FULLONE, Pietro
Nacque a Palermo agli inizi del sec. XVII, forse nel sestiere del Capo. Non si conoscono i nomi dei genitori, né sicuramente verificabili sono i particolari della sua biografia, avvolta nella leggenda e tramandata per aneddoti dalla memoria popolare.
Il cognome stesso del poeta pare sia un soprannome, ricavato dalla voce dialettale foddi, "folle", accresciuta nell'epiteto "Fudduni", con cui il F. è anche noto. Tutte le fonti concordano nel segnalare l'umiltà dei natali del poeta, che esercitò il mestiere di cavatore di pietre e, transitoriamente, anche quello di marinaio.
Con questo quadro esistenziale contrasta tuttavia la notizia della sua ammissione all'Accademia dei Riaccesi, tra le più illustri della città; ed egualmente non riconducibili al cliché del poeta "senza lettere" sono l'ampiezza e la regolarità della sua produzione a stampa, da cui emergono i contatti del F. con i gruppi dominanti del tempo e appare la pertinenza e varietà della sua cultura, chiaramente influenzata dal sistema letterario contemporaneo. Non è quindi difficile supporre che, nonostante l'oscurità delle sue origini, il poeta abbia compiuto studi non superficiali, che gli assicurarono considerazione e rinomanza. Il F. ci appare infatti ben accetto al potere politico e alle istituzioni letterarie locali, tanto che nel 1651 dedicò al Senato della città e a vari eminenti cittadini (il principe di Valguarnera, don Luigi La Farina) il suo poema epico La Rusulia, che celebrava la santa protettrice della città. E in un clima di grande ufficialità, pur dichiarandosi, con la modestia necessaria all'occasione, "poviru d'arti, miseru di stili, e infecundu d'eloquenza", il F. ricevette consensi ed elogi in latino, toscano e siciliano da letterati e accademici (Ippolito Maia, Alfonso Salvo, Giuseppe Galeano, Vincenzo Auria e tanti altri), che espressero la loro ammirazione per "Pietro incisor di Pietre" con i consueti toni encomiastici della letteratura barocca.
Ma nonostante questa e altre analoghe circostanze rimane misteriosa la carriera del poeta, di cui è ancor difficile una sicura e corretta identificazione. Già il contemporaneo Galeano (p. 315), sottolineando la straordinarietà della sua vicenda letteraria, sosteneva che il F. non aveva "in tutta l'età sua studiato giamai cosa alcuna o di humanità o di scienze" e che era stato costretto a maneggiare "in vece di penna la bipenne". E a partire da A. Mongitore (1714, p. 139), che fornisce le notizie sulla sua indigenza e sul suo oscuro lavoro, si è formata una tradizione che insiste sulla rozzezza e spontaneità del poeta popolare. E questo nonostante le attestazioni di simpatia di un letterato come G. Meli, che con movenze dantesche lo ricorda nella sua "Fiera di Parnaso": "Jeu quannu vitti lu me paisanu, / L'abbrazzai, lu vasai 'ntra 'na mascidda" (La fata galanti, Palermo 1759, c. II, str. 15).
In realtà attorno alla figura del F. si era creata una fitta tradizione orale, che lo ha fatto autore di componimenti di dubbia attribuzione, presenti con varianti e modifiche in tutte le parti dell'isola, per lo più legati ad aneddoti fantasiosi e incontrollabili. A questo versante presunto dell'opera del F. si è soprattutto rivolta l'attenzione dei ricercatori dell'Ottocento, che hanno attestato la persistenza del nome del poeta nella cultura popolare, di cui egli ha incarnato lo spirito arguto e motteggiatore, il realismo beffardo e la devota religiosità. Ma proprio G. Pitré, che ha raccolto canti e materiali ascritti all'estro di "Petru Fudduni", ha espresso tutte le sue perplessità nel far combaciare l'immagine del poeta colto con quella del suo omonimo, assunto a portavoce degli ideali e della sensibilità popolari. E infatti, denunciando gli anacronismi e le incongruenze della tradizione, egli ha revocato in dubbio l'esistenza del F. popolare, che risulta come una sorta di "universale fantastico" dei Siciliani, l'emblema di un modo e di un sentimento della vita; d'altro lato lo stesso studioso ha sottolineato la letterarietà delle opere a stampa, definendo il F. il "Marino della Sicilia" e spiegando l'insistenza della tradizione sul suo mestiere di tagliapietre con il quasi consimile esempio del Burchiello.
È parso perciò plausibile anche agli altri critici, successivamente intervenuti, che il F. sia stato un più o meno involontario "prestanome" di canti popolari trascurati dalla scrittura, forse non privi di qualche attinenza con certi aspetti della personalità dell'autore. Tutte queste circostanze rendono vana la ricerca dell'autenticità delle "rime popolari". Da esse il F. emerge come poeta improvvisatore impegnato in vittoriose tenzoni con altrettanto fantomatici bardi isolani, poco provati come il "Dotto di Tripi" o "lu Vujareddu di li Chiani", o storicamente documentati come Pietro Pavone di Catania. Al F. viene attribuita la soluzione di numerosi dubij, una sorta di genere letterario popolare, che consiste nella proposta di "difficultà", ora esposte con una interrogazione palese (dubij sulla principale festa dell'anno, sugli inventori delle cose, e così via), ora mascherate nella forma dell'indovinello e del quesito. In queste sfide il poeta - qualificato come "grann'omu" - dimostra tutta la valentia del suo ingegno, riuscendo a decifrare i sensi figurati delle proposte dell'avversario e a rimbeccarle con ultimative definizioni. Proprio per questa sua brillante destrezza dialettica, che non risparmia all'interlocutore disdoro e denigrazione, il F. ha infatti rappresentato la figura del poeta saggio, che trova sempre la battuta per non lasciarsi sopraffare e sa variare le sue risposte, passando dall'oscenità al tono sapienziale, dal lazzo al calembour, dal vituperio allo scioglimento di questioni sacre.
Se sfuggenti e non storicizzabili sono i connotati del "Fudduni" tradizionale, alterato dall'affabulazione popolare, solo la forza del sentimento religioso può imparentare l'aedo sentenzioso e illetterato con l'autore di tante rime a stampa. Il primo può assumere però, nei canti trascritti dal Pitré, le vesti dell'apostolo che redime incalliti peccatori e riesce a convertire un turco dimostrandogli la verginità di Maria; il secondo - nelle venti ottave sacre ospitate nella raccolta del Galeano (pp. 315-322) - predilige i toni penitenziali e mortuari, come si avverte nella scelta della materia, il tema, severo e dolente, della crocifissione, assai più frequente di quello lieto del Natale e dell'Annunciazione.
Tutte le opere a stampa del F. sono contrassegnate dalla presenza di poeti antichi e moderni, di pensatori e padri della Chiesa, che conferiscono validità esemplare alle riflessioni speculative e morali. L'universo poetico del F., espressione di una sentita pietà popolare, trova la sua stilizzazione in un repertorio colto attinto da prediche e quaresimali, da racconti agiografici, da scritture sacre e profane. Il nucleo più solido di questa ispirazione è quello scritturale del vanitas vanitatum, intrecciato e fuso con il tema fortemente enfatizzato della contrizione e del pentimento. A questo filone si deve ascrivere il giovanile capitolo in terzine La miseria di la vita umana (Palermo 1629, e poi ripetutamente pubblicato), dove il tema della pazzia e dell'errore sembra trarre alimento da personali esperienze, ma in realtà è svolto secondo i modelli della tradizione patristico-ecclesiastica. C'è infatti il compianto per la miseria naturale dell'uomo e lo sconforto struggente dell'ubi sunt, l'apoteosi mortuaria e l'esaltazione del martirio. Tutta una trama di reminescenze dotte sorregge le argomentazioni; Agostino e Girolamo, Petrarca e Sannazaro, Dante e i Vangeli vengono chiamati a convalidare le vedute del poeta, che ricorre anche alla narrazione di Gregorio Magno.
Con analoghi intendimenti moralistico-letterari è costruito il poemetto Pazzia d'amuri (ibid. 1645), anch'esso in terzine, che è impostato come un'ars amandi negativa, in cui miti e tradizioni (da Ovidio all'Orlandofurioso) vengono allegati come prove dell'infausto furor amoris, micidiale e distruttivo. Il richiamo alla classicità - anche se non privo di polemico dissenso ("Nun ci cunveni d'amuri lu nomu. / Lu chiamanu l'antichi fausamenti, / In fatti è infirmità, ch'acidi l'omu") - riporta il dettato poetico alle forme più raffinate dell'esegesi allegorica. E infatti il F. si cimenta nell'interpretazione dell'iconografia d'Amore ("Nun senza esempiu pintu lu viditi") e in quella dello scudo di Minerva, dispiegando tutta la sua capacità di lettura figurale in un esercizio ermeneutico che richiedeva chiarezza di dottrina e conoscenza attenta del mito.
Erudizione e abilità letteraria accompagnano il F. anche nella composizione delle opere agiografiche, tutte stampate a Palermo e scritte in forma di poema epico, tra cui spiccano, per l'immediata risonanza cittadina, quelle dedicate a s. Rosalia (La Rusulia, 1651; La partenza di s. Rusulia, 1655; La invenzioni di lu corpu di s. Rusulia, 1655; La pesti superata da s. Rusulia in Palermu nell'anni 1624 e 1625, 1656). Nel primo e principale di questi poemi il F. ricostruisce in sei canti in ottava rima le vicende della vita della santa, diffondendosi con una certa effusività in una narrazione che vuole essere rispettosa del vero storico, tanto da riportare date e genealogie, e sia pure con quel gusto per il dettaglio cronologico che si riscontra nei cantari e nell'epopea popolare. Ma la copiosità dei particolari è funzionale all'azione edificante. Il F. ripercorre i vari momenti del leggendario glorioso della santa, traendo occasione dalle sue scelte esemplari (la vita anacoretica), per riflessioni gnomiche e inviti alla devozione cristiana, ma nello stesso tempo avvolge queste finalità precettistiche di un tono letterariamente accattivante, ora ricorrendo alle risorse del meraviglioso sacro (apparizioni celesti, tentazioni diaboliche), ora richiamandosi alla memoria dell'epos profano.
Anche nella S. Oliva virgini e martiri palermitana in centoquattordici ottave (1652) il F. continua a coniugare pietà popolare e tradizione colta. Ma in questo poema (come nel più tardo Di la vita, martiriu e gloria di li novi santi curunati, 1667) più che all'esattezza storica egli è attento all'ortodossia dottrinaria, tanto che si cimenta nella parafrasi dei più ardui principî teologici (la definizione di Dio come "Causa di Causa e di Motu Moturi", il mistero della Trinità e quello dell'Incarnazione). La forma panegiristica si ritrova ancora nel Triunfu di s. Mamilianu (1659), nel Poema epicu di la vita, martiriu e miraculi di lu gluriusu s. Ramunnu Nonnatu (1669) e in altri minori scritti agiografici.
Ma della fecondissima produzione del F. si devono soprattutto ricordare i componimenti didascalici, ai quali appartiene, oltre alla Piscaria (1669), il poemetto in due capitoli L'arti nautica (1655) che ne celebra i progressi dalle sue lontane origini fino alle imprese dei moderni navigatori. Pur inframmezzando la trattazione storica con precetti e consigli pratici, di natura sia tecnica sia meteorologica, il F. anima il suo sforzo didattico con un forte senso della natura e un grande ardore di verità, che salva dall'arido scolasticismo la discussione delle teorie spesso contrapposte.
Non meno estesa è la produzione di carattere encomiastico-celebrativa, che trae occasione soprattutto da eventi luttuosi, come la morte dell'arcivescovo di Palermo (Lamentu supra la morti di… Martinu Leone e Cardenas, 1656) e quella del re Filippo IV (Funerali in morti di la Maistà Catolica, 1665). In questi "versi esequiali" il gusto funerario del tempo e la tendenza barocca a trasformare la morte in pompa si traducono in una ricerca dell'amplificazione e nella conseguente apoteosi del personaggio mediante la dilatazione del cordoglio a tutti gli aspetti della natura e della vita sociale. L'atteggiamento filospagnolo degli elogi fornisce argomenti e maniere ai capitoli in terza rima Pri lu francisi vinutu in Sicilia (1655), dove, rievocando l'abortita spedizione del duca di Guisa, il F. esalta il "Re Cattolicu", "amicu di la Cruci triunfanti", e vitupera "lu falsu Franzisi", nemico storico dei Siciliani fin dalla sollevazione del Vespro, più corrotto degli stessi infedeli, tanto "chi purria stari undi la mezza luna", cioè i Traci e gli Ottomani.
A. Mongitore (1714, p. 139) attesta che il F. morì a Palermo il 22 marzo 1670 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria dell'Itria.
Al Mongitore erudito si deve il lungo elenco delle opere a stampa del F., a cui bisogna aggiungere l'inedito poema in dieci capitoli Della vita dell'amari litiganti (ms. della Biblioteca comunale di Palermo, 2 Qq C 66 n. 14). Versi e opere del F. sono raccolti in G. Galeano, Le Muse siciliane sacre, Palermo 1653, IV, pp. 315-322; C. Piola, Poesii siciliani di P. F., Palermo 1858; Rime popolari e rime a stampa, a cura di C. Di Mino, Palermo-Roma 1947; La Rosalia. Poema epico, a cura di F. Conigliaro e altri, Palermo 1991; Puisi e cuntrasti in sicilianu, Palermo 1995.
Fonti e Bibl.: A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi 1714, II, pp. 139 s.; Id., Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili, Palermo 1742, I, pp. 99 s., 385; A. Narbone, Bibliografia sicola sistematica, IV, Palermo 1855, pp. 158, 168, 523; L. Vigo, Raccolta amplissima di canti popolari, in Opere, II, Catania 1874, pp. 56 s., 504; G. Pitré, P. F. e le sfide popolari siciliane, in Nuova Antologia, settembre 1871, pp. 41-81; G.M. Mira, Bibliografia siciliana, I, Palermo 1875, pp. 374 s.; L. Boglino, Intorno ad un poemetto inedito in ottava rima di P. F., Palermo 1878; Id., Di talune notizie su P. F., in Nuove Effemeridi siciliane, IX (1880), pp. 311-314; G.F. Bracciante, Per un poeta siciliano del sec. XVII. Cenni illustrativi sulla vita e le opere di P. F., Palermo 1910; L. Natoli, Musa siciliana, Milano 1922, pp. XXXIII, 102 s.; G. Girgenti, Le stramberie di Petru Fudduni, Palermo 1975; M. Sacco Messineo, Poesia e cultura nell'età barocca, in Storia della Sicilia, IV, s.l. 1980, pp. 465 s.