DOLCE, Pietro
Nato a Savigliano (Cuneo) intorno al 1506 (Bonino, 1927, p. 81), iniziò la sua carriera artistica verso il 1530 come miniatore di testi religiosi accanto ai saviglianesi Giacobino Biga e Tommaso Del Sole. Nei conti della Confraternita dell'Assunta, che registrano al 1533 un pagamento "pro scriptura facta in scribendo bullam", è già detto "pictor" (Turletti, 1879-90, II, p. 841). Impegnato nell'introdurre a Savigliano le compagnie del Ss. Sacramento, eseguì e firmò nel 1534 per la cappella della compagnia edificata "ad instar templi" in S. Pietro a Savigliano una "alzata" dipinta e dorata per un'icona definita "pulcherrima" negli atti della visita apostolica di mons. Peruzzi del 1584 (l'ancona, sostituita da un altare marmoreo nel 1766, sarebbe andata dispersa nel 1839; ibid., II, pp. 179, 449, 803 s.).
Intorno al 1535 si trasferì dal sobborgo di San Giovanni in una casa tra S. Andrea e l'antica porta Pieve (ibid., p. 841). Non sono stati per ora identificati i quattro "quadri di bellissima fattura" raffiguranti gli Evangelisti, con la scritta "Dulce 1540", esistenti a Savigliano a detta del Novellis (1844, p. 324) e del Turletti (1879-90, II, p. 841); la Brizio, che nel 1928 (cfr. Schede Vesme, 1966) precisa trattarsi di affreschi, lascerà cadere la notizia nel 1942. In quel periodo il D. avrebbe eseguito affreschi ancora visibili nell'Ottocento sulle mura di Savigliano, in cappelle e piloni campestri della zona, e "una quantità di decorative storiche o mitologiche" nei saloni dei palazzi Tapparelli, Muratori, Cambiani, Beggiami (Turletti, 1879-90, II, pp. 841 s.).
Si ha notizia solo di tre figli maschi, Giovanni Angelo, Alessandro e Simone, di cui i primi due pittori, e di una figlia madre del pittore Giovanni Antonio Molineri (cfr. Dolce, famiglia, in questo Dizionario), benché venga detto "carico di figlioli" dall'autore della biografia conservata nel Museo di Savigliano (autore che A. Olmo, comunicazione orale del 1987, identificò con il letterato saviglianese Ercole Biga). Il biografo seicentesco sottolinea la cultura "universale", di stampo leonardesco, del D.; pur annoverandolo tra i "pittori valenti della nostra patria" segnala che "fu notaio, agrimensore, architetto e pittore et in tutte queste parti assai intelligente. Oltre di ciò ebbe qualche cognitione dell'historie, et i suoi domestici hanno trovato da lui scritte alcune memorie de' suoi tempi ... Fu precettore a Giovan Angelo, suo figlio e insegnò nel disegno Hercole Negri conte di Sanfront che puoi nell'architettura riuscì una fenice de' suoi tempi".
A proposito della formazione del D. bisogna riconsiderare la notizia (ibid., p. 841) di un suo apprendistato presso Oddone Pascale, a noi noto per le ancone di Staffarda, Saluzzo, Revello e Finale Ligure, ma autore a Savigliano di dipinti e sculture perduti; al suo ambito apparteneva anche l'autore degli affreschi datati 1525 con la Madonna del Rosario e santi in S. Giuliano di Savigliano, per i quali non è soddisfacente l'attribuzione al D. avanzata da Vacchetta (Schede Vesme, IV, 1982, p. 1614); alla vena più morbida e favolistica di Oddone, ma con punte di maggiore estro, si ricollegano gli affreschi del pilone di Ruffia (presso Savigliano) e lo straordinario ciclo della cappella di S. Giovanni a Centallo (allora feudo dei Bolleris filofrancesi) aggiornato, si direbbe, su modelli lombardo-ferraresi. Nelle grottesche di Centallo, quasi schiacciate dall'esuberante decorazione alla base dei pennacchi, riconosciamo il prototipo di quelle del D. a Lagnasco se non (come aveva pensato il Vacchetta) un suo diretto intervento. Il ciclo di Centallo ha punti di contatto con gli affreschi della cappella del Buon Gesù a San Michele Mondovì commissionati nel 1531 da Giovanni Gastaldi, erudito esponente della cultura classicheggiante del marchesato di Ceva.
La ricostruzione della sua attività, fin qui basata sulle fonti saviglianesi - non sempre attendibili - ha il suo caposaldo negli affreschi ispirati all'Orlando furioso firmati e datati 1550 del casino dei marchesi di Ceva a Chiusa Pesio, situato vicino al fiume. Prima il Botteri (1892), poi più minuziosamente il Santini (1907) descrivono la decorazione esterna e interna di un loggiato che nel 1907 (quando l'edificio era divenuto di proprietà Baudino-Carle) risultava fortemente degradata: i dieci "medaglioni" interni erano ridotti a cinque, ancora segnalati in loco dal Bonino nel 1927 (p. 82).
Alcune fotografie delle Arti grafiche di Bergamo (nn. 2059 e 2060) e dello studio B. Cometto di Chiusa Pesio documentano tre frammenti del ciclo pittorico prima e dopo il loro distacco effettuato nel 1931, cui seguì il trasferimento nella villa Burgo a Verzuolo (dove sono ancor oggi conservati). Vi sono raffigurati La pazzia di Orlando e Il duello tra Bradamante e Serpentino (dai canti XXIII e XXXV) entro due tondi e il simbolo dell'Impero (un'aquila bicipite incoronata) interposto a una candelabra alla cui base sono un orso e un cane di profilo, già su un sottarco. L'iconografia delle altre figurazioni all'interno del loggiato (Bradamante, Brunello e l'ippogrifo, dal canto IV, Orlando s'imbarca in Bretagna, dal canto IX, L'assedio di Biserta, dal canto XL) è ricostruibile in base agli schizzi di Giovanni Vacchetta conservati presso la Biblioteca civica di Cuneo. Comunemente detti monocromi, gli affreschi presentano un raffinato contrasto tra le tonalità ocra dei fondi, la finta architettura grigia, con profilature chiare e scure che indicano prospetticamente le fonti di luce, e le volute vegetali nere. Sotto il primo tondo spicca entro una cornicetta la scritta: Ex Savilliano petrus dulcius Artis picturae Imitator 1550 die penultima Septembris.
Tutti i soggetti dipendono, come indicato da Lee (1977) per le due scene a lui note, dalle xilografie che illustrano il poema ariostesco nell'edizione veneziana di Giolito de Ferrari del 1542 (rist. 1548).
Da altre xilografie della stessa edizione dipendono gli affreschi presenti nell'antico palazzo dei marchesi di Ceva a Chiusa Pesio, ora sede del Municipio, in un settore di proprietà privata. La decorazione, in origine un unico lungo ambiente, è attualmente in vista in sei lunette che illustrano diversi episodi connessi con la Fuga di Angelica tratti dai primi due canti dell'Orlando furioso (Lee, 1977, pp. 40 s.).
Un auspicabile restauro del ciclo, che Lee riferiva a un seguace del saviglianese Oddone Pascale distinto dal D., potrà confermare l'attribuzione che qui si propone allo stesso D., in una sua fase meno classicamente elaborata rispetto agli affreschi datati 1550, per spiegare i quali sono stati ipotizzati un viaggio a Roma dell'artista, o la conoscenza dei modelli lasciati a Genova da Perin del Vaga. Resta comunque aperto il problema dell'individuazione dei committenti dei due cicli, da ricercarsi tra i marchesi di Ceva, Onofrio e Giovanni Antonio, figli di Lazzarino, sposati a Giovanna e Caterina, figlie di Aleramo (l'aquila bicipite starebbe a evocare i Privilegi imperiali concessi agli Aleramici, capostipiti dei marchesi di Ceva).
Intorno al 1550 dovrebbero collocarsi anche gli affreschi, poco noti, della sala delle colonne nel castello rosso dei Pallavicino a Ceva (un termine ante quem può venire dalla data 1553 graffita sullo sguancio di una finestra) che si ricollegano alla tradizione classica e cavalleresca del marchesato di Saluzzo: vi compaiono battaglie, inseguimenti, amori, concerti, cacce, controbilanciati da riferimenti ai sapienti antichi, da eroiche virtù e dalla personificazione dell'Ecclesiaste. Il salone, dipinto prevalentemente a monocromo, presenta (a prescindere dagli estesi rifacimenti eseguiti intorno al 1950) discontinuità stilistiche e una realizzazione spesso frettolosa. I dettagli più nervosi (in specie nei tondi alla base delle pareti, non lontani dagli esempi conservati a Verzuolo) consentono di ipotizzare un intervento in alcune parti del ciclo del D. o quantomeno di un artista a lui vicino, mentre c'è da supporre che l'impianto generale della decorazione derivi da un modello prestigioso che ispirerà gli affreschi del castello di Levante a Lagnasco. Non è escluso che tale modello si trovasse nella stessa Ceva, dove un'altra importante traccia della cultura letteraria della corte marchionale e del passaggio del D. resta nei tondi, molto degradati, con i profili di Pompeo e Scipione l'Africano, affrescati all'esterno di una piccola loggia, poi tamponata, del palazzo di via Umberto 1, appartenuto, sembra, ai Pallavicini. Non è attualmente visibile all'interno dell'edificio la "galleria d'arte con altri quadri rappresentanti i personaggi più eminenti dell'antichità", segnalata da Giuseppe da Bra (Ceva in tutti i tempi, Cuneo 1959, pp. 227 ss.), che ne ipotizzava un collegamento alle imprese di Giulio Cesare Pallavicini, posto da Carlo II (e confermato da Emanuele Filiberto) al governo del marchesato.
Nel 1553 il D. era in territorio saluzzese, a Lagnasco, per decorare la cappella di S. Gottardo, di proprietà dei Tapparelli, poco distante dal loro castello (Savio, 1915). Gli affreschi delle pareti del presbiterio furono strappati e ricollocati in situ prima del 1927 (Bonino [1927], li riferì al figlio del D., Giovanni Angelo).
Nonostante le ridipinture, particolarmente pesanti nei santi dell'abside (tra cui compaiono tre vescovi reggenti la Sindone e il beato Aimone Tapparelli), nel S. Paolo eremita e soprattutto nelle grottesche su fondo ocra e nelle candelabre della volta sono riconoscibili le tipiche sigle presenti negli affreschi del castello di levante riferibili al Dolce. Anche il Vacchetta del resto aveva annotato nei suoi manoscritti inediti la data e la sigla PD, riportando un'attribuzione della decorazione della cappella al "Dolce di Marene" e il ricordo di una perduta decorazione, riferita allo stesso D., nell'antica parrocchiale.
Non si è per ora trovato riscontro negli ordinati comunali di un intervento del D. a Cuneo nel 1554 per dipingere sulla torre civica "lo stemma di Cuneo con altre figure" (Kari, 1980). Nel 1560 la Comunità di Cuneo lo incaricò di dipingere sulla facciata della (scomparsa) porta di Nostra Donna l'assedio del 1557, opera restaurata nel 1600 per volere di Carlo Emanuele I (Riberi, 1940).
Nel marzo 1564 il governatore del marchesato di Saluzzo luogotenente generale del re di Francia, Lodovico Birago, scriveva al Comune di Savigliano (ritornata sotto il dominio francese dal 1562 al 1574) di far dipingere le armi reali sulla piazza e sulle porte della città, suggerendo di concordare il prezzo con il D. che, da lui interpellato, aveva inviato una risposta con la lista dei colori, incarico eseguito dopo un ordine più perentorio nel maggio seguente (Turletti, 1879-90, II, p. 841; IV, p. 807). Dalla prima lettera del Birago apprendiamo che il D. stava lavorando a Lagnasco. Il Bonino (1927, p. 85) e la Brizio (1942, pp. 83, 194) danno per scontato che il D. lavorasse al castello Tapparelli fin dal 1560.
È ancora difficile districare il nodo culturale della decorazione del castello di Ponente dei Tapparelli dove si è spesso data per scontata la presenza del D. e del figlio Giovanni Angelo (sub voce) accanto a quella, variamente interpretata, di G. Rossignolo e C. Arbasia. Non sono convincenti le attribuzioni al D. dei grandi "exempla" figurati nel salone della Giustizia (Bonino, 1927, p. 85) o del ciclo omogeneo della sala attigua (Mallè, 1961, p. 196) e neanche l'accostamento al D. (Gabrielli, 1973, p. 152) degli affreschi esterni raffiguranti donne affacciate a un loggiato rivestito di marmi preziosi, preludio agli illusionismi della villa del Maresco e di palazzo Cravetta a Savigliano. D'altra parte sembrano rinviare al D. alcuni particolari della decorazione interna, come l'Inverno-Kronos della volta del terzo pianerottolo, o il camino conservato in un ambiente (attualmente deposito) attiguo alla sala della Giustizia.
Il 1560 era anche la data letta dalla Gabrielli (1973, p. 177) sulla culla conservata a casa Cavassa a Saluzzo, descritta in un inventario settecentesco del castello di Lagnasco come "molto all'antica di noce con testile con sculture ed ornamenti dorati" (Faloppa, 1985, p. 105). Nonostante le sostituzioni di alcune parti e le ridipinture dell'Adorazione del Bambino scolpita e del paesaggio dipinto sulla spalliera, la culla è un importante documento dell'attività della bottega del D.; in particolare per le grottesche, strettamente connesse con quelle del salone al primo piano del castello di Levante, tra cui la Gabrielli (1973, p. 164) sostiene di aver visto nel 1932 la firma del pittore, persa per incauti interventi di tinteggiatura (il Vacchetta aveva preso nota anche della data 1562, entro una targa dipinta, non più visibile).
In questo ciclo sostanzialmente omogeneo il monocromo è usato nella finta architettura (ravvivata da pochi inserti di colore che individuano materiali preziosi) e comprende riquadri d'argomento mitologico (in uno sono riconoscibili Diana e Atteone), cariatidi ambiguamente carnali, una trabeazione ornata di drôleries e di finissimi ritratti; sono invece a colori illusionisticamente "naturali" due grandi paesaggi di cui uno riproduce una veduta dello stesso castello; uno, più piccolo, fra erme a tre facce, si trova su un pilastro, che su un altro lato raffigura l'interno di una dispensa descritto con trasparenze e minuzie di gusto franco-fiammingo. Nelle grottesche e alle sommità delle pareti compaiono villici, boscaioli e un sileno addormentato da cui si sviluppa un albero brulicante di esseri ibridi, diavoli e giullari, quasi una disinvolta trasposizione dell'albero di Jesse. Alcuni motivi decorativi del finto loggiato paiono travasarsi nell'attiguo salone detto degli scudi (se ne intravvedono frammenti su alcune travi del soffitto) in continuità con i racemi bianchi su fondo azzurro che rivestono la parte alta del camino, da cui spicca una coppia di sirene bicaudate, anch'esse forse riferibili all'artista.
Al D. va inoltre riferita sia la decorazione, finora sconosciuta, del salone nella manica nord al primo piano, sia quella del salone al secondo piano (già segnalata dal Perotti nel 1977 e nell'80 [pp. 141-45] con una datazione troppo tarda e una proposta attributiva - per ora non giustificata - a "Carlo Dolce di Savigliano") che simulava un'apertura sull'esterno (come sembra indicare un frammento di paesaggio dietro un'alzata in stucco del camino di marmo). Sulle travi del soffitto si individuano grottesche e piccoli tondi a monocromo. Nella fascia conservata alla sommità delle pareti tra figure dalle carni terree, una flotta, un trionfo di putti spiccano, dipinte a colori vivaci entro cartigli ovali, scene delle Metamorfosi di Ovidio, ognuna delle quali è commentata da un'ottava in volgare di risonanza ariostesca. L'iconografia dei singoli episodi e i testi delle stanze derivano da La vita et metamorfoseo d'Ovidio, figurato et abbreviato informa d'Epigrammi da m. Gabriello Symeoni, edito a Lione da Jean de Tournes nel 1559 e illustrato dall'incisore l'incisore Bernard Salomon; dalle sigle tipografiche e dai bordi delle pagine figurate dell'edizione lionese sembrano derivare anche le volute stilizzate, vivaio di esseri mostruosi, analoghe a quelle presenti al primo piano del castello (cfr. anche Santanera, 1984, p. 152).
Per i diversi influssi della cultura francese (che permea anche gli stucchi della volta dello studiolo al primo piano) va tenuto in conto il Memento mori dipinto da Gaspard Maséry a Chambéry nel 1559, anno in cui fu incaricato di reintegrare sulle porte della città le insegne di Emanuele Filiberto. Le sante e grottesche a monocromo dei dipinti del museo di Chambéry sono infatti prossime ai dettagli più fini degli affreschi del D. e ad analoghi particolari del cosiddetto Guerriero romano su tela del castello di Moncalieri (inv. 1880, n. DC 37) in probabile debito verso Giacomo Rossignolo. Fondamentale in questo contesto per la sua prossimità al D. e agli inizi di Giovanni Angelo è la pala del castello di Racconigi (inv. n. 714) d'impronta filofrancese (cfr. Romano, 1982, p. 16 e 1987, pp. 8 s.).
Alcuni particolari degli affreschi dei due piani presentano stretti punti di contatto con il segno graffiato delle illustrazioni a penna del manoscritto La Sphinge dedicato da Valerio Saluzzo della Manta nel 1559 a Margherita di Valois (Torino, Biblioteca reale, Varia 266 bis). Che questi disegni possano spettare al D. (che ricordiamo iniziò la sua carriera come miniatore) è un'ipotesi seducente anche perché sulla volta del salone al primo piano del castello di Levante, accanto allo stemma di Emanuele Filiberto, è raffigurato quello di Margherita di Valois, circondato da quattro valve di conchiglie aperte a mostrare delle perle, sul cui termine latino ("margarita") si imperniano le metafore della letteratura encomiastica francese e di Valerio Saluzzo in particolare, parente e, in gioventù, compagno di studi di Benedetto Tapparelli.
Dopo il 1564 le tracce di D. si perdono; secondo il Turletti (1879-90, II, p. 842) morì intorno al 1566.
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