GABUZIO, Pietro
Nacque a Montalboddo (dal 1881 Ostra) presso Senigallia, fra il terzo e il quarto decennio del sec. XVI da famiglia del patriziato locale, presente nel Consiglio cittadino già nel sec. XV e ininterrottamente per tutto il XVI. Della giovinezza del G. si sa solo che, rispettando la tradizione familiare, si dedicò alla carriera militare, mettendosi - forse dopo essere stato bandito dallo Stato della Chiesa - al soldo della Repubblica veneta col grado di capitano. Raggiunse la fama - e la benevolenza della Serenissima, che non gli verrà mai a mancare - durante l'assedio di Famagosta, nel 1571.
In questa occasione gli fu assegnata da Marcantonio Bragadin la difesa della cortina al cavaliere dei volti e del torrione di Campo Santo. Il 21 giugno al primo assalto dei Turchi il G. e la sua compagnia difesero strenuamente il torrione dell'arsenale subendo gravi perdite; lo stesso G. fu ferito in modo grave.
Caduta la fortezza il 5 agosto, il G. venne fatto prigioniero e condotto schiavo ad Aleppo, dove rimase per circa un anno. Poté tornare a Venezia, grazie all'intervento della Repubblica, che pagò il riscatto. Quale premio al valore e alla fedeltà dimostrati, l'11 sett. 1574 il Senato veneto lo nominò colonnello, assegnandogli negli anni seguenti vari incarichi militari nelle fortezze dello Stato di Terraferma e da Mar. Nell'aprile del 1580 era di guarnigione a Sirmione; alla fine dello stesso anno ricevette l'ordine di recarsi con la sua compagnia a Crema in qualità di governatore della fortezza; nel 1583-84 era al comando della fortezza di Legnago.
In questi anni il G. ebbe un cruento dissidio con il duca di Montemarciano, Alfonso Piccolomini, famoso bandito, il quale, ritenendolo colpevole di averlo screditato dinanzi a papa Gregorio XIII, per vendicarsi mise a ferro e fuoco Montalboddo e varie volte lo minacciò di morte. In particolare nell'ottobre del 1580, in una lettera ai capi del Consiglio dei dieci, il G. lamentava di essere stato assalito dagli uomini del rivale, capeggiati da un bandito di nome Selvatico, in prossimità di Loredo, nel Bresciano, mentre muoveva con la sua compagnia alla volta di Crema. Ne era comunque uscito vincitore, infliggendo gravi perdite agli avversari e uccidendo lo stesso Selvatico. L'inimicizia con il Piccolomini si protrasse fino alla morte di questo, nel 1591. Lo stesso G. contribuì alla sua sconfitta e cattura, scendendo in campo a fianco delle soldatesche pontificie e toscane con un drappello di albanesi a cavallo, concessogli dalla Serenissima.
Nel marzo del 1592, per intervento di Almorò Tiepolo, provveditore in Golfo contro gli Uscocchi, il Senato incaricò il G. di arruolare 1000 fanti italiani e di condurli in Dalmazia, dove era ripresa più aspramente la lotta contro quei pirati.
Grazie alla rete di amicizie di cui disponeva in Romagna e Marche, il G., trasferitosi dalla Dalmazia ad Ancona, si accordò con Marco Sciarra, suo fratello Luca e Battistella d'Alatri - risoluti banditi che infestavano le terre pontificie - i quali accettarono di porsi con 500 fanti al soldo della Repubblica. Costituì certo una buona premessa a questo accordo il fatto che Marco Sciarra, nel 1589, avesse trovato rifugio in Schiavonia fra le file dei soldati del Gabuzio. Sotto la prudente direzione del G. i banditi e le loro milizie furono furtivamente imbarcati a Cittanova su due galere, inviate dal Tiepolo.
A seguito di questa operazione, per tutto quell'anno il G. fu oggetto di un'aspra controversia tra le autorità pontificie e la Repubblica veneta. Clemente VIII insistette a lungo con Leonardo Donà, ambasciatore straordinario a Roma, perché non solo fossero restituiti i fuorusciti, ma lo stesso G. fosse esemplarmente punito. Ma la Repubblica, del tutto soddisfatta del comportamento del G., non cedette e infine, premendo cose di maggiore importanza nello scacchiere internazionale, il papa rinunziò ad ogni risarcimento. Nel frattempo il Senato aveva deciso di inviare i fuorusciti a Candia e aveva affidato al G. i lavori di fortificazione dell'isola di Cerigo. Negli anni seguenti il G. continuò a esercitare incarichi nello Stato da Mar e di nuovo in quello di Terraferma, soprattutto nel campo delle costruzioni militari: nell'aprile del 1597 fu inviato a Rovigno, per verificare lo stato delle mura; dopo poche settimane passò per ordine del provveditore Tiepolo a Traù e poi a Spalato; nel 1598 era in servizio a Zara; nell'inverno del 1599, dopo una licenza di pochi mesi a Roma per affari personali, era di nuovo in partenza per la Dalmazia. Infine tra il 1600 e il 1601 fu distaccato a Peschiera per sovraintendere alle opere di fortificazione.
Probabilmente questo fu l'ultimo incarico del Gabuzio. Il 20 ag. 1603, nella sua abitazione veneziana in piazza S. Marco, colpito da apoplessia, dettò il testamento con il quale lasciava tutti i suoi beni mobili e immobili, a Venezia e a Montalboddo, al fratello Giovanni Conte e ai figli maschi di questo. Al nipote Conte, che aveva intrapreso la sua stessa carriera al servizio della Repubblica e che al suo fianco aveva combattuto in Dalmazia, lasciò le proprie armi.
La morte, di cui si ignora il giorno esatto, dovette seguire di lì a poco.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Terra, regg. 50, cc. 45rv, 56r; 52, c. 36v; 53, cc. 13v, 53v; 54, cc. 4v-5r, 110v, 116r; 55, cc. 23v-24r, 32v-33r; 60, cc. 37v-38r; 61, c. 59r; 62, c. 54r; 63, c. 38r; 65, c. 54rv; 67, c. 107r; Senato, Secreta, Capi da guerra, b. 2 (tre lettere del G.); Capi del Consiglio dei dieci, b. 307 (una lettera del G.); Provveditori da Terra e da Mar, ff. 1261-1262 (dispacci di Almorò Tiepolo), 1263 (dispacci di Almorò Tiepolo e Zuane Bembo); Sezione notarile, Testamenti, b. 57, n. 496 (per il testamento); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Cicogna, 2993/IV (Estratti stor. intorno l'assedio e la resa di Famagosta 1570-71), cc. 11v-12r; Relatione di tutto il successo di Famagosta, Venetia 1572, pp. 3 s., 7; Le relaz. degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, X, a cura di E. Alberi, Firenze 1857, p. 394; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, VIII, Provveditorato di Legnago, Milano 1977, p. 62; X, Provveditorato di Salò - Provveditorato di Peschiera, ibid. 1978, p. 269; XIII, Podestaria e capitanato di Crema - Provveditorato di Orzinuovi - Provveditorato di Asola, ibid. 1979, p. 73; A. Morosini, Leonardi Donati Venetiarum principis vita, Venetiis 1628, pp. 24-26; A. Rossi, Notitie historiche di Mont'Alboddo, Senigallia 1694, pp. 127 s.; I. Diedo, Storia della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino l'anno 1747, Venezia 1751, I, pp. 370-372; A. Morosini, Della storia veneziana, Venezia 1782, pp. 158-164 (sul contrasto tra il pontefice e Venezia in materia di fuorusciti); G. Colucci, Delle antichità picene, XIII, Fermo 1791, p. XCVIII; XXVIII, ibid. 1796, pp. 43-45; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni venez., IV, Venezia 1834, p. 416; G. Cappelletti, Storia della Repubblica di Venezia, IX, Venezia 1853, pp. 279-281; A. Rossi, Di una controversia fra la Repubblica di Venezia e Clemente VIII, in Arch. veneto, n.s., XXXVII (1889), pp. 259-290; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, II, Messina 1921, pp. 520 s., 751, 754 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, XI, Roma 1929, p. 592; F. Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959, pp. 207, 213 s.; I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo dello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, pp. 98, 218.