearia, i quali come eredi della contea di Manoppello avevano una forte posizione nell'Abruzzo orientale che poterono estendere ancora quando Gualtieri diventò prima nel 1189 vescovo di Troia e poi, nel 1195, cancelliere del Regno. La figlia Rogasiata nel 1189 fu data in sposa a Giovanni di Ceccano, uno dei nobili più potenti della Campagna. meridionale, un'altra figlia a Rainaldo di Anversa signore della contea di Sangro, i cui castelli congiungevano la Marsica con il Molise. Ma il matrimonio che avrebbe avuto maggiori conseguenze sul piano politico fu quello del figlio del C. Tommaso con Giuditta, che era l'erede del conte Ruggero di Molise. Tuttavia non è del tutto chiaro se questo matrimonio fosse concluso mentre era ancora in vita il conte Ruggero di cui si hanno notizie fino al 1196, oppure soltanto nel 1201 per legittimare l'occupazione della contea di Molise. Nell'Abruzzo orientale si era insediato anche un cugino del C., Berardo, sposando la figlia del conte Gozzelino di Loreto.
Tutta la politica matrimoniale del C. rivela chiaramente il tentativo di crearsi una signoria autonoma nella parte settentrionale del Regno in netto contrasto con gli interessi dei re normanni residenti a Palermo. Perciò è quasi naturale che dopo la morte di Guglielmo II il C., insieme con il vescovo Gualtieri di Troia, parteggiasse per Costanza e Enrico VI, appoggiando sin dall'inizio gli attacchi di cavalieri tedeschi contro il Regno.
Prima dell'assedio di Napoli si recò, come molti altri conti del Regno, al campo dell'imperatore ad Acerra. Costretto a ritirarsi, Enrico scelse una strada meno consueta, la via Valeria "per terram Petri Celani comitis", certamente nella convinzione che la potenza del C. e la sua conoscenza dei luoghi avrebbero offerto maggiore sicurezza alle truppe tedesche decimate e malconce. Con la sua controffensiva del 1192 re Tancredi riuscì a sottomettere o a tirare dalla sua parte la maggioranza dei grandi feudatari del Nord del Regno, persino i conti di Molise e di Loreto; ma non poté vincere la resistenza opposta dal C. ad Albe e a Celano.
Dopo la morte di Tancredi e la conquista del Regno da parte di Enrico VI, il C. occupò un posto di grandissimo prestigio alla corte dei nuovi sovrani. Quando, immediatamente dopo la sua incoronazione siciliana, l'imperatore accusò pubblicamente il 29 dic. 1194 la regina Sibilla e il re Guglielmo III di alto tradimento, fu il C. a proclamare il giudizio della corte. Nell'aprile del 1195 partecipò alla Dieta pasquale di Bari, dove fu insediata la reggenza che doveva governare il Regno durante l'assenza dell'imperatore che il C. accompagnò poi nel suo viaggio di ritorno fino a Ortona. Ma solo dopo la morte di Enrico-VI, quando esplosero i contrasti interni del Regno, all'inasprimento dei quali la dominazione tedesca aveva contribuito in misura non trascurabile, il C. conquistò la libertà politica per la realizzazione di quelle ambizioni autonomistiche che furono alla base dei suoi frequenti cambiamenti di alleanze e che determinarono d'allora in poi i suoi rapporti con i detentori legali o effettivi del potere nel Regno. Il C. appoggiò l'imperatrice Costanza contro Marquardo e i Tedeschi, ma permise anche a Marquardo, che in cambio gli cedette Vairano, di ritirarsi in buon ordine nella Marca d'Ancona; insieme al cugino Berardo di Loreto il C. provvide a che il giovane re Federico II fosse portato sano e salvo da Foligno a Palermo. Dopo la morte di Costanza, Innocenzo III cercò già nel gennaio del 1199 l'appoggio del C. per contrastare l'avanzata di Marquardo contro San Germano e Montecassino. Per mano del cardinale Giordano di S. Pudenziana, il papa inviò 1.500 once d'oro al C., che tuttavia non si decise ad iniziare una spedizione di diversione in soccorso di Montecassino e si limitò a inviare viveri e a tenere a bada nella Marsica i nemici del papa.
Solo dopo che erano fallite le trattative di Marquardo con la Curia, il C. decise di intervenire attivamente nella lotta per la reggenza combattuta inizialmente soprattutto in Terra di Lavoro. Si presentò con le sue truppe in questa provincia, quando il conte Dipoldo di Acerra, il più importante alleato di Marquardo, cadde prigioniero del conte Guglielmo di Caserta e Marquardo stesso iniziò la sua marcia in direzione, della Puglia. Non si venne però allo scontro, dato, che il capitano tedesco decise nell'autunno 1199 di passare in Sicilia per combattervi per le sue rivendicazioni alla reggenza.
Con la partenza di Marquardo il C. ottenne mano libera per la sua politica nelle province settentrionali del Regno. Nell'autunno 1199 riuscì a far eleggere, contro le resistenze locali, il figlio Rainaldo arcivescovo di Capua. In quel tempo i familiari regi a Palermo, la cui politica in questi mesi era dominata più che mai dal cancelliere Gualtieri di Palearia, concessero al C. la contea di Civitate in Capitanata rimasta vacante, estendendo con ciò il raggio d'influenza del C. quasi fino a Siponto sulla costa adriatica. La questione di Civitate mise però il C. in conflitto con il papa che riteneva una prerogativa della reggenza la disposizione sulle contee ed aveva perciò nell'ottobre affidato Civitate, che costituiva un importante anello di congiunzione tra la Puglia e il Nord, al conte Ruggero di Chieti. Quando Innocenzo III seppe della concessione palermitana, rifiutò di revocare la propria decisione e ordinò di insediare Ruggero. Pur continuando a fregiarsi del titolo di conte di Civitate, non pare tuttavia che il C. sia riuscito a far valere i propri diritti. Ruggero di Chieti infatti, nel 1205, a Loritello, è ricordato come conte di Chieti e di Civitate, e con questi due titoli è iscritto anche nell'obituario di S. Spirito a Benevento.
A causa di questo rifiuto nei mesi seguenti il C. tenne un atteggiamento abbastanza distaccato nei confronti di Innocenzo III. Nel marzo del 1200 si rifiutò di venire in aiuto dell'abate Roffrido di Montecassino contro Dipoldo di Acerra che aveva assalito il monastero; ma quando questi mosse contro Venafro il C., sentendosi direttamente minacciato, gli si oppose, subendo però, nel giugno 1200 davanti a Venafro, una grave sconfitta: suo figlio Berardo cadde nelle mani di Dipoldo che lo fece portare a Rocca d'Arce.
La situazione cambiò quando Innocenzo III conquistò un nuovo alleato nella persona del conte francese Gualtieri di Brienne, il quale era disposto a combattere per la causa del papa alla testa di un proprio piccolo esercito di cavalieri. Il suo matrimonio con una figlia di re Tancredi pose però ai seguaci della dinastia sveva il problema se una loro lega con Gualtieri non mettesse in pericolo i diritti di Federico II. Mentre il figlio del C., ancora solo arcivescovo eletto di Capua, appoggiò apertamente l'avanzata di Gualtieri di Brienne esaltandone i successi, il C. accondiscese a intavolare trattative solo quando, con una vittoria, riportata il 10 giugno 1201 nei pressi di Capua, Gualtieri dimostrò spettacolarmente la sua superiorità militare. Insieme al conte il 23 giugno 1201 espugnò Venafro e con il suo aiuto nell'estate sottomise la contea di Molise, il cui ultimo titolare era stato Marquardo, con il titolo di marchese. Con il matrimonio - non si sa se allora o in precedenza - del figlio Tommaso con Giuditta, figlia dell'ultimo conte normanno di Molise, riuscì a legittimare la sua conquista anche dal punto di vista del diritto feudale. Con Albe, Celano e Molise concentrate nelle mani di una sola famiglia, il C. era diventato il capo del casato nobiliare certamente più potente nella parte settentrionale del Regno. Innocenzo III confermò al C. nell'autunno del 1201 i diritti conquistati e lo nominò, probabilmente nello stesso anno, gran giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro, insieme con il conte Ruggero di Chieti. Quando, in quello stesso autunno, il cancelliere Gualtieri di Palearia, accordatosi con Marquardo di Annweiler, tornò nel continente cercando di organizzare, dai suoi caposaldi pugliesi di Salpi e di Tressanti, la resistenza contro Gualtieri di Brienne, anche il C. entrò nella coalizione di nobili filosvevi e di condottieri tedeschi capitanata dal cognato; la quale però, già il 22 ottobre 1201, subì una clamorosa sconfitta sul campo di battaglia di Canne. Tra i prigionieri, il cui elenco fu trasmesso da Gualtieri al papa, figura anche il C., il quale però dopo breve tempo fu rilasciato a condizioni molto favorevoli e assolto, probabilmente grazie alla mediazione del figlio Rainaldo di Capua. Ma il C., che nello stesso periodo concluse un accordo matrimoniale con il Brienne, perse allora il suo ufficio di gran giustiziere.
Nel 1203 il C. si offrì, insieme con il conte Ruggero di Chieti, di fare da garante per Gualtieri di Palearia, il quale, vista fallita la propria politica, si sottomise al papa. Non risulta del tutto chiara la parte avuta successivamente dal C. nel corso dei combattimenti svoltisi in Puglia e in Terra di Lavoro. Le fonti riferiscono soltanto che egli, insieme con il conte Iacopo di Tricarico, assediò a lungo un castello, forse quello di Dipoldo di Acerra ad Alife. Dal 1204 il C. ricoprì nuovamente la carica di gran giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro, ma le sue competenze furono ristrette: dovette infatti dividere le sue funzioni con altri tre conti. Faceva parte della sua giurisdizione sicuramente la Terra di Lavoro, dove nell'ottobre 1204 fece consegnare a Capua a un suo fidato la piazzaforte di Rocca San Vito, a nord ovest di Alife. Nel 1205 attaccò nuovamente Alife occupata da Dipoldo di Acerra e la fece distruggere dal fuoco quando seppe della morte di Gualtieri di Brienne. Dopo la riconciliazione del papa con Dipoldo di Acerra nel 1206, i rapporti tra il C. e Innocenzo III diventarono di nuovo molto tesi. Il C. fu assolto, ancora nello stesso 1206, da un notaio pontificio - probabilmente dall'allora vicario del papa in Terra di Lavoro Filippo - dalla scomunica in cui era incorso; ma nel dicembre Innocenzo III dovette far ricorso a tutta la sua autorità spirituale per riguadagnare il C. alla causa pontificia. Non si sa se il C., in quel momento ancora gran giustiziere, continuasse ad esercitare le sue funzioni anche nell'anno successivo.
Quando Innocenzo III nel giugno del 1208, nel corso di un Parlamento tenuto a San Germano, promulgò un editto di pace per il Regno e ne riorganizzò la difesa, il C . e il conte Riccardo di Fondi furono nominati "magistri capitanei" per le province a nord di Salerno, con il compito di far rispettare questa pace. Il C., che aveva consigliato il papa sul come ristrutturare la difesa, rimase contemporaneamente gran giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro. Ma già nell'ottobre esplose un grave conflitto tra i due capitani a causa della città di Capua, i cui cittadini per odio del C. si erano dati al conte di Fondi. A quel che sembra Federico II nel gennaio del 1209 o poco prima sostituì il C. con Dipoldo di Acerra nella carica di gran giustiziere. Con un rapido voltafaccia politico che ricorda il suo comportamento nel 1201, il C. si accordò allora con Dipoldo. Con la mediazione del figlio, l'arcivescovo Rainaldo, riuscì a convincere il castellano di Capua a consegnargli il castello, inutilmente assediato da Riccardo di Fondi, e, forte di questo possesso, a cacciare il conte di Fondi da Capua. In tal modo il C. si era impadronito anche di Terra di Lavoro.
Quando Federico II nel 1209 scoprì la prima congiura della nobiltà catturando il conte calabrese Anfuso di Roto, il C. preferì non seguire l'invito a partecipare alle nozze del re che si celebravano a Palermo. Rinnovò invece nello stesso anno la lega con il suo vecchio avversario sposando la figlia Stefania con un figlio di Dipoldo di Acerra. Di fronte alle tendenze sempre più marcatamente antifeudali della politica di Federico II, chiaramente individuabili già nel 1209, con la revoca delle concessioni feudali che minacciavano l'esistenza delle signorie nobiliari formatesi dopo la morte di Guglielmo II, il C. decise, insieme con Dipoldo, di condurre l'opposizione nobiliare al campo dell'imperatore Ottone IV, il quale, dopo la sua incoronazione, si era fatto promotore delle rivendicazioni dell'Impero sulla Sicilia. I primi accordi furono presi nell'estate del 1210a Pisa. Ottone IV nominò il C. - probabilmente nel corso del 1211 - capitano e gran giustiziere di tutto il Regno, conferendogli in tal modo funzioni vicereali. Mentre Dipoldo fu nominato duca di Spoleto, il C. ottenne dall'imperatore la Marca di Ancona, diventando così signore di una regione che andava da Ancona fino a Capua con in più il possesso dei supremi poteri militari e giurisdizionali nel Regno. In alleanza con il C., attraverso i territori del quale l'imperatore entrò nel Regno, Ottone IV conseguì successi iniziali estremamente preoccupanti per Federico II: la presa di Capua consegnatagli personalmente dal C. nel novembre 1210,l'occupazione della Puglia, il passaggio dalla sua parte di molti esponenti dell'alta nobiltà.
A nome di Ottone IV il C. garantì all'abate Pietro di Montecassino l'integrità delle terre del monastero; nel marzo 1211 figura come testimone in un diploma di Ottone IV per Asti. A partire dal 1211 il C. poté esercitare indipendentemente la sua signoria nella Marca d'Ancona nominando vicari e legati. Un giudice della contea di Camerino da lui nominato esercitò le sue funzioni nel dicembre del 1211 a Tolentino. Anche i cittadini di Ancona riconoscevano la sua signoria. Uno dei legati del C., Tomaso de Iogia, per incarico di Ottone IV ancora nell'agosto del 1212 fece una donazione al monastero di S. Catervo. Nel febbraio del 1212 troviamo il C. a Vairano, dove con il titolo di "capitaneus et magister iusticiarius regni Sicilie" ordinò al suo castellano a Tocco Caudio di esonerare il monastero di S. Maria di Grotta, retto dall'abate Ugo, dai servizi dovuti per certe proprietà terriere.
Il C. morì al culmine del suo potere nel 1212(probabilmente nell'agosto o nel settembre), ma in un momento in cui il crollo della politica del suo ultimo alleato Ottone IV aveva già messo in forse questa sua posizione senza pari; la quale con la sua morte andò perduta e non poté essere mantenuta dai suoi eredi politici.
Il merito storico del C. fu quello di aver evidenziato la possibilità di un'alternativa nobiliare alla politica di accentramento operata dalla monarchia normanna, che sin dal tempo di Ruggero II non aveva risparmiato neanche la nobiltà indigena degli Abruzzi. Con il cambiamento continuo delle alleanze il C. riuscì, approfittando della momentanea debolezza della monarchia e della posizione geografica delle contee ereditate, unitamente a un'abile politica matrimoniale, a crearsi una signoria autonoma, che, con l'inglobamento della Marca d'Ancona, metteva in questione anche i confini del Regno quali si erano determinati storicamente. Incuneandosi tra lo Stato pontificio e il Regno questa signoria territoriale conquistò temporaneamente una funzione chiave nei rapporti tra il Papato, l'Impero e il Regno. Con il passaggio dalla parte di Ottone IV, al quale il papa rispose con l'elezione di Federico II a re dei Romani, il C. poté conseguire successi politici senza uguali, ma fu questo anche l'inizio della rovina del suo casato e della sua potenza. La monarchia rinnovata da Federico II si rese conto della minaccia per la propria posizione insita in questa politica e si creò dopo il 1220, con l'eliminazione dei discendenti del C., una nuova base per le riforme dello Stato dirette contro la nobiltà.
Dei numerosi figli del C. il primogenito Berardo dal 1200 al 1202 fu tenuto prigioniero da Dipoldo di Acerra a Rocca d'Arce. Nell'estate del 1201sposò Margherita di Montbéliard, una nipote di Gualtieri di Brienne, ma premorì al padre. Nelle contee di Celano, Albe e Molise successero al C. i figli più giovani Riccardo, Tommaso e Pietro quest'ultimo poco noto. L'eredità politica del padre fu raccolta soprattutto da Tommaso.
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