Pietro e Alessandro Verri
Può apparire arbitrario riunire in un unico saggio i profili dei due fratelli Verri che, soprattutto nell’età matura, si distinsero nettamente l’uno dall’altro per interessi culturali, orientamenti ideologici e atteggiamenti mentali. Ma in primo luogo, di fondamentale importanza per la conoscenza delle loro personalità è la loro opera comune, il carteggio che intrattennero bisettimanalmente (pur con una lunga interruzione tra il 1784 e il 1789) per oltre trent’anni. In secondo luogo, nel caso di Alessandro è più rilevante, dal punto di vista filosofico e ‘civile’, la produzione degli anni 1763-66, allorché viveva in una specie di simbiosi intellettuale con Pietro, di quanto non siano gli scritti successivi di carattere storico-letterario.
Pietro e Alessandro Verri nacquero a distanza di tredici anni l’uno dall’altro, rispettivamente il 12 dicembre 1728 e il 9 novembre 1741, da una famiglia patrizia milanese che proprio con il loro padre Gabriele, giurista di fama e dal 1749 membro del Senato, il supremo tribunale lombardo, uscì dall’oscurità raggiungendo nel contempo una discreta ricchezza. Entrambi i fratelli serberanno un pessimo ricordo dell’infanzia, trascorsa in un ambiente familiare arido e bigotto, e dell’istruzione ricevuta in casa e in vari collegi:
Noi quanti siamo e fummo – scriverà Alessandro ormai da vecchio, nel 1809 – abbiamo sofferta una umiliante educazione, priva di confidenza, di dolcezza, e sempre sotto il rigore, i rimproveri, in collegi molto simili a galere (cit. in Capra 2002, pp. 69-70).
Pietro terminò gli studi nel collegio gesuitico di Parma, uno dei più rinomati seminaria nobilium nell’Italia del tempo; Alessandro conseguì la laurea in giurisprudenza a Pavia nel giugno 1760 ed esercitò poi per due anni (come già aveva fatto Pietro) la carica di protettore dei carcerati.
Tornato in famiglia nel 1749, il primogenito Pietro, giovane di indole orgogliosa e ribelle, che aveva maturato ambizioni letterarie e un gusto per la scienza newtoniana, si scontrò subito con i genitori e con lo zio monsignore e primicerio della cattedrale, legati al culto della stirpe, a un sapere tradizionale e a una religiosità angusta e tutta esteriore. Tra i motivi del conflitto erano la sua smania di frequentare il teatro, le «conversazioni» della buona società milanese e, soprattutto, la sua relazione con una nobildonna altolocata e più anziana di lui, la romana Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni. «Era brutta e m’ha coglionato solennemente», scriverà Pietro ad Alessandro ricordando di essere stato piantato dalla duchessa per un altro corteggiatore (lettera del 18 luglio 1767, in Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi, A. Giulini, 1° vol., t. 2, 1923, p. 424); ma riconoscerà più tardi il proprio debito verso la gentildonna, che ne aveva dirozzato i modi e coltivato la mente, facendogli conoscere la «bella letteratura francese» (cit. in Capra 2002, p. 109).
Questa delusione e la crescente sazietà per i riti e i passatempi della società nobiliare lo spinsero a chiedere un brevetto di capitano nell’esercito austriaco e a partire volontario per il fronte della guerra dei Sette anni, che si combatteva contro la Prussia di Federico II. L’esperienza del pericolo e delle durezze della vita militare, il contatto con popoli e Paesi diversi, l’amicizia nata fra lui e un ufficiale gallese di grande ingegno e di forte personalità, Henry Lloyd, le letture fatte durante le lunghe pause fra le marce e le battaglie (di cui fecero parte certamente i grandi libri di Montesquieu, Emmerich de Vattel e Claude-Adrien Helvétius) temprarono il suo carattere e gli allargarono la mente, stimolando il suo interesse per i grandi problemi dell’economia e della politica. Quando nel gennaio 1761 fece ritorno a Milano, dopo un intero anno trascorso a Vienna nella vana speranza di ottenere un impiego civile, Pietro era deciso ad aprirsi una via nuova verso le pubbliche carriere, diversa da quella tradizionale della giurisprudenza che gli additava suo padre. Il manoscritto delle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, accolto favorevolmente dalle autorità viennesi e in particolare dal cancelliere Wenzel Anton von Kaunitz, gli procurò nel gennaio del 1764 la nomina a membro di una Giunta incaricata di esaminare i problemi finanziari dello Stato di Milano, cui fece seguito, nel novembre del 1765, il conferimento della duplice carica di consigliere in un dicastero di nuova istituzione, il Supremo consiglio di economia, e di rappresentante regio nella direzione della Ferma (o appalto) generale delle imposte indirette.
Nel frattempo, in mezzo alle «noiosissime seccature domestiche», Pietro aveva avuto la sorpresa di trovare un ammiratore e un’anima gemella nel fratello minore Alessandro, ormai ventenne. Attorno ai due cominciò a radunarsi, nell’inverno 1761-62, un gruppo di giovani nobili, tutti in polemica contro il costume e il sapere dei padri, che si ritrovava la sera in casa dei Verri per discutere, giocare, leggere in comune gli scrittori francesi e inglesi.
Di questa piccola società, battezzata dalla voce pubblica Accademia dei Pugni, facevano parte Cesare Beccaria, Giuseppe Visconti di Saliceto, Luigi Lambertenghi, il cremonese Giambattista Biffi e il lecchese Alfonso Longo. Fu Pietro Verri, il più anziano e il leader riconosciuto del sodalizio, a suggerire a Beccaria il tema del suo capolavoro, Dei delitti e delle pene (1764), a pilotarne la scrittura e poi a gestirne l’enorme fortuna europea. E fu ancora lui a progettare e dirigere l’impresa del «Caffè», la rivista degli illuministi milanesi che si pubblicò per due anni, dal 1764 al 1766.
Anche il viaggio a Parigi di Beccaria e Alessandro Verri nell’autunno 1766 fu voluto e organizzato da Pietro, che intendeva stabilire un rapporto diretto con la capitale dei lumi. Mentre Alessandro con le sue vivacissime lettere-reportage dava inizio a quel fitto carteggio con il fratello cui si è sopra accennato, il precipitoso ritorno a Milano del suo compagno e lo scarso rispetto da lui dimostrato per l’amor proprio dei due Verri portarono a una rottura solo in parte e dopo molti anni sanata. Intanto l’allontanamento di altri soci dei Pugni (Biffi, Longo) e il crescente assorbimento di Pietro nei pubblici affari avevano portato di fatto allo scioglimento del sodalizio che aveva reso celebre in Europa l’école de Milan, nonostante il tentativo di Pietro di tenerlo in vita con un’altra pubblicazione periodica, l’«Estratto della letteratura europea» (1766-68).
Alessandro proseguì da solo il viaggio per l’Inghilterra e, dopo essere ripassato nel febbraio-marzo 1767 da Parigi, in primavera fece ritorno in Italia. Da Livorno, dove avviò la stampa, poi interrotta, del Saggio sulla storia d’Italia, passò a Roma; qui si innamorò, ricambiato, di una gentildonna sposata, ma separata dal marito, Margherita Sparapani Boccapaduli Gentili, e a questa catena resterà avvinto tutta la vita, nonostante gli inviti e i rimproveri del fratello che avrebbe voluto riportarlo a Milano. A Roma si dedicò allo studio dei classici greci e latini e alla composizione di opere teatrali e di romanzi archeologici, in cui si riflette un atteggiamento conservatore ormai agli antipodi rispetto alle posizioni di Pietro. A Roma Alessandro morirà il 23 settembre 1816, quasi vent’anni dopo il fratello maggiore.
Dal canto suo quest’ultimo profuse nei tardi anni Sessanta le sue migliori energie nella collaborazione con il governo asburgico, in particolare per la progettazione e l’attuazione di due grandi riforme, la liberalizzazione del commercio dei cereali, con la connessa riforma annonaria, e il riscatto delle regalie alienate (cioè delle entrate dello Stato cedute nei secoli a corpi o a privati che le riscuotevano per proprio conto). Nel 1771 un suo viaggio a Vienna, dove sperava di ottenere la promozione a capo delle finanze milanesi, si concluse con una sconfitta (il posto andò al suo ex amico, e ora rivale, Gian Rinaldo Carli). Rimasto semplice consigliere (poi vicepresidente) del Magistrato camerale, l’organo che aveva preso il posto del Consiglio di economia, Verri perse interesse agli affari politici ed economici e ripose le sue insopprimibili ambizioni di emergere e primeggiare, come vedremo, nella filosofia e nella storia. Egli decise inoltre di fondare una propria famiglia, dove avrebbero regnato l’affetto e il rispetto reciproco tra i coniugi e tra genitori e figli, contrariamente a quanto era stato nella sua famiglia d’origine. La nascita di una femmina dal suo matrimonio con Maria Castiglioni (1776) gli ispirò una delle sue opere più intime e più belle, i Ricordi a mia figlia (1777); e alla nidiata di bambine nata dalle seconde nozze con Vincenza Melzi (1782) sono dedicati alcuni dei passi più commoventi del carteggio con il fratello Alessandro.
La promozione a presidente del Magistrato camerale (fine 1780) coincise con l’ascesa al trono di Giuseppe II, verso le cui incalzanti riforme, soprattutto in campo ecclesiastico, Pietro Verri manifestò in un primo tempo pieno consenso. Verso la metà degli anni Ottanta, tuttavia, ai già esistenti motivi di crisi nella sua esistenza (l’incipiente sordità, la morte del migliore amico Paolo Frisi, la lacerante lite con i fratelli minori a causa dell’eredità paterna) si aggiunse la precoce messa a riposo, a seguito dei cambiamenti introdotti da Giuseppe II nelle strutture di vertice della Lombardia austriaca (1786). Il risultato fu il definitivo abbandono da parte di Verri del modello dell’assolutismo illuminato, premessa alla sua entusiastica adesione alle parole d’ordine rivoluzionarie di libertà e uguaglianza. I suoi scritti più tardi delineano nel loro insieme un programma politico repubblicano e costituzionale, con chiare aperture in direzione di un’Italia unita, che fa di Pietro Verri uno dei padri spirituali del Risorgimento liberale e democratico. Pietro morì il 28 giugno 1797 durante una seduta notturna della Municipalità di Milano, di cui era membro.
La produzione edita e inedita di Pietro Verri si caratterizza innanzi tutto per una grande varietà di contenuti e di toni, e per il succedersi nella sua carriera di scrittore di diversi interessi, ai quali si è già accennato. Il primo decennio della sua vita adulta (1749-59) è contrassegnato dalla prevalenza dell’esercizio letterario, svolto in parte nell’ambito dell’Accademia dei Trasformati, sia in verso (come nei martelliani di La vera commedia, 1755, difesa e illustrazione della riforma teatrale goldoniana) sia in prosa, per es. nell’introduzione alla traduzione italiana in quattro volumi del teatro di Destouches (per opera della duchessa Serbelloni, 1754-55), e in un abbozzo di romanzo autobiografico ancora inedito, scritto in francese, Histoire du comte de Serville. Ma già alla fine di questo decennio si fa luce in Verri la vocazione aforistica e satirica, in diverse raccolte di pensieri in francese (Sur la galanterie, Pensées diverses sur l’amour, Pensées détachées) e in due almanacchi per gli anni 1758 e 1759 intitolati entrambi Il Gran Zoroastro, dove sotto il velo delle predizioni astrologiche sono messi alla berlina letterati e pedanti, maestri di scuola maneschi e medici alla moda.
L’esperienza militare e il lungo soggiorno viennese del 1760 costituiscono uno spartiacque nella scrittura come nella vita di Pietro Verri. Una riconoscibile linea di continuità lega certo gli almanacchi per il 1758 e per il 1759 ai nuovi almanacchi che egli pubblicò nel 1762 (un terzo Gran Zoroastro, dedicato alla questione monetaria), e nel 1763-64 (Il mal di milza e un ultimo Gran Zoroastro); e la vena satirica continuò a esprimersi in altri scritti del 1763 (quali la Cronaca di Cola de li Piccirilli e la Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese), nei fogli del «Caffè» e nell’ancora inedito zibaldone intitolato La ragione in maschera o Il Democrito (1764-68 circa).
Al «Caffè» Pietro contribuì massicciamente, oltreché come organizzatore e direttore, come autore, con ben 44 articoli tra le due annate. Si trattava in parte della riproposizione o rielaborazione di scritti anteriori, come è il caso degli Elementi del commercio, delle Considerazioni sul lusso, delle Delizie della villa e di una decina di «pensieri staccati»; in parte di interventi a commento o cucitura di altri contributi; ma assai maggiore è il numero degli scritti originali, in cui, come era nel programma della rivista, si alternano il serio e il faceto, le osservazioni di costume e le divagazioni fantastiche, i temi letterari e quelli economici, scientifici e giuridici. In saggi come Pensieri sullo spirito della letteratura in Italia, Dell’onore che ottiensi dai veri uomini di lettere, Ai giovani d’ingegno che temono i pedanti, egli riprendeva la polemica del fratello contro i pedanti e i parolai, contro chi pretendeva di dettare regole in materia di letteratura o di arte, e si pronunciava per una completa libertà espressiva, per una ricerca del sublime anche non scevro di difetti. La critica del costume aristocratico e dei vacui riti mondani anima gustosi quadretti (La festa da ballo, I tre seccatori, Badi, novella indiana) cui si contrappone la scelta di un vivere sociale più libero e sciolto (Le delizie della villa, Pensieri sulla solitudine, La buona compagnia). Non manca la polemica, già presente negli almanacchi, contro gli uomini di legge e i medici ignoranti e presuntuosi (Dialogo tra un Mandarino chinese e un sollecitatore, La medicina, Lettera di un medico polsista) e a favore invece della nuova pratica dell’inoculazione antivaiolosa (Sull’innesto del vaiuolo). Ma anche la «libertà politica», intesa alla maniera di Montesquieu come l’opinione che ogni cittadino ha di possedere quello che è suo e di poterne disporre a suo piacere e condizionata dalla divisione dei poteri, fa la sua comparsa nel saggio Sulla interpretazione delle leggi, dove si chiariscono altresì i limiti dell’adesione di Verri al dispotismo illuminato:
Il solo dispotismo stabilmente utile, anzi necessario per la prosperità d’una nazione è il dispotismo delle leggi; il vero dispotismo propriamente detto, cioè il volere assoluto e independente d’un solo, non è utile che passaggero nelle nazioni corrotte per ricondurle ai loro principi («Il Caffè», 1764-1766, a cura di G. Francioni, S. Romagnoli, 1993, p. 699).
Ma fin dal saggio composto a Vienna nel 1760 e poi rielaborato per «Il Caffè» (con il titolo di Elementi del commercio) si manifesta un interesse per la nascente scienza economica che diede i frutti migliori nelle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano (1761-63) – dove al quadro storico dei fattori che portarono l’economia lombarda alla perdita dell’«antica opulenza» nei secoli 16°-18° tien dietro la proposta dei rimedi da adottare, sostanzialmente identificati con la libertà da vincoli e monopoli d’ogni specie e con l’abbattimento dei privilegi e dello «spirito curiale» –, e poi nella serie di scritti annonari dei tardi anni Sessanta, in particolare il progetto Sull’annona dello Stato di Milano, redatto nella primavera-estate del 1767, e le Riflessioni sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio de’ grani, del 1769. I principi che servono di base alla dimostrazione delle tesi radicalmente liberiste ivi sostenute furono poi rielaborati da Verri in un’opera teorica dettata al suo amanuense in due settimane nell’ottobre 1770, e pubblicata a Livorno nel marzo 1771: le Meditazioni sulla economia politica, che ebbero varie edizioni italiane e furono presto tradotte in francese e in tedesco.
Agli influssi di Jean-François Melon, Richard Cantillon, François-Louis Véron de Forbonnais, David Hume si aggiunge ora quello della scuola fisiocratica; ma di questa l’autore respinge il dogma dell’agricoltura come unica fonte del prodotto netto; così come respinge, coerentemente, la qualifica di «classe sterile» per gli addetti all’industria e al commercio e la teoria dell’imposta unica sulla terra. Dai precedenti saggi in materia annonaria sono tratte la definizione del denaro come «merce universale», la teoria del prezzo come espressione del rapporto tra numero dei venditori e numero dei compratori e l’identificazione della ricchezza delle nazioni con l’eccesso dell’«annua riproduzione» sull’«annua consumazione»; ma questi assiomi sono ora inseriti in una visione storica dell’evoluzione della società dallo stato di natura alle nazioni colte ed evolute, presso le quali la moltiplicazione dei bisogni produce la crescita degli scambi:
Il bisogno, cioè la sensazione del dolore, è il pungolo col quale la natura scuote l’uomo e lo desta da quell’indolente stato di vegetazione, in cui senza questo giacerebbe (P. Verri, I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza, 2005, p. 295).
Non è qui possibile seguire nei particolari la serrata trattazione verriana di temi come la viziosa distribuzione delle ricchezze, la nocività dei vincoli, dei monopoli, delle leggi proibitive, i problemi della moneta, del credito, del saggio di interesse, la popolazione, la sua distribuzione e la sua divisione in classi economiche, l’agricoltura e la critica del sistema irrigatorio, le finanze e i tributi (dove i cinque ‘canoni’ verriani presentano una grande affinità con i quattro principi indicati di lì a poco da Adam Smith), le descrizioni finali dei «caratteri» di un ministro di economia e di un ministro di finanza. Dal punto di vista della storia del pensiero economico merita citare il giudizio di Joseph Alois Schumpeter, secondo cui il nome di Pietro Verri andrebbe incluso in qualsiasi elenco dei più grandi economisti di ogni epoca. In una considerazione complessiva degli apporti verriani a una teoria della società e dello Stato, vale l’osservazione di Pier Luigi Porta e Roberto Scazzieri, secondo cui la sua prospettiva intellettuale
è complessivamente assai più coerente con il suo tardo costituzionalismo piuttosto che con i suoi precedenti pronunciamenti a favore dell’assolutismo illuminato (P.L. Porta, R. Scazzieri, Il contributo di Pietro Verri alla teoria economica. Società commerciale, società civile e governo dell’economia, in Pietro Verri e il suo tempo, 2° vol., 1999, p. 834).
Si può applicare a quest’ultimo concetto quanto Verri scrive circa la necessità che una «benefica riforma» sia diretta da una sola mente:
Convien dunque nell’economia politica, singolarmente quando si tratti di ridurla a semplicità, riformando i vecchi abusi, convien, dico, creare un dispotismo che duri quanto basta ad aver messo in moto regolarmente un provvido sistema (I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, cit., p. 420).
Come già nei fogli del «Caffè», la sua visione è quella di una futura società di liberi e di eguali, tesa all’incremento del comune benessere grazie alla moltiplicazione degli scambi e al perseguimento dell’individuale tornaconto da parte di ciascun membro, in un quadro di incentivi e di regole dettati da una pubblica autorità illuminata dalla ragione.
Dopo la sconfitta subita a Vienna nel 1771, alla quale si è già accennato, la volontà di emergere di Verri si trasferì alla Repubblica delle Lettere, nella quale egli sperava di ottenere un «nome europeo» grazie ai suoi studi di carattere filosofico e storico. Il primo risultato di questo nuovo orientamento fu l’operetta intitolata Idee sull’indole del piacere nella prima edizione del 1773, e il Discorso sull’indole del piacere e del dolore nella versione riveduta del 1778 per la raccolta dei Discorsi.
Le tesi dell’origine del piacere dalla cessazione del dolore e del prevalere della somma dei mali su quella dei beni nella vita dell’uomo non erano originali: Verri poteva trovarle nell’Essay concerning human understanding (1690) di John Locke, da cui trae in particolare il concetto di uneasiness, inquietudine, nell’inedito Essai sur l’homme del suo amico Lloyd e nell’Essai de philosophie morale (1749) di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, ispiratore delle considerazioni sulla differenza tra piaceri e dolori fisici e morali. Ma altri autori che ebbero un’influenza determinante sulla sua riflessione sono Étienne Bonnot de Condillac e Helvétius. Verri aggiunse di suo il requisito della rapidità nella cessazione del dolore perché da essa nasca un piacere: «Il piacere nasce dunque dalla rapida cessazione del dolore; ed è tanto maggiore quanto lo fu il dolore, e più rapido l’annientamento di esso» (I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, cit., p. 87). Per questo i dolori superano sempre i piaceri nella vita umana, perché molti dolori attenuandosi lentamente, oppure ottundendo la sensibilità, non danno luogo a sensazioni piacevoli; insomma, data la natura primaria del dolore e secondaria del piacere, «il piacere per sua natura debb’essere breve [...] laddove il dolore può essere tanto lungo e durevole, quanto la vita che ci può togliere» (p. 147). A questa sorta di pessimismo antropologico, che si esprime qua e là con accenti quasi leopardiani, si contrappone però la considerazione, già presente come si è visto nelle Meditazioni sull’economia politica, che
il bene nasce dal male, la sterilità produce l’abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l’ingegno, la somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il motore di tutto l’uman genere (pp. 134-35).
Sulla trama dolorosa delle esistenze individuali s’intesse l’ordito del progresso economico e civile come effetto del «pungolo del bisogno» e degli sforzi congiunti degli uomini uniti dal vincolo sociale; il primato del dolore si capovolge nella ricerca della possibile felicità.
Le giovanili Meditazioni sulla felicità (1763) erano espressione di una fase della vita di Verri contrassegnata dal rafforzamento della fiducia in se stesso e dall’affermazione delle speranze di mutamento in meglio. Se la felicità privata è raggiungibile dal saggio mediante un accorto equilibrio tra i desideri e i mezzi per soddisfarli, cioè con una condotta di vita regolata e una realistica valutazione dei propri simili, ben più vasto è il campo che si apre per il conseguimento della pubblica felicità, che consiste, afferma l’autore riprendendo una formula di Francis Hutcheson, nella «maggiore felicità possibile divisa colla maggior uguaglianza possibile» (P. Verri, Meditazioni sulla felicità, a cura di G. Francioni, 1996, p. 61); si tratta di non opporre ostacoli al dilatarsi dello spirito filosofico,
il quale sormontando gli argini ormai logori, sebben difesi tuttora da chi trova rendite ne’ pubblici disordini, innaffierà colle acque sue fecondatrici la terra (pp. 69-70).
Alla diffusione dei lumi e della prosperità tien dietro infallibilmente la libertà: «Tale è il moto che in questo secolo ha l’Europa, che con fondamento prevede il saggio che la libertà delle nazioni sia per dilatarsi» (pp. 72-73). Rielaborando il testo quindici anni più tardi, in vista della sua inclusione nella raccolta dei tre Discorsi, Pietro Verri fa sostanzialmente un’opera nuova, anche se i riferimenti filosofici rimangono più o meno gli stessi, da Locke a Condillac, da Montesquieu a d’Alembert, da Jean-Jacques Rousseau a Helvétius: nuova non solo per la mole, triplicata rispetto alle Meditazioni del 1763, ma per il tono, che si fa ora pacato e discorsivo, diretto a convincere piuttosto che a stupire, e per l’ispirazione generale, che riflette i mutamenti intervenuti nella visione degli uomini e delle cose propria dell’autore. Il punto di partenza è ora il riconoscimento, mutuato dalle Idee sull’indole del piacere, che nella vita umana «sempre la somma delle sensazioni dolorose […] sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli», e che dunque «la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno»; ciò che l’uomo può fare è nella misura del possibile «allontanarsi dalla infelicità» (I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, cit., pp. 197-99). L’accento cade così sulla necessità di tenere a freno il desiderio di ricchezze e la ricerca dei piaceri, di indirizzare l’ambizione della gloria, piuttosto che verso le armi o il potere, verso «la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti» (p. 210); di questa precettistica assai tradizionale fa parte l’elogio della virtù, verso cui tendono spontaneamente
quelle anime nobili e sublimi […] che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato! (p. 229).
Se la piena conformità delle leggi al benessere collettivo gli appare ora come «un’immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità dell’uomo» (p. 243), l’autore trova conforto nella considerazione che «i mezzi per sottrarsi all’infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi» (p. 264). Al generale disincanto, alla perdita delle giovanili illusioni sopravvive così una sia pur problematica fede nel progresso, la convinzione che
nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate, se non quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura (p. 272).
Il posto centrale che Verri assegna nel trittico dei Discorsi al Discorso sulla felicità si spiega, come osserva Gianni Francioni, con la «importante funzione di cerniera» da esso svolta,
per condurre ordinatamente il lettore dall’analisi del piacere e del dolore e dall’affermazione della determinante preminenza di questo nella vita umana, all’individuazione dei modi in cui, diminuendo la somma dei dolori, ci è consentito di vivere una vita il meno infelice possibile, alla traduzione pratica, infine, di tali principi entro la dimensione politica ed economica che può consentire la felicità collettiva (G. Francioni, Metamorfosi della “Felicità”. Dalle “Meditazioni” del 1763 ai “Discorsi” del 1781, in Pietro Verri e il suo tempo, 1° vol., 1999, p. 379).
Nel frattempo Verri aveva trovato nello studio della storia una conferma della maggiore infelicità dei tempi passati rispetto ai presenti. L’11 gennaio 1777 confidava al fratello Alessandro:
Io ho travagliato ne’ giorni scorsi sopra un argomento sul quale mi trovava ad aver ammassato roba sino al tempo felice de’ nostri studi, cioè sulla tortura (Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, cit., 8° vol., 1934, p. 242).
Fin da allora egli era stato colpito dal famoso processo agli untori del 1630-31, e il raccapriccio per quell’orrendo episodio era stato in seguito accresciuto dalla lettura di una copia del verbale del processo.
A spingerlo a prendere in mano la penna per raccontarlo e trarne la morale erano state la sollecitazione dell’imperatrice Maria Teresa (gennaio 1766) ad abolire anche in Lombardia la tortura giudiziaria, come già era avvenuto negli Stati ereditari asburgici, e la risposta negativa del Senato di Milano, la cui consulta era stata stesa nell’aprile 1776 proprio dal padre del nostro, Gabriele Verri. Nell’iniziativa di Pietro Verri si può dunque vedere anche una polemica implicita verso il genitore, benché egli prendesse fin dall’inizio la decisione di non esasperare il loro contrasto pubblicando l’opera. È probabile che una prima stesura delle Osservazioni si limitasse a seguire passo passo lo svolgimento del processo che portò al supplizio di un commissario alla sanità e di un barbiere, accusati di avere fabbricato e sparso un unguento malefico, e che solo in seguito l’autore aggiungesse l’introduzione sull’epidemia del 1630, la suddivisione in capitoli e la dimostrazione teorica, condotta con dovizia di citazioni dai testi giuridici, dell’assurdità e dell’inefficacia della tortura, cui gli imputati erano stati ripetutamente sottoposti per estorcere loro una confessione. I giudici stessi soggiacquero secondo Verri a un’allucinazione collettiva concepibile solo in un’epoca di fanatismo e di barbarie, mentre nella più tarda visione di Alessandro Manzoni (Storia della colonna infame) essi ed essi soli portano la responsabilità degli errori e degli orrori commessi.
La stesura delle Osservazioni rafforzò l’interesse di Pietro per la storia patria, che già aveva trovato alimento nella raccolta di monete da lui intrapresa. Il minuzioso spoglio dei dodici volumi delle Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e della campagna di Milano ne’ secoli bassi del suo amico Giorgio Giulini (1760-1774) e di altre cronache e descrizioni della Milano medievale servì di base a Verri per stendere, tra il 1779 e il 1780, i quattordici capitoli che compongono il primo volume della Storia di Milano, i quali ricostruiscono le vicende della città dalla fondazione alla fine del regime visconteo (1447). Il libro uscì solo nel 1783, a causa del ritardo provocato dalla prostrazione dell’autore per la morte della prima moglie (1781), e poi dello scompiglio provocato dalle sue seconde nozze e dal decesso del padre Gabriele (1782). L’autore aveva in animo di proseguire il racconto fino alla metà del 18° sec., ma la tiepida accoglienza riservata dai concittadini al primo volume e la crisi che lo colse, per i motivi già illustrati, negli anni centrali del decennio 1780-90 lo indussero ad abbandonare il lavoro dopo il capitolo XXIII, alla vigilia della battaglia di Pavia del 1525. Il secondo volume, condotto avanti dall’amico Anton Francesco Frisi fino all’età borromaica compresa, sarebbe stato pubblicato postumo nel 1798.
Per giudizio concorde degli studiosi la Storia di Milano non è una delle opere più felici di Pietro Verri; l’intenzione di scrivere una «storia filosofica», e non un’opera di semplice erudizione, si traduce troppo spesso in una meccanica «contrapposizione fra la felicità e ragionevolezza dei tempi presenti e la miseria e la barbarie dei passati» (Diaz 1973, p. 414); e le digressioni sull’economia, la popolazione, i costumi, la cultura, la gastronomia dei milanesi del Medioevo non suppliscono all’assenza di una vera ricerca sui nessi tra un fenomeno e l’altro né rimediano al prevalere di un giudizio moralistico sulle virtù e i vizi dei vari protagonisti della storia. Si salvano dal generale grigiore alcuni capitoli, come il primo in cui Verri confuta le ricostruzioni fantasiose delle origini di Milano mettendo al primo posto i fattori fisico-geografici, o il settimo sulla lotta dei milanesi contro Federico Barbarossa; e si evidenzia un esile filo conduttore, non sufficiente però a dare organicità all’opera, nella condanna delle ingerenze papali nella vita cittadina e nella denuncia delle malefatte dell’Inquisizione e in genere del fanatismo religioso.
Tra il 1781 e il 1790 Pietro Verri non diede più mano a opere di lunga lena, e non pubblicò altro che le Memorie appartenenti alla vita ed agli studi del signor Don Paolo Frisi (1787), doveroso omaggio all’amico prematuramente scomparso, ma anche orgogliosa rivendicazione dei meriti degli intellettuali, dei filosofi, i quali
contraddetti, perseguitati durante la loro vita, determinano alla perfine l’opinione; la verità si dilata, da alcuni pochi si comunica ai molti, da questi ai più; s’illuminano i Sovrani, e trovano la massa de’ sudditi più ragionevole e disposta ad accogliere tranquillamente quelle novità, che senza pericolo non si sarebbero presentate fralle tenebre della ignoranza (P. Verri, Scritti politici della maturità, a cura di C. Capra, 2010, pp. 218-19).
Verri continuò però a scrivere, con particolare intensità dopo la sospensione del carteggio con Alessandro che gli era servito finora da valvola di sfogo, memorie sulle questioni familiari, abbozzi autobiografici, profili di personaggi pubblici, riflessioni sulla società milanese e le sue varie componenti (nobili, ecclesiastici, professionisti). Di questa vasta e varia produzione, rimasta fino a poco tempo fa largamente inedita, possiamo ricordare solo alcuni titoli particolarmente significativi: le Memorie sulle disensioni e divisioni della famiglia Verri dopo la morte del conte Gabbriele Verri seguita nel 1782, scritte l’anno 1788 dal conte Pietro Verri (P. Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, 2003, pp. 515-46), la memoria intitolata Ornago, 12 luglio 1788 (pp. 547-53), la Memoria del Conte Pietro Verri in cui si espongono i motivi per i quali venne impiegato e poi dopo vent’anni congedato (pp. 559-66), i saggi Sulle sepolture, sulla società milanese, sulla milizia (P. Verri, Scritti politici della maturità, cit., pp. 335-44), le Idee politiche del Conte Pietro Verri da non pubblicarsi, messe insieme nel 1790 ma contenenti per la maggior parte scritti degli anni Ottanta, e al loro interno in particolare il Dialogo fra Giuseppe II e un filosofo (pp. 444-53), il Dialogo fra Pio VI e Giuseppe II a Vienna (pp. 454-60), i Pensieri politici sulla Corte di Roma e sul Governo veneto (pp. 472-85), i Ricordi disinteressati e sinceri d’un uomo dabbene (pp. 488-506).
Nel complesso di questi scritti, espressione di una crisi profonda nell’esistenza di Verri, sono da sottolineare da un lato l’esaltazione delle proprie virtù e delle proprie benemerenze in contrapposizione all’altrui viltà e dappocaggine, quasi a costruire di se stesso un’immagine stoica ed eroica, non priva di connotati alfieriani; dall’altro la progressiva presa di distanza non solo dalla società milanese, ma anche dal modello dell’assolutismo illuminato in cui Verri aveva continuato a riporre le proprie speranze nei primi anni di regno di Giuseppe II.
A trarlo da questa crisi sopraggiunse, in coincidenza cronologica con la composizione delle dolorose vertenze familiari e con la ripresa dei rapporti epistolari con Alessandro, la Rivoluzione francese, alle cui parole d’ordine Pietro aderì immediatamente con un entusiasmo che non venne del tutto meno neppure di fronte al regicidio e al regime del Terrore. In una sorta di bilancio tracciato a beneficio del fratello il 23 agosto 1794, dopo la caduta di Maximilien-François-Isidore de Robespierre, così Verri esprimeva il proprio punto di vista:
Si è creduto comunemente che la rivoluzione francese fosse l’opera di alcuni faziosi che guidassero la nazione […]. Io sin da principio formai l’opinione che la cagione del fenomeno fosse un sentimento universale del popolo. Ma qual sentimento? Un ribrezzo violento verso degli oppressori, una vergogna d’aver portato il giogo dei prepotenti, un entusiasmo di lavarsi dalla macchia coll’audacia d’imprese illustri. […] La rivoluzione di Francia nasce da uno spontaneo movimento della grande pluralità del popolo, non mai dalla minorità d’alcuni che conducano la pluralità. Questa pluralità conosce che nel tempo de’ pericoli forza è che il potere stia nelle mani di pochi per l’uniformità, prestezza e secreto, e che siavi un governo dittatoriale, e l’ha fondato; ma precipita chi ne abusa, e sempre il popolo veglia (Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di S. Rosini, in Opere, 8° vol., t. 2, 2008, p. 824).
Tra gli scritti verriani sulla Rivoluzione francese, particolare rilievo ha una sorta di catechismo rivoluzionario composto nel 1791, i Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, comprendenti quattro dialoghi di cui il primo tratta del fondamento e della natura del governo, il secondo della libertà, mentre il terzo e il quarto vertono su «i mezzi, co’ quali si possa condurre gradatamente un popolo alla libertà». Per libertà si intende ora non solo la «libertà civile», che può aversi anche sotto un governo dispotico, ma la libertà politica, che «non si può godere se non sotto di una Constituzione» (P. Verri, Scritti politici della maturità, cit., p. 642), cioè un sistema rappresentativo fondato su libere elezioni, che rende anche superflua la presenza di un re: «la Nazione è il tutto; il Governo è una parte; dalla Nazione adunque dipende cambiare il suo governo e stabilire la libertà» (p. 634). Il successo della «rivoluzione dei Lumi» nella Francia del 1789-91 è garanzia della bontà di questa formula, nella cui analisi Verri sembra in più punti riecheggiare il pensiero di Emmanuel-Joseph Sieyès. Ma il problema che lo assilla, e che occupa gran parte dell’operetta, è come si possa predisporre ad accogliere le nuove idee un «popolo corrotto» come quello italiano, abbrutito da secoli di ignoranza, di servitù e di fratismo; poiché è chiaro ormai che il referente non è più la piccola patria milanese o lombarda, ma l’Italia tutta, che oggi «è oggetto del disprezzo dell’Europa» (p. 629) e cui occorre restituire «un principio d’onore», «un culto pubblico di virtù» (p. 635). Essenziale è per questo l’opera dei filosofi e dei letterati, i quali devono ora rivolgere la loro satira e la loro critica demolitrice contro i vizi nazionali, contro la superstizione e contro lo spauracchio degli apparati militari, ultimo baluardo dei regimi dispotici, senza scoraggiarsi per lo stato di abiezione presente:
L’Inghilterra un tempo rozza e barbara, ora è la maestra dell’Europa. L’Italia un tempo domatrice d’Europa, maestra, signora de’ popoli, ora giace nel letargo e nell’abiezione. E perché da quest’abiezione non potrebb’ella mai risorgere? E perché non potrebb’ella aprir gli occhi dopo il lungo sonno? (pp. 654-55).
Quanto di chimerico poteva esserci in queste previsioni di una rapida conversione delle masse alle nuove idee verrà smussato e ridimensionato da Verri al contatto con la dura realtà dell’occupazione francese, propiziata dalle vittorie di Napoleone Bonaparte nella primavera del 1796, e con la propaganda demagogica e radicale (in senso egualitario) dei giacobini nostrani. Ma la sua polemica, espressa tra l’altro nella collaborazione a uno dei più autorevoli organi della stampa democratica, il «Termometro politico della Lombardia», e nella redazione di una Storia dell’invasione de’ francesi repubblicani nel Milanese nel 1796, è tutta interna al nuovo ordine repubblicano, di cui non vengono più messi in discussione, ma reinterpretati in senso moderato, i principi di libertà e di uguaglianza giuridica. L’ultimo scritto di Verri, Lettera del filosofo N.N. al monarca N.N., pubblicato sul «Termometro politico» il giorno stesso della morte, 28 giugno 1797, conteneva questa frase: «Il vivere è noioso, o si viva co’ superiori, o cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammette società, gioia, cordialità» (p. 845).
Nei suoi scritti giovanili Alessandro Verri si mostrò non meno capace del fratello maggiore di padroneggiare diversi temi e registri, dalla satira e dalla buffoneria alla pittura di costume, dalla trattazione impegnata di problemi giuridici e filosofici alla narrazione storica di stile voltairiano. A parte le arringhe in difesa dei carcerati di cui era protettore, il suo esordio come scrittore fu rappresentato da un intervento, Riflessioni in punto di ragione sopra il libro intitolato: Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano, a sostegno di Beccaria nella polemica sul disordine monetario del 1762, firmato P.P.I.C, in cui fingeva di dar ragione ai suoi avversari esagerandone le assurdità e lo stile contorto e cruschevole. Vi fu chi prese sul serio lo scherzo, e ci rimase male quando seppe che la sigla posta nel frontespizio significava «Pascolo per i coglioni». Non venne invece stampato un Saggio sulla morale cristiana composto nel 1763, in cui Alessandro, con trasparente riferimento alla propria famiglia, stigmatizzava l’ipocrisia e il bigottismo di una religiosità tutta esteriore e l’eccesso di severità nell’educazione dei figli, con costanti riferimenti alla morale evangelica che impartiva insegnamenti molto diversi.
La partecipazione di Alessandro all’esperienza del «Caffè» fu di poco inferiore a quella del fratello a giudicare dal numero dei rispettivi contributi (31 contro 44). E fu qui che comparvero alcune delle sue pagine più note e più citate in materia di letteratura e di lingua, come la Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, il Saggio di legislazione sul pedantismo e Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni. Ma altrettanto feconda fu la sua vena di osservatore ironico e disincantato della realtà sociale, da cui sgorgarono pezzi deliziosi come Le riverenze, la Conversazione tenutasi nel caffè, il Commentariolo di un uomo che ha ragione sulla definizione: L’uomo è un animale ragionevole, nel quale ultimo ricorre per la prima volta il detto «L’uomo non si muta» («Il Caffè», 1764-1766, cit., p. 645) divenuto poi una sorta di leitmotiv negli scritti di Alessandro.
Non meno numerosi e di mole spesso maggiore sono tuttavia gli articoli di argomento giuridico, economico o filosofico-morale: tra gli esempi migliori il Discorso sulla felicità dei Romani, Di Giustiniano e delle sue leggi, Alcune riflessioni sull’opinione che il commercio deroghi alla nobiltà, Di Carneade e di Grozio, Di alcuni sistemi del pubblico diritto, La virtù sociale. Circola in questi saggi una volontà di «conquistar paese alla ragione» (p. 751) non meno evidente di quella che permea gli scritti di Pietro o di Beccaria, sebbene più intinta di scetticismo, più condizionata da un’antropologia negativa e da una «fenomenologia del disimpegno», secondo la felice formula di Marco Cerruti (1969, p. 19).
La transizione dai giovanili ideali enciclopedici e razionalistici a «una visione del mondo meno progressista», alla «lenta cristallizzazione di un moralismo amaro» (Musitelli 2010, p. 240) si compie nel Saggio sulla storia d’Italia che Alessandro Verri compose tra il 1764 e il 1766, prima del viaggio a Parigi e a Londra. L’intento di questo vero e proprio tour de force, consistente nello sforzo di condensare in un solo libro ventidue secoli di storia, dalla fondazione dell’antica Roma al 18° sec., era quello stesso che ispirerà la Storia di Milano di Pietro, cioè il rifiuto dell’erudizione e l’impegno di estrarre da
quello sterminato mucchio di follie e di atrocità, di vizi e di virtudi che formano gli annali del genere umano [...] quanto di più utile e degno a sapersi giace involto nelle infinite memorie che ci sono tramandate [...]. Noi cerchiamo d’istruire, di piacere e di far pensare. Ciò che non ottiene questo fine ci è sembrato inutile (A. Verri, Saggio sulla storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, 2001, p. 3).
Ma via via che il saggio procede dalla storia dell’antica Roma, in cui lo soccorrono le riflessioni di Montesquieu e di altri grandi storici, il tessuto narrativo si sfalda in una serie di quadri e di episodi non ben connessi tra loro, spesso evocati per il solo scopo di introdurre un commento ironico o arguto. Di Voltaire è presente, a tratti, lo stile, ma non la volontà di comprensione del passato; e il pirronismo storico spesso dichiarato dall’autore diventa il pretesto per rifugiarsi nel giudizio moralistico o nella constatazione dell’irrazionalità del reale. La sua è «una storia ‘illustrata’ piuttosto che filosofica, oggetto di contemplazione e di divertimento più che di interpretazione razionale» (Musitelli 2010, pp. 252-53). Non a caso questa Storia fornirà molti spunti per le tragedie e i romanzi della maturità (Le avventure di Saffo, 1781, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, 1782-1804) composti nel clima congeniale della Roma papale e ispirati a una visione ormai pienamente conservatrice dell’uomo e della storia e all’apologia del cattolicesimo.
Per quanto riguarda l’Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri, è in via di completamento la prima serie, comprendente sei volumi di scritti. Manca il 1° vol., in preparazione a cura di G. Francioni, destinato a raccogliere gli scritti giovanili, molti dei quali si possono per ora leggere in Milano in Europa, a cura di M. Schettini, Milano 1963. Sono usciti finora:
Scritti di argomento familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, 5° vol., Roma 2003.
I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza, 3° vol., Roma 2004.
Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P.L. Porta, G. Tonelli, 2 tt., 2° vol., Roma 2006-2007.
Storia di Milano, a cura di R. Pasta, 4° vol., Roma 2009.
Scritti politici della maturità, a cura di C. Capra, 6° vol., Roma 2010.
Delle Meditazioni sulla felicità si veda l’edizione più recente a cura di G. Francioni, Como-Pavia 1996.
Inediti tra gli scritti citati sono la Histoire du Comte de Serville (in Archivio Verri presso la Fondazione Raffaele Mattioli, Milano, 374) e Il Democrito (Archivio Verri presso la Fondazione Raffaele Mattioli, Milano, 381.2).
Non compresi nella raccolta di Schettini, Milano in Europa, sono i seguenti scritti:
Il teatro comico del sig. Destouches dell’Accademia francese novellamente in nostra favella trasportato, 4 voll., Milano 1754-1755.
La vera commedia, martelliani di Pietro Verri in margine alla riforma goldoniana, a cura di M.G. Pensa, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze 1983, 4° vol., Tra illuminismo e romanticismo, t. 1, pp. 27-47.
Gli articoli di P. Verri pubblicati sull’«Estratto della letteratura europea» sono riediti in:
Del fulmine e delle leggi. Scritti giornalistici 1766-1768, a cura di G. Gaspari, Milano 1994.
Del «Caffè» esiste un’eccellente ed. a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, «Il Caffè», 1764-1766, Torino 1993, nuova ed. riveduta in 2 voll., 1998.
Per quanto riguarda Alessandro Verri, i contributi a «Il Caffè» sono compresi nell’edizione a cura di G. Francioni e S. Romagnoli della rivista. Si vedano inoltre:
Le Riflessioni in punto di ragione sopra il libro intitolato: Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano, Milano 1762.
Saggio sulla storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, Roma 2001.
Per la produzione letteraria successiva si vedano:
Tentativi drammatici del C[avalier] A[lessandro] V[erri], Livorno 1779.
Vicende memorabili dal 1789 al 1801, narrate da Alessandro Verri. Precedute da una vita del medesimo di Giovanni Antonio Maggi, 2 voll., Milano 1858.
Le notti romane, a cura di R. Negri, Bari 1967.
I romanzi, a cura di L. Martinelli, Ravenna 1975.
Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, a cura di A. Cottignoli, Roma 1991.
La vita di Erostrato, Milano 1994.
Per quel che riguarda il carteggio tra i due fratelli, l’Edizione nazionale delle Opere di Pietro Verri prevede una seconda serie in cui sarà tra l’altro pubblicata la corrispondenza. Si è data la precedenza all’ed. critica e integrale del Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, di cui hanno visto la luce finora il 7° vol. (18 settembre 1782-14 aprile 1791), a cura di M.G. di Renzo Villata, Roma 2012, e l’8° vol. (19 maggio 1792-8 luglio 1797), a cura di S. Rosini, 2 tt., Roma 2008.
Per la parte precedente occorre ancora rifarsi all’edizione promossa dalla Società storica lombarda e rimasta interrotta al settembre 1782: Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi, A. Giulini, F. Novati, G. Seregni, 12 voll., Milano 1910-1942. Solo per i primi mesi esiste un’edizione recente e pienamente affidabile: Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano 1980.
Per le altre corrispondenze si rinvia alle indicazioni in:
C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002.
«Il cuore è il padrone». Ventinove lettere inedite di Pietro Verri dall’Armata e da Vienna (1759-1760), a cura di C. Capra, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, a cura di C. Berra, M. Mari, Milano 2007, pp. 377-427.
E. Sala di Felice, Felicità e morale in Pietro Verri, Padova 1970.
F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, cap. IX; 5° vol., t. 1, L’Italia dei lumi (1764-1790). La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, pp. 425 e segg.
S. Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio. Saggi e documenti sulla formazione intellettuale di Pietro Verri, Milano 1988.
Pietro Verri e il suo tempo, Atti del Convegno, Milano (9-11 ottobre 1997), a cura di C. Capra, 2 voll., Milano 1999.
C. Capra, Pietro Verri e il «genio della lettura», in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, a cura di L. Antonielli, C. Capra, M. Infelise, Milano 2000, pp. 619-77.
C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002.
C. Capra, L’ultimo Verri, in Les écrivains italiens des Lumières et la Révolution française, «Laboratoire italien», 2009, 9, pp. 19-34.
M. Cerruti, Alessandro Verri tra storia e bellezza, in Id., Neoclassici e giacobini, Milano 1969, pp. 17-94.
F. Cicoira, Alessandro Verri. Sperimentazione e autocensura, Bologna 1982.
S. Luzzatto, L’illuminismo impossibile. Alessandro Verri fra Rivoluzione e Restaurazione, «Rivista di letteratura italiana», 1985, 3, pp. 263-90.
M. Ceretti, Alessandro Verri fra illuminismo, preromanticismo e neoclassicismo. L’esempio delle tragedie storico-politiche, «Rivista storica italiana», 1995, 1, pp. 160-78.
F. Favaro, Alessandro Verri e l’antichità dissotterrata, Ravenna 1998.
F. Tarzia, Libri e rivoluzioni. Figure e mentalità nella Roma di fine ancien régime, 1770-1800, Milano 2000.
Sui rapporti fra i due fratelli e in particolare sul «Caffè»:
F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 645-747.
F. Diaz, Pietro e Alessandro Verri storici e la recente discussione sulle loro idee, in Id., Per una storia illuministica, Napoli 1973, pp. 365-421.
G. Ricuperati, L’epistolario dei fratelli Verri, in Nuove idee e nuova arte nel ’700 italiano, Convegno internazionale dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma (19-23 maggio 1975), Roma 1977, pp. 239-81.
G. Panizza, B. Costa, L’archivio Verri, 2 voll., Milano 1997-2000.
B. Anglani, «Il dissotto delle carte». Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano 2004.
M. Musitelli, Alessandro Verri (1741-1816). Entre raison et sensibilité, une écriture en clair-obscur, tesi di dottorato discussa presso l’Université Paris 8, Vincennes Saint-Denis, il 19 novembre 2010.
G. Panizza, La nobiltà della ragione; e C. Capra, Fratelli d’Italia, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto, G. Pedullà, 2° vol., Dalla Controriforma alla Restaurazione, a cura di E. Irace, Torino 2011, rispettivamente pp. 684-90 e 700-705.