FANFANI, Pietro
Nacque il 21 apr. 1815 a Montale, in provincia di Pistoia, dall'agiato fattore Francesco e da Clementina Signorini vedova Pinzauti, quintogenito dopo due sorellastre e due sorelle. A circa due anni fu portato a Pistoia dove il padre, lasciata la fattoria, aveva acquistato una casa per godersi il discreto patrimonio che possedeva e per educarvi i figli. Verso i tre anni, insieme con le due sorelle, fu ad imparare "la croce santa, le devozioni e la dottrina cristiana" presso una "vecchia beghina" (Democritus ridens, 1872, p. 251). Successivamente, da un maestro di calligrafia apprese i primi rudimenti della grammatica italiana. A otto anni il padre decise di metterlo a più stretta disciplina, visto che cresceva irrequieto e turbolento, presso un cugino della moglie, parroco di Capezzana, nei dintorni di Prato, dal quale il ragazzino imparò i primi principi di grammatica latina. Trascorso un anno, tornò a Pistoia.
Nel frattempo il padre si era rovinato nel patrimonio per una grossa mallevadoria pagata per un cognato. In città il F. andò a scuola con scarsissimo profitto. A undici anni fu posto in seminario e negli studi diede buona prova tanto da vincere un secondo premio. Nel 1828 passò alla scuola di retorica del canonico Giuseppe Silvestri, buon latinista e grande cultore della Commedia dantesca. Finiti gli studi, il padre, non potendolo mantenere all'università, lo sistemò nella scuola medico-chirurgica di Pistoia, nella quale conobbe Filippo Pacini, che sarebbe diventato, molti anni dopo, un famoso anatomista. I risultati non furono brillanti: il F. pensava a divertirsi con i compagni di corso, gli "spedalini" (Democritus ridens, p. 272), evidenziando ancor più un carattere svagato, pronto allo scherno. Il padre, allora, lo fece arruolare. Trascorsi diciotto mesi di servizio militare nella segreteria di un colonnello, morto il genitore, tornò (forse nel 1837) a casa, dove trovò la famiglia ridotta in miseria.
Mise la testa a posto solo nel 1842, dopo tre anni di vita piuttosto sregolata, decidendo di darsi interamente agli studi. Trovò aiuto nel priore Andrea Fabbri grazie al quale divenne un buon paleografo latino. Si mise poi a studiare il greco, assaggiato appena a scuola. Per mantenersi copiò varie cronache e antichi documenti su commissione di un suo amico, il sacerdote classicista e patriota Enrico Bindi (allora docente di retorica in seminario, vescovo di Pistoia e Prato nel 1867 e infine arcivescovo di Siena). Tra il 1843 e il 1845 incominciò a scrivere anche per giornali e riviste. Pubblicò un saggio di Osservazioni sulla Divina Commedia nelle Memorie di letteratura, periodico di Marco Antonio Parenti e, sulla Rivista di Firenze, direttore il Montazio (cioè Enrico Valtancoli), scritti di critica letteraria spesso pungenti e "qualcuno dei ritratti morali come il Pedante, l'Accademico, il Tribuno della plebe" (Democritus ridens, p. 285).
Nel 1847 stampò un proprio giornale di Ricordi filologici, su cui scrissero letterati e filologi del tempo quali Luigi Fornaciari, Giuseppe Giusti, Basilio Puoti, Niccolò Tommaseo. Le sue conoscenze e competenze linguistico-letterarie, intanto, si accrescevano rapidamente, grazie ad una assidua lettura soprattutto degli scrittori del '300.
Nel marzo 1848 il F., che nel 1832 aveva solidarizzato con i rifugiati dei moti di Modena e di Romagna e aveva letto la Giovine Italia, partì con i volontari toscani per la guerra contro l'Austria. Sergente maggiore della 4ª compagnia del II battaglione della colonna mobile toscana, combatté a Montanara il 29 maggio e fu fatto prigioniero. Deportato nella fortezza di Theresienstadt (Terezin), in Boemia, tornò a casa nel settembre. Vincenzo Gioberti, suo amico, gli offrì allora aiuto invitandolo ad insegnare a Torino. Declinato l'invito, accettò il sostegno di Francesco Franchini, ministro della Pubblica Istruzione nel ministero Guerrazzi, che lo nominò "commesso" (segretario) di prima classe. Poco appresso si sposò con Zaira Capecchi, sorella di Icilio (compagno d'armi e suo grande amico), la quale morirà pochi mesi dopo il matrimonio (il F. si risposerà, anni dopo, con Emilia Bicchi: non avrà figli). Nel 1849 ritornò il governo granducale che, pur mantenendolo nel suo incarico. lo "guardò con sospetto" e "sempre [lo] tenne basso" (Bibliobiografia, 1874, p. 177). Nel 1859, partito il granduca, il nuovo ministro C. Ridolfi lo nominò bibliotecario della Marucelliana di Firenze, posto che occuperà fino alla morte, avendo rifiutato, nel 1861, di dirigere la Biblioteca nazionale di Napoli.
Mentre era impiegato al ministero pubblicò dapprima il periodico mensile L'Etruria (1851-52), dedicato alla filologia, alla letteratura e alle belle arti e a cui collaborò, fra gli altri, il giovanissimo Alessandro D'Ancona, successivamente Il Passatempo (1856-57), che stampò, tra altre cose, uno scritto contro il poeta francese A. de Lamartine che, anni addietro, aveva parlato male degli Italiani (per questo era stato sfidato a duello a Firenze dall'esule napoletano Gabriele Pepe) e, successivamente, aveva sminuito la figura di Dante. Gli anni 1857-59 furono quelli del giornale umoristico Il Piovano Arlotto, che "combatteva tutto ciò che sapeva di ciarlatano" e "secondava il movimento liberale italiano" (Democritus ridens, p. 78).
Fino al 1859 aveva mandato alle stampe una serie di lavori che ci testimoniano l'ampio ventaglio dei suoi interessi filologici e storico-letterari, una inquieta spregiudicatezza intellettuale, una grinta di vivace polemista. Quest'ultima diverrà sempre più decisa e risentita contro i suoi detrattori e nemici col passare degli anni. Compilazione sua raffinata era stata, nel 1847, il falso volgarizzamento di una cronaca trecentesca del viaggio di Arrigo VII in Italia, che riuscì a far stampare nell'Archivio storico italiano e che fu molto lodata per la qualità della lingua tanto da essere citata qua e là dal Tommaseo. Denunciata lui stesso l'impostura, ebbe addosso le ire di molti letterati, tra cui il Vieusseux. Si scusò sostenendo che analogo tentativo aveva fatto (non riuscendovi però) il Leopardi senza destare scandalo.
Nel 1849 aveva edito a Modena le Osservazioni al Nuovo Vocabolario della Crusca, nelle quali, con garbo, criticava modalità e voci dei primi cinque fascicoli della quinta impressione del vocabolario dell'Accademia della Crusca. Per tutta risposta ne ricevette insulti dall'accademico Donato Salvi, che lo appellò "azzeccaspropositi" e "arcifànfano", "gonzo" e "impostore". Ma ebbe ragione se nel 1852 l'Accademia rimuoveva il Salvi rigettando i fascicoli già editi. Uscita una parte della seconda quinta impressione nel 1863, tornò a criticare, a più riprese e con sempre maggiore durezza, la insulsaggine settaria, la pedanteria arcaistica e l'imperizia tecnica dei compilatori (cfr. Il Vocabolario novello della Crusca, Milano 1876) sostenendo anche un suo collaboratore, Alfonso Cerquetti, querelato, nel 1877, dagli accademici Cesare Guasti e Giuseppe Tòrtoli per diffamazione ed ingiurie a mezzo stampa. Socio corrispondente della Crusca (1867), ne uscirà nel 1874 perché offeso dal Guasti, suo ex amico e allora segretario dell'Accademia. Si scaglierà, quindi, in più opuscoli, contro la lentezza eccessiva del lavoro dei compilatori, comportante sperpero del denaro pubblico di cui la Crusca beneficiava, e contro gli ostacoli che la stessa Accademia poneva alla unificazione della lingua (per lui esiziale) con la confusione della parte morta con la viva dell'idioma, l'incertezza e la grettezza delle sue dottrine.
Centrale negli interessi del F. è il posto occupato dai vocabolari, sentiti come mezzi di riscontro e di diffusione della "buona lingua", di una lingua italiana che, respingendo con oculato fare puristico neologismi inutili e accattati barbarismi d'Oltralpe (prestiti e calchi francesi in special modo), si modellasse con proprietà - guardando ad un sotteso e sempre valido modello fiorentino e toscano - tanto nel parlato quanto, soprattutto, nello scritto, prestando attenzione alle esigenze espressive dell'uso vivo, della lingua quotidiana, temperata quest'ultima, nelle sue fughe in avanti, da un necessario contatto con i buoni scrittori del passato nazionale, in particolare tre-cinquecenteschi.
Il F. pubblicò, dunque, a Firenze, il Vocabolario della lingua italiana, 1855 (2 ed. 1865); il Vocabolario dell'uso toscano, 1863; il Vocabolario della pronunzia toscana, 1863; Voci e maniere del parlar fiorentino, 1870. A Milano uscì invece il NuovoVocabolario dei sinonimi della lingua italiana ad uso delle scuole, 1879. Insieme con Giuseppe Rigutini stampò il Vocabolario della lingua parlata, Firenze 1875, e, con Costantino Arlia, il Lessico della corrotta italianità, Milano 1877 (poi Lessico dell'infima e corrotta italianità, ibid. 1881). Aveva collaborato pure alla stesura del Vocabolario Giorgini-Broglio, ma, in meno di un anno, nel giugno 1869, uscì dall'impresa non condividendone i criteri di compilazione filomanzoniani.
Le opere filologiche e lessicografiche gli procurarono lungo gli anni una sicura notorietà e risonanza se è vero che a lui scrissero, a vario titolo, uomini come A. Bresciani, E. Broglio, C. Cantù, G. Capponi, A. De Gubernatis, L. Fornaciari, V. Gioberti, P. Giordani, G. Giusti, F. D. Guerrazzi, R. Lambruschini, T. Mamiani, A. Manzoni, C. Percoto, G. A. Scartazzini, L. Settembrini, N. Tommaseo, C. Troya, G. P. Vieusseux.Con l'autorità riconosciuta, l'agiatezza economica: acquistata una villa a Castello, nei dintorni di Firenze, che terrà fino alla morte, vi riceverà gli amici alternando dotte conversazioni, esperimenti gastronomici e partite a biliardo. I riconoscimenti furono moltissimi: diplomi accademici, croci di merito, menzioni speciali e, nel 1878, la nomina a commendatore concessagli dal ministro F. De Sanctis.
Tentò sia il romanzo storico con un fiacco Cecco d'Ascoli (Firenze 1870) - che ricevette lodi sperticate dallo Scartazzini e da A. Zaccaria, i quali lo anteposero ai Promessi sposi - sia la letteratura infantile con La Paolina. Novella scritta in lingua fiorentina italiana (Firenze 1868) - con cui volle "mostrar falsa col fatto" l'affermazione del Manzoni circa l'inesistenza di una lingua italiana moderna accettata da tutti dopo averne mostrato l'insostenibilità nell'opuscolo La lingua italiana c'è stata, c'è, e si muove (Faenza 1868) - e con Una bambola (Firenze 1869) - moralistico romanzo per bambine attento alla purezza della lingua ottenuta restando "stretto all'uso comune" (fiorentino) - sia la letteratura scolastica con Istruzione con diletto (Firenze 1871) - suo motto in fatto di apprendimento scolastico elementare - Il Plutarco femminile (Milano 1872) e il Plutarco per le scuole maschili (ibid. 1875), dove mette in corsivo le voci "o errate, o barbare, o improprie". A un dotto pubblico si indirizzano i commenti al Decameron (ibid. 1857), alle commedie del Lasca (A. F. Grazzini; ibid. 1859), alle novelle di F. Sacchetti (ibid. 1860), alle poesie di G. Giusti e alle Istorie fiorentine di N. Machiavelli (ibid. 1873). Tradusse dal latino e dal francese. Editò testi di lingua a Pistoia come la Meditazione della povertà di S. Francesco (1847) e La Mea di Polito di J. Lori (1870), mentre a Firenze Conti di antichi cavalieri (1851), Novella del Grasso legnaiuolo (1856), L'Ajone di M. Buonarroti iunior (1851) e, sempre dello stesso, La Fiera e La Tancia (1860). Il pensiero filologico-linguistico riversò in libri raccoglienti articoli editi: Diporti filologici e letterari (Firenze 1870), Democritus ridens (ibid. 1872), Lingua e nazione (Milano 1872). Per 20 anni tentò di dimostrare come apocrifa la Cronica di Dino Compagni polemizzando aspramente con Isidoro Del Lungo e i "dinisti". Ne fanno fede alcune pubblicazioni: Dino Compagni sbertucciato da G. T. (Firenze 1858), La critica storica de' nonni (Livorno 1875), Dino Compagni vendicato dalla calunnia di scrittore della Cronaca (Firenze 1875). Approvò la poesia di M. Rapisardi e di R. Fucini ma disprezzò, ricambiato, G. Carducci, che lo bollerà "linguaiolo" e gli dedicherà due acidi sonetti degli Juvenilia.
Morì a Firenze, per attacco cardiaco, il 4 marzo 1879. La salma fu esposta alla Marucelliana e G. Rigutini pronunciò l'orazione funebre. Circa due anni dopo una rivista fiorentina, IlFanfani, prese da lui il nome.
Considerati altri due periodici importanti che diresse - IlBorghini (Firenze 1863-65 e 1874-80) e L'Unità della lingua (Firenze 1869-73) - possiamo giudicarlo, in sintesi, un purista convinto, di stampo tradizionale ma non alla Cesari, propugnatore della lingua come forza unificante della nazione. Si aprì col tempo alle posizioni manzoniane rigettandone però l'eccessiva fiorentineria. Criticò da posizioni di retroguardia le nuove istanze dei neogrammatici.
Bibl.: Per un sunto delle sue opere si veda la sua Bibliobiografia, Firenze 1874. Su di lui cfr. G. Pitrè, Profili biografici, Palermo 1864; L. Baretti, Biografia del fu egregio filologo P. F., Milano 1879; A. Cerquetti, P. F. e le sue opere, Firenze 1880; Edizione nazionale delle opere di G. Carducci, XXIV, pp. 126 ss.; B. Croce, in La Critica, XXXIV (1936), pp. 424 ss.; F. Marri, P. F., in Otto-Novecento, III (1979), 5-6, pp. 253 ss. Per la riedizione di alcuni testi, cfr. E. Zamarra, Edizioni e varianti di un libello antimanzoniano di P. F., "La Lingua italiana c'è stata, c'è e si muove", in Critica letteraria, XVI (1988), 59, pp. 327-355; Id., Tre interventi linguistici di P. F., ibid., 60, pp. 523-562; Id., Una lettera aperta di P.F. sull'unificazione della lingua italiana, ibid., XVII (1989), 64, pp. 521-530; Id., Breve profilo di un linguista poligrafo dell'Ottocento: P. F., ibid., XIX (1991), 70, pp. 99-131.