FOSCARI, Pietro
Nacque a Venezia nella prima metà del sec. XV dal procuratore Marco di Nicolò e Margherita di Francesco Marcello.
Avviato ben presto alla carriera ecclesiastica, il F. fu nominato nel 1447 primicerio di S. Marco, trovandosi così a occupare in giovanissima età la massima dignità della cappella ducale veneziana; nel giugno dello stesso anno fu insignito del protonotariato apostolico dal papa Niccolò V. Dietro queste due nomine non è certo arbitrario riconoscere l'influenza del doge Francesco Foscari, suo zio, come pure dietro il conferimento della commenda dell'abbazia benedettina di S. Maria di Summaga, avvenuto nello stesso periodo.
Nel 1448 tentò anche di ottenere un canonicato della cattedrale patavina, ma non riuscì, nonostante la designazione del pontefice, a entrare in possesso della prebenda. Ebbe invece nel 1450 la commenda di un'altra abbazia benedettina, quella dei Ss. Cosma e Damiano di Rogova presso Zara, vacante per la morte di Polidoro Foscari, cugino di suo padre e arcivescovo della diocesi dalmata.
Conseguito nel 1454 a Padova il dottorato in diritto canonico, il F. sembrava dunque avviato a una carriera folgorante, tanto che già l'anno successivo ebbe la possibilità di conseguire la cattedra episcopale di Treviso, conferitagli da Callisto III, ma dopo alcuni mesi di incertezza rifiutò la carica e venne sostituito da Marco Barbo.
Le fonti non consentono di comprendere a fondo i motivi di questa rinuncia; si può però ipotizzare che più che alle aspettative del F. per un vescovado di maggior prestigio, essa sia invece da attribuire a un veto dell'autorità politica veneziana. Dopo le gravi vicissitudini giudiziarie che portarono alla condanna, al confino e poi alla morte di Jacopo, figlio di Francesco, si giunse infatti nel 1457 all'abdicazione forzata del vecchio doge. Non stupisce quindi che la carriera ecclesiastica del F. sia rimasta sostanzialmente bloccata per un ventennio, durante il quale egli si candidò invano in Senato al prestigioso vescovado di Padova (1459) e poi al patriarcato di Venezia (1466).
Per questo periodo le tracce documentarie sul F. sono piuttosto scarse, ed è difficile ricostruire le sue vicende biografiche. Probabilmente si dedicò con rinnovato entusiasmo agli studi umanistici, ai quali si era accostato durante il soggiorno padovano, prima del conseguimento del dottorato.
In quell'occasione era infatti venuto a contatto con molti altri patrizi veneziani che conducevano i loro studi universitari a Padova e che lì si riunivano in circoli umanistici intorno ai maestri più famosi. Benché non sia rimasta alcuna testimonianza di una produzione letteraria del F., egli può ugualmente essere compreso nel numero degli umanisti veneziani se non altro per le molteplici attestazioni rimaste dei suoi contatti con i maggiori esponenti di questo gruppo. Furono ad esempio senz'altro suoi compagni di studio Lauro Querini e Alvise Donà, ma la sua rete di rapporti e conoscenze era assai più ampia. Molti autori dedicarono al F. le loro opere, fra questi ricordiamo Ermolao Barbaro il Giovane, che gli dedicò una a una le varie parti del commento dell'Etica di Aristotele, anche se sembra di poter dire che il legame più stretto fu quello con Pietro Barozzi, che nel 1481 scrisse al F. un'operetta consolatoria per la scomparsa del fratello Alvise.
Un altro segno rivelatore degli interessi umanistici del F. è il rapporto di amicizia che dovette intrattenere col cardinal Bessarione e probabilmente anche con i componenti della sua accademia. In qualità di protonotario il F. risulta infatti testimone dell'atto notarile stipulato il 26 giugno 1468 a Roma, con il quale il cardinale trasmise l'effettivo possesso della sua biblioteca, ricca di rari e pregiati codici greci e latini, ai procuratori di S. Marco, rappresentanti della Repubblica di Venezia. Un atto molto importante, che costituì la base di partenza per la grande biblioteca pubblica Marciana, e che dovette essere ben presente nella mente del F. nel 1481 quando, vescovo di Padova, riuscì a salvare i codici e i libri del predecessore Giacomo Zen, sottraendoli al saccheggio dell'episcopio, e volle donarli al capitolo della cattedrale della cui biblioteca avrebbero costituito il nucleo principale.
Alla fine degli anni Sessanta veniva frattanto maturando il rilancio della carriera ecclesiastica del Foscari. Nel 1464 era salito al soglio pontificio il veneziano Pietro Barbo - Paolo II -, con il quale la madrepatria aveva intrattenuto fin dall'inizio relazioni assai burrascose, dovute sostanzialmente alla totale divergenza tra gli interessi del papa e quelli della Repubblica. A capo di uno Stato regionale che aveva ambizioni di espansione in contrasto con quelle della Serenissima, Paolo II non esitò a prendere posizioni durissime contro Venezia, come ad esempio nella controversia sull'imposizione delle decime agli ecclesiastici. La Repubblica doveva quindi constatare ancora una volta, dopo i papati di Gregorio XII ed Eugenio IV, che la presenza sul soglio di Pietro di un veneziano era fonte di contrasti e preoccupazioni più che di vantaggi per la sua posizione: l'influenza veneziana sul S. Collegio era ormai ridotta ai minimi termini e anche la prospettiva della successione a Paolo II minacciava, come poi in effetti accadde, di orientarsi in senso ad essa ostile.
In tale contesto il F. dovette sembrare la persona più adatta a rappresentare in Curia gli interessi della Repubblica, visto l'atteggiamento di totale allineamento alla posizione veneziana che egli aveva dimostrato anche negli anni in cui non era stato aiutato dalla madrepatria nella carriera ecclesiastica. La candidatura del F. al cappello cardinalizio dovette sembrare opportuna anche a Paolo II, che vi intravide senz'altro una buona occasione per attrarre nella sua orbita un altro membro della classe dirigente veneziana, e nello stesso tempo per venire incontro una volta tanto alle richieste della madrepatria. Il pontefice lo designò quindi cardinale in pectore forse fin dal 1468, ma non poté o non volle formalizzare la nomina: alla sua morte nel 1471 quindi il Senato fu costretto a condurre una fitta azione diplomatica per ottenere la conferma della porpora. Persa subito la battaglia col S. Collegio, dopo l'elezione di Sisto IV la candidatura venne riproposta e sostenuta con forza nel corso degli anni. Ma, o per i cattivi rapporti intercorrenti tra Sisto IV e Venezia, o per motivi di bilanciamento delle nomine tra i candidati dei vari signori della penisola, il F. dovette attendere fino al 10 dic. 1477 per lasciare la carica di primicerio di S. Marco per il cardinalato, cui fu innalzato col nuovo titolo di S. Nicolò inter imagines per lui appositamente creato.
Immediatamente la sua dotazione beneficiaria cominciò ad aumentare, con la collazione dell'arcivescovato di Spalato in administrationem. Ma la rendita che esso poteva garantire era così ridotta che nel 1479 il F. si affrettò a permutarlo con l'abbazia di S. Benedetto di Leno, nella diocesi di Brescia. Solo nel 1481 riuscì a ottenere un beneficio degno del rango cardinalizio, il ricco vescovato di Padova (7.000 ducati di entrata secondo il Sanuto).
Negli anni successivi il F. rispose pienamente alle aspettative che il governo veneziano aveva nutrito nei suoi confronti, giocando un ruolo di primo piano nei rapporti con Sisto IV. Dal 1478 in avanti la Repubblica partecipò alla guerra tra il papa e Firenze successiva alla congiura dei Pazzi, scendendo in campo al fianco dell'alleato Lorenzo il Magnifico. Naturalmente le relazioni diplomatiche con Roma furono sospese e così, quando all'inizio del 1479 si cominciò a condurre una trattativa di pace con la mediazione francese e poi anche inglese, imperiale e borgognona, il naturale intermediario tra Venezia e la S. Sede fu il Foscari. In quell'occasione le trattative però fallirono, dato che la Serenissima giudicò eccessive le misure punitive nei confronti di Firenze proposte dal papa. All'inizio del 1480, invece, Venezia riprese i contatti con Roma alla ricerca di una pace separata, dal momento che stava cominciando a sospettare il riavvicinamento tra Firenze, Milano e Napoli che si sarebbe poi effettivamente concretato in un rovesciamento delle alleanze. Fu ancora una volta il F. il protagonista della trattativa: dal febbraio all'aprile 1480 egli tessé in Curia una fitta trama di contatti informali e segreti riferendo regolarmente a Venezia tramite il fratello Alvise. Il principale argomento su cui poté far leva fu senza dubbio il palese desiderio del pontefice di ritagliare un principato nelle terre della Chiesa per il nipote Girolamo Riario; il F. stipulò il 16 apr. 1480 un trattato di alleanza e di mutua difesa col papa, le cui clausole prevedevano anche l'appoggio di Venezia alle azioni del papa e dei suoi nipoti in Romagna e la concessione di una condotta al Riario.
Dopo essere stato il protagonista dello spettacolare riavvicinamento tra Venezia e il Papato il F. dovette però anche gestire il primo raffreddamento dei rapporti tra i due, dovuto alla volontà della Repubblica di non lasciarsi coinvolgere inutilmente nelle mire espansionistiche di Sisto IV. Fino all'arrivo del nuovo ambasciatore Zaccaria Barbaro fu proprio il cardinale a presentare al papa le riserve sempre più forti della Serenissima sull'opportunità di assediare Pesaro, che nella mente del pontefice doveva costituire il centro del dominio del nipote.
Puntuale giunse al F. il segno della riconoscenza di Sisto IV: nei primi mesi del 1481 il papa lo destinò a succedere nell'episcopato patavino allo Zen, ormai defunto, e dopo alcune incertezze il Senato decise di accogliere la designazione.
Il ruolo del F. in Curia negli anni successivi fu necessariamente meno importante, data la costante presenza a Roma di un ambasciatore veneziano munito di pieni poteri. Ciò nonostante nel periodo convulso della guerra di Ferrara, che vide dapprima il papa e Venezia alleati contro Ercole d'Este, e poi Sisto IV staccarsi dall'ingombrante alleato e muovergli contro le sue armate, appaiono continui riferimenti all'azione del F. presso la Curia romana, specie dopo la nuova rottura delle relazioni diplomatiche, e in particolare, ancora una volta, quando si cominciò a percorrere la strada della trattativa.
Il F. costituì in sostanza un caso abbastanza particolare tra i cardinali veneziani del Quattrocento: fu l'unico tra essi a non avere legami di parentela con il papa che lo aveva designato e a non appartenere a quei gruppi di famiglie del patriziato che si erano legate a filo doppio con la Curia romana al seguito dei Condulmer e dei Barbo. Il suo atteggiamento nel campo dei rapporti tra Venezia e il Papato fu sempre rigidamente allineato alla posizione della madrepatria, e la sua linea di condotta consistette certo sempre nel tentativo di metter pace tra i due contendenti, ma comunque al servizio di uno solo.
Il F. fu utilizzato da Venezia anche per scoprire e denunciare le reti spionistiche che divulgavano i segreti di Stato a Roma e nelle altre capitali italiane: nel 1479-80 egli contribuì a far individuare nel bandito Lorenzo Zane il colpevole della fuga di notizie riservatissime verso il Riario, col quale appunto in quel periodo il F. aveva iniziato le trattative per la pace; nel luglio 1480 mise al corrente il Consiglio dei dieci, tramite l'ambasciatore a Roma, del fatto che Giovanni di Orsino Lanfredini, l'uomo di fiducia del banco Medici a Venezia, era responsabile della trasmissione di segreti di Stato a Firenze.
Di difficile valutazione, nella personalità del F., sono piuttosto gli aspetti della sensibilità religiosa e dalla spiritualità, sia per la scarsità delle fonti in materia, sia per gli affrettati giudizi formulati sul suo conto in passato. Sicuramente il suo episcopato padovano non può essere portato ad esempio di particolare sollecitudine pastorale e di zelo riformatore (Gios): risiedette assai brevemente nella sua diocesi, governata abitualmente da vicari fra i quali Bartolomeo Passerini, che si occupò in particolare dell'unica visita pastorale compiuta tra 1481 e 1485. Per di più, quando era a Padova, non risiedeva nell'episcopato, che aveva lasciato decadere, bensì nel fastoso palazzo che aveva fatto costruire per la sua famiglia nell'arena, adiacente alla cappella degli Scrovegni, il cui giuspatronato spettava ai Foscari.
Ma con questo il suo comportamento non fu affatto diverso da quello dei suoi predecessori, e di gran parte dei vescovi del sec. XV.
Pertanto il giudizio del Pastor e di altri sul F., presentato come prelato mondano e ben inserito nello spirito gaudente della corte di Sisto IV, non sembra essere molto giustificato: le poche testimonianze pervenute sul suo comportamento in Curia vanno semmai in senso opposto. Anche gli stretti legami di stima reciproca e di affettuosa amicizia che legavano il F. a Marco Barbo (che fu anche suo esecutore testamentario), uno dei membri più autorevoli e stimati del S. Collegio, uomo di vita semplice e austera, morto in odore di santità, ci offrono un'immagine assai diversa del vescovo di Padova. E, infine, anche la relativa scarsità di rendite beneficiali di cui egli godette, specie se messa a confronto con gli immensi patrimoni degli altri cardinali e alti prelati del suo tempo, induce a sfumare assai i giudizi negativi su di lui.
Il F. morì il 20 ag. 1485 a Viterbo, dove si era recato per la cura termale di una fastidiosa malattia allo stomaco.
La modestia del suo patrimonio è confermata dal fatto che, per affrontare le spese delle cure e del soggiorno, il F. aveva dovuto chiedere un sussidio al Senato veneto. Fu sepolto senza pompa a Roma in S. Maria del Popolo, nella cappella Cibo.
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